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Autore: Adeia Di Elferas    18/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico Sforza sorrise in modo un po' stentato, guardando il viso barbuto e ancora impolverato di Francesco Gonzaga.

C'erano volte in cui proprio non capiva la poca cura che gli uomini d'arme avevano per il proprio aspetto. Gonzaga era un Marchese, a colloquio con un Duca. Eppure pareva di vedere un bracciante intento a discorrere della decima con un fittavolo.

“Questa è la mia offerta.” ribadì il Moro, allargando le braccia, mostrando i palmi delle grandi mani.

Francesco non poté evitare di pensare tra sé a come le mani dello Sforza fossero più adatte a un arzatore che non a un Duca. Tutto, in quell'uomo, gridava campagna, secondo lui. Aveva una terra ricca e raffinata come il Ducato di Milano, eppure continuava a correre in chiesa a pregare per la moglie morte o nei campi a vedere come veniva su i suoi gelsi.

Per il Gonzaga, Ludovico restava un grande mistero.

“Trentamila ducati l'anno.” sottolineò Bartolomeo Calco, seduto al banchetto lì accanto, la penna in mano e gli occhi fissi sul mantovano, quasi a volerlo convincere con il solo potere dello sguardo.

“Non è poco.” convenne Francesco, con un mezzo inchino.

Se solo Isabella avesse accettato di accompagnarlo a Milano, il Marchese ne era certo, il Moro avrebbe proposto un'offerta più alta. Tutti sapevano che il Duca aveva da sempre un debole per la cognata. E poi, anche di questo Francesco era certo, Isabella avrebbe saputo fingere meglio.

Quando il Duca gli aveva chiesto se fosse vero che tutti i ponti con Venezia erano stati tagliati, il mantovano non era stato capace di trattenere un fremito nell'assicurare che era così. Gli sembrava quasi che gli si potesse leggere in fronte che, invece, aveva passato giorni interi a scrivere lunghissime lettere per il Doge e che Barbarigo si fosse preso il disturbo di rispondergli, cedendo alla fine e lasciandogli uno spiraglio di speranza.

“Dunque? Avanti, cognato...” soffiò Ludovico, sistemandosi sullo scranno, una mano sul pancione abbondante e una sul bracciolo: “Sappiamo che siete senza ingaggi. Volete che vostra moglie diventi lo zimbello d'Italia? La donna più elegante della penisola costretta a indossare lo stesso abito per due volte consecutive?”

La risata, grassa ed eccessiva del Duca, diede molto fastidio al Marchese che, inginocchiatosi, mise da parte l'orgoglio e disse: “Accetto di buonagrazia la vostra offerta.”

“Oh! E ci voleva tanto?” esclamò allora Ludovico, alzandosi e facendo rialzare anche il suo ospite.

Disse a Calco di preparare al più presto i documenti e poi si rivolse al mantovano: “Adesso resterete alla mia corte almeno fino all'inizio di giugno, ve ne prego. Il rischio di qualche epidemia è troppo alto, non mi fido a lasciarvi andare per strada...”

Francesco, tentato di rifiutare, ricordò le parole secche e precise che la moglie gli aveva detto prima di lasciarlo partire: “Qualsiasi offerta di gentilezza, tu prendila. Guai a te se l'offendi solo perché sei stanco di qualche banchetto.”

Così il Marchese sorrise e accettò. Accettò pure quando il Moro, con fare apparentemente casuale, dopo avergli chiesto come stesse Isabella, gli domandò il favore di ricambiare l'ospitalità lasciandolo tornare con lui a Mantova in giugno.

“A tal modo – precisò il milanese – vi farò avere subito diecimila ducati per coprire i primi debiti, e poi potrò finalmente rivedere la vostra adorata moglie. Isabella e io andavamo molto d'accordo, sapete?”

Il Gonzaga ingoiò un bel po' di bile e poi, con un'espressione che di certo doveva apparire stolida, annuì e confermò: “Sì, so che avete gusti simili. In fatto d'arte.”

 

Caterina era appoggiata al davanzale della finestra e guardava giù, verso il figlio che, nel cortile d'addestramento, stava facendo pratica con il cavallo.

Secondo il maestro d'armi, lo spazio relativamente ristretto del cortile era l'ideale per spiegare a Ottaviano come manovrare il destriero nel centro della battaglia. Così, aiutato da altri soldati, l'uomo incalzava il figlio della Contessa, facendolo scartare da un lato all'altro e cercando di disarcionarlo.

“Non se la cava poi troppo male.” commentò Giovanni, arrivando alle spalle della moglie e mettendosi poi accanto a lei a guardare Ottaviano che accennava un goffo esempio di caracollo, guidato dalle grida imperterrite del suo maestro.

“Potrebbe cavarsela meglio.” ribbatté la Tigre a denti stretti, proprio mentre la bestia del figlio si imbizzarriva di nuovo, scaricandolo a terra.

Con un'espressione amareggiata, la Sforza voltò le spalle alla finestra e guardò il marito. Quel giorno il Medici pareva in gran forma. Malgrado facesse molto caldo, il clima era così secco da giovare ai suoi dolori articolari e quindi sembrava ringiovanito di colpo, tanto da non zoppicare nemmeno troppo.

“Vedrai che andrà tutto bene – assicurò Giovanni appoggiandole una mano sulla spalla e sorridendole – non lo mandi mica da solo. E là vedrai che i tuoi Capitani troveranno un modo per tenerlo al sicuro.”

Caterina stava per dire qualcosa, ma la voce di Luffo Numai la distrasse: “Mia signora! Mia signora!” la stava invocando, dal fondo del corridoio.

La Leonessa comprese subito che qualcosa non andava. Seguita a ruota dal fiorentino, colmò in fretta la distanza dal suo prezioso Consigliere e gli chiese che fosse successo.

“Tiberti è stato catturato.” spiegò l'uomo, porgendole il resoconto della battaglia di San Regolo che era appena arrivato a Forlì con una staffetta rapida: “Con lui tutti i comandanti fiorentini che hanno preso parte allo scontro.”

Caterina lesse in fretta il messaggio. Lì si diceva che i suoi si erano battuti fino allo stremo, ma che Achille Tiberti era stato preso come ostaggio. Si diceva anche che Ranuccio da Marciano, invece, fosse riuscito a scappare. Anche se non veniva specificato apertamente, si intuiva che, secondo lo scrivente, la fuga era riuscita per le conoscenze personali dell'uomo.

Giovanni, che aveva letto da sopra la spalla della moglie, guardò Numai e disse: “Firenze ha fatto avere solo questo messaggio?”

Luffo annuì e poi guardò la Contessa, in attesa di ordini ufficiali. La donna, però, ripiegò con lentezza la lettera e se la infilò in tasca, guardando oltre la finestra.

“Come ci muoviamo per Tiberti, mia signora?” la incalzò dopo un po' Numai.

“Questo è solo l'inizio.” fece la Tigre, scuotendo appena il capo: “Per ora non facciamo nulla. Che sia Firenze a mercanteggiare per la liberazione degli ostaggi.”

Numai, che credeva, come tutti, che la Sforza avesse sempre avuto un occhio di riguardo per Achille Tiberti, rimase spiazzato. Sbattendo più volte le palpebre, alla fine si disincantò e fece un inchino abbastanza profondo, prima di congedarsi.

“Però voglio che raduniate l'intero consiglio di guerra entro sera.” aggiunse la Leonessa, mentre il forlivese si allontanava: “Dobbiamo discutere ogni possibilità.”

Appena Luffo se ne fu andato, Caterina tornò, come nulla fosse, a guardare dall'altro gli sforzi di Ottaviano. Giovanni, che invece era rimasto un po' più scosso dalle novità, era ancora nel centro del corridoio.

“Tiberti se la caverà.” disse piano la Contessa, rivolgendosi al marito: “E se non se la dovesse cavare, avremo un cadavere in più da recriminare al tavolo della pace.”

Il Medici deglutì. Era da sempre invischiato anche lui negli affari di Stato, ma, malgrado tutto, si sentiva un uomo di pace.

Vedere come invece sua moglie gestiva, non solo praticamente, ma anche emotivamente quel genere di incombenze, lo fece sentire inadeguato.

“Non credere che non mi spaventi, tutto questo.” fece la donna, voltandosi di nuovo verso di lui.

La luce calda di maggio lanciava i suoi raggi sul fiorentino, mentre le si avvicinava, dando al colore straordinario delle sue iridi una sfumatura intensa e molto particolare.

Con un sospiro, teso, Giovanni si rimise accanto a lei e, cingendole i fianchi con un braccio, si sforzò di calmarsi e si mise a osservare con la moglie il povero Ottaviano che, sudato, spettinato e disperatamente deciso a non rendersi ulteriormente ridicolo agli occhi della madre, continuava i suoi esercizi ripetendo costantemente i medesimi errori.

 

Lorenzo Medici guardò con occhio spento i manovali che, nella luce calante della sera, segavano via la trave che a molti aveva dato l'impressione di essere una croce.

La condanna a morte per Savonarola, permessa dal papa con tutti i crismi, sarebbe stata eseguita la mattina seguente. Tutti sapevano che si era scelto di arderlo vivo, eppure vedere quel simbolo svettare sul palchetto che era stato allestito davanti al palazzo della Signoria aveva subito fatto cominciare una girandola di commenti che avevano portato all'ipotesi più assurda, ovvero che il domenicano sarebbe stato crocifisso.

Il Popolano rimase immobile a guardare fino a che il pezzo di legno non cadde assieme a quelli accatastati che avrebbero fatto da materiale per il falò del frate.

Non sapeva nemmeno lui dire come si sentiva in quel momento. Da un lato avvertiva, chiara e netta, l'aria di rivalsa che aveva atteso fino a quel momento. Dall'altro, si sentiva un assassino.

Appena i manovali scesero dal palchetto, parlottando tra loro con un accento stretto, che denunciava la loro provenienza da fuori le mura, Lorenzo si strinse nelle spalle e voltò i tacchi.

Mentre camminava silenzioso, senza dare ascolto ai fiorentini che ancora si accalcavano nelle strade, parlando di Savonarola e dell'esecuzione che sarebbe arrivata al mattino, il Medici si trovò a ripensare al passato.

Aveva fatto tutto quello che era in suo potere, per mettere le mani su Firenze. E lo aveva fatto quasi esclusivamente per vendicarsi di suo cugino che, invece di prendersi cura di lui e Giovanni come aveva promesso, se n'era fatto gioco, rubando loro proprietà e denari.

Ora che era a un passo dall'ottenere quello che concupiva da anni, si sentiva vuoto. Suo fratello era lontano, sposato a una donna spregevole. Sua moglie Semiramide quasi non gli scriveva nemmeno più e, quando si vedevano, Lorenzo si sentiva così pesantemente giudicato da lei da non osare quasi più parlarle. Suo figlio Averardo era morto. Suo figlio Pierfrancesco, il suo erede designato, aveva la testa da banchiere e non da statista.

E Firenze...

Lorenzo sollevò gli occhi imbronciati, le mani dietro la schiena e il vento serale e profumato che spazzava via il tanfo della fame gli scompigliava appena i corti capelli un po' ricci.

Firenze, con le sue strade confuse, la sua violenza e le sue rimostranze, non era più la Firenze che aveva amato da ragazzo.

Quando finalmente arrivò a palazzo, lasciò detto alla servitù che non avrebbe mangiato e poi, chiusosi in camera, perse la sera e la notte a guardare dalla finestra, cercando di capire cosa ancora ci fosse da salvare in quella città che prima aveva santificato in vita un frate, per poi condannarlo a bruciare come un eretico.

 

“Dunque non ha intenzione di fare niente, per liberare Tiberti?” chiese atono Tommaso Feo, guardando verso il camino mezzo spento.

Il Governatore di Imola gli si sedette accanto, allungando i piedi e stirando le gambe, stanche dopo quella giornata campale passata tra i soldati e gli altri impegni di Stato: “Vuole aspettare di vedere cosa fa Firenze. Dice che è importante mantenere i giusti rapporti di potere. Deve essere la Signoria, la prima a esporsi, dimostrando quanto è pronta a pagare o a rischiare per recuperare i prigionieri. Si dice che abbiano licenziato Ranuccio da Marciano e che al suo posto abbiano dato l'incarico di comandante generale a Paolo Vitelli. Immagino che la Contessa stia aspettando di vedere che fa lui.”

Gli occhi scuri di Tommaso si incupirono ancora di più, mentre le labbra, coperte appena dalla barba grigia e dai baffi tenuti troppo lunghi, si incurvavano appena verso l'alto: “Secondo me ha qualche altro motivo per fare così.”

Simone si accigliò e guardò per qualche istante il suo predecessore. Nel tempo aveva imparato a conoscerlo un po' e in quei giorni, accogliendo la sua offerta di aiutarlo, stava cominciando a capire di più il suo modo strano di parlare.

Quelli che lo avevano conosciuto anche prima gli avevano detto che il Feo non era sempre stato un uomo così secco e di poche parole e che anni addietro, per quanto fosse sempre stato un soldato dalla ferrea morale, su cui mai si era potuto dire nulla di sconveniente – salvo che sul suo cieco amore per la Contessa Riario, noto a tutti, praticamente – lo si sarebbe addirittura potuto definire affabile e cordiale.

Ridolfi, invece, aveva avuto a che fare con lui solo negli ultimi tempi, dopo che Tommaso aveva perso la moglie e quindi non poteva fare un confronto diretto, ma solo basarsi su quello che gli era stato raccontato.

“Che intendete?” gli chiese, cercando di scavare a fondo nella questione.

Era certo che il Feo conoscesse la Tigre e i suoi metodi molto meglio di chiunque altro, ma gli era altrettanto chiaro che l'ex braccio destro della Sforza non fosse poi molto incline a spiegare agli altri come ragionasse quella donna.

Tommaso schiuse le labbra, quasi deciso a spiegare la sua idea, ma poi agitò in aria una mano e domandò: “Erano veri quei casi di peste nelle campagne?”

Simone fece una smorfia, al ricordo del tanfo che aveva dovuto annusare in una delle casupole in cui era stato. C'era stata la denuncia formale di un paio di casi di peste, ma alla fine nessuno dei morti era davvero un appestato, per fortuna.

“No, no... Chissà che avevano pensato...” fece Ridolfi, sistemandosi meglio sulla poltrona e chiedendosi a che ora sarebbe rientrata sua moglie.

Non gli dispiaceva, dopo cena, chiacchierare un po' con il Feo, ma quel giorno era tanto stanco da non vedere l'ora di avere una scusa per lasciarlo di nuovo alla sua solitudine.

“Però – riprese il Governatore, non nascondendo la sua preoccupazione – la siccità comincia a essere un problema e il caldo pure. I topi si stanno spingendo sempre più allo scoperto e la Contessa dice di vigilare, perché un'epidemia non è così improbabile. E adesso, con il grosso dell'esercito ancora in stallo, sarebbe una vera catastrofe...”

Tommaso Feo annuì appena e poi borbottò: “Quella donna la fa scappare, la peste. È il diavolo che ha paura di lei, non il contrario. Imola e Forlì possono stare tranquille.”

Il Governatore, per quanto confidasse nei poteri della Contessa, non era del tutto d'accordo, però non controbatté, per evitare spiacevoli discussioni.

“Le avete più scritto?” chiese Simone, riferendosi chiaramente alla Sforza.

Il Feo strinse i denti e rispose: “Perché avrei dovuto?”

“Per farle le congratulazioni per la nascita del figlio, per esempio – fece Simone, con fare di ovvietà – sapete, Ludovico è proprio un bambino bellissimo. Assomiglia molto alla Contessa e credo che da grande sarà...”

Tommaso non gli diede il tempo di finire. Già in piedi, si congedò con un secco cenno del capo e gli augurò una notte tranquilla, prima di sparire al piano di sopra dove i coniugi Ridolfi gli avevano concesso di prendere una stanza.

 

Nell'aria immobile e pregna di incensi di quel 23 maggio, Firenze guardava Don Domenico da Pescia, Silvestro Maruffi e Girolamo Savonarola, i tre condannati di quel giorno, venir spogliati dalle loro vesti da religiosi e avviati al patibolo.

Il domenicano che aveva acceso le prediche più infuocate d'Italia, quasi tremava, la voce imprigionata nel petto, gli occhi sgranati a fissare i legni che lo attendevano per farlo bruciare come un eretico.

Volutamente gli Otto non avevano voluto giustiziare Savonarola da solo. Non volevano creare un martire. Uccidendolo assieme ad altri, avrebbero tolto prestigio e importanza alla sua figura. Nel morire, quel frate che si era posto da solo sul più alto dei piedistalli, sarebbe stato allo stesso livello di altri eretici e spergiuri.

I tre, vestiti da un semplice tunicone bianco, vennero costretti ad attraversare il corridoio del palchetto che portava fino alla forca, dove tre corde già attendevano i loro colli.

Don Domenico da Pescia borbottava tra sé delle preghiere, ma anche la sua gola si seccò quando, nel camminare scalzo sul legno, sentì delle punte aguzze ferirgli le piante dei piedi.

Sotto alle assi, infatti, decine di bambini erano state assiepate e fornite di spuntoni e ferri, affinché ferissero i condannati mentre si avviavano al loro destino.

Silvestro e Domenico, in rapida successione, vennero di nuovo indicati come colpevoli di eresia e vennero impiccati nell'arco di pochi minuti.

Savonarola guardò i loro corpi contorcersi, mentre l'asfissia toglieva loro ogni forza. Guardò le loro lingue scivolare fuori dalle labbra e i loro occhi puntellarsi di rosso, fino a sembrare sul punto di uscire dalle orbite.

Con il cuore che batteva rapido, quasi volesse finire i colpi a lui concessi prima che la corda gli togliesse il respiro, il frate seguì docilmente il suo boia. Il silenzio di Firenze era tanto profondo da fare quasi paura.

Savonarola per poco non inciampò, mentre gli veniva messo il cappio. Per lui avevano scelto un posto quasi privilegiato: in mezzo agli altri due.

Il suo naso adunco si sollevò a guardare i cadaveri dei suoi sostenitori e poi, prima che potesse rendersene conto, sentì il nodo stringersi attorno al collo e in breve mancargli la terra sotto ai piedi.

Combatté con tutto se stesso, agitandosi come un pesce all'amo, anche se sapeva che nemmeno Dio poteva più salvarlo.

Appena il corpo del frate smise di muoversi, la folla di Firenze esplose in un boato di grida e inni e i boia dovettero sbrigarsi ad appiccare il fuoco sotto alla forca, prima che qualche infervorato presente salisse di forza sul palco a prendere di persona le fiaccole dando il via al rogo.

Le fiamme si spansero molto in fretta, attaccandosi subito alle vesti di stoffa grezza dei tre morti. In un batter d'occhio, i corpi si erano trasformati in fiaccole essi stessi e rilucevano di un rosso selvaggio, che scoppiettava appena, sollevano rivoletti di fumo e spandendo nell'aria di Firenze il sentore acre della carne abbrustolita.

Mentre il fuoco gli arrivava al capo, un braccio si staccò dal corpo di Savonarola e ricadde in terra, verso la folla. Indice e medio erano ancora riconoscibili, dritti e rigidi in un segno che sembrava una benedizione tardiva e inutile, intaccati dalle fiamme quel tanto che bastava per farli sembrare si creta.

Quando il falò perse vigore e dei corpi non rimasero che le ceneri, si recuperò il tutto con dei carretti e, come se fosse una processione funebre in piena regola, i fiorentini accompagnarono ciò che restava di uno dei loro peggiori incubi fino all'Arno.

Le ceneri vennero gettate tra i flutti del fiume e in pochi istanti l'acqua tornò limpida, come se Savonarola non fosse mai esistito.

 

“E se restassi ancora incinta?” chiese piano Giovanni, continuando a passare lentamente la punta delle dita sulla spalla della moglie.

Erano tornati da poco da un controllo al Quartiere Militare e la Contessa, in vista della visita del Vescovo di Volterra attesa per l'indomani, aveva deciso di fare un bagno. Erano bastate poche parole per convincere il marito a seguirla nella tinozza.

L'acqua era ancora calda, benché fossero immersa già da un po'. Dapprima avevano discorso di quello che avevano visto nel quartiere delle truppe, soffermandosi soprattutto sulla scelta dei soldati da mandare a Firenze assieme a Ottaviano, ma poi erano passati a parlare di cose più personali.

Caterina, appoggiata con la schiena al petto del marito, fece uno sbuffo.

Il Medici, allora, rimarcò: “Lo sai che noi non si sta facendo nulla per evitarlo. Potrebbe capitare, se andiamo avanti così.”

“E allora?” ribatté la donna, voltandosi appena verso di lui: “Ludovico ci è venuto bene, no?”

Giovanni strinse le labbra carnose e sollevò lo sguardo, sistemandosi un po' contro la parete della tinozza. Era ricoperta da un pesante panno di stoffa, ma la ruvidità del legno al di sotto si sentiva comunque.

“Per favore, Caterina – la riprese – sii seria.”

“Ma guarda che la sono.” fece piano lei, sfiorando il collo dell'uomo con la punta del naso.

Siccome il Popolano non sembrava incline ad assecondarla, la donna fece un sospiro e si scostò un po' da lui.

“E comunque – precisò, notando con disappunto come Giovanni fosse rimasto serio – è difficile restare incinta quando ancora si sta allattando. Io ho poco latte, è vero, ma ciò non toglie che...”

A quel punto il Medici stava per ribattere in qualche modo, ma la moglie, vedendo che la sua espressione si era ammorbidita un po', gli tornò vicina.

Smuovendo un po' le acque, lo strinse a sé e lo baciò, sussurrandogli poi: “Senza contare che ne parli come se ti dispiacesse, correre il rischio di avere un altro figlio da me...”

Punto sul vivo, e messo in tentazione dai movimenti inequivocabili della Tigre, Giovanni non riuscì più a trattenere un sorriso e, mentre la donna gli passava una mano tra i riccioli, inumidendoli, il fiorentino iniziò a dire: “Se proprio s'ha da correre questo rischio...”

Non appena aveva cominciato a baciarla, però, qualcuno entrò senza annunciarsi.

Rosso come il fuoco per vergogna, il castellano abbassò subito lo sguardo, balbettando: “Io... Io non... Perdonatemi, non pensavo... Non sapevo... Credevo steste solo...”

“Per Dio, Cesare, parlate...” lo scosse Caterina, mentre il marito, un po' goffamente, si metteva davanti a lei, stando ben immerso in acqua, volendola difendere dallo sguardo indiscreto del castellano.

Questi, imbarazzatissimo, voltò loro le spalle e annunciò: “Il Vescovo d Volterra è appena arrivato alla rocca e chiede di potervi parlare.”

La Sforza restò un momento in silenzio e poi, con tono autoritario, disse: “Dite al Vescovo che sarò da lui appena mi sarà possibile. Fatelo aspettare nella sala di rappresentanza.”

Cesare Feo non perse nemmeno tempo ad annuire e lasciò la stanza in fretta come se gli avessero sguinzagliato alle calcagna dei cani inferociti.

“E così il Vescovo arriva con un giorno d'anticipo e noi si deve lasciare le cose a metà...” sospirò il Popolano, appoggiandosi al bordo della tinozza come se ne volesse uscire.

“Visto che il Vescovo ha ben pensato di arrivare con un giorno d'anticipo...” fece invece la donna, prendendo per il polso il marito e facendolo risprofondare nell'acqua ormai appena tiepida: “Che aspetti ancora qualche ora...”

Giovanni le fece un sorriso un po' incerto, ma la sicurezza con cui la Tigre prese subito a baciarlo e tirarlo a sé, gli fece capire che non stava affatto scherzando.

“Hai ragione – convenne, lasciandosi prendere dai gesti precisi e per nulla frettolosi della sua donna – che aspetti che si freddi l'acqua, il Vescovo di Volterra...”

   
 
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