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Autore: Adeia Di Elferas    20/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il quarantacinquenne Francesco Soderini, Vescovo di Volterra, stava sbuffando tra sé, mentre in lontananza le campane gli ricordavano che era passata un'altra ora.

Se non fosse stato per la delicatezza delle trattative e per l'importanza che quell'ambasciata avrebbe potuto avere per la sua carriera, il fiorentino prestato al Vaticano avrebbe volentieri lasciato subito Forlì per tornarsene a Roma.

La città gli era parsa scarna, viva, certo, ma più simile a un accampamento militare che non a un centro abitato normale. Si vedevano più soldati che commercianti e ovunque ci si girasse non si scorgevano che armi e gente in armatura.

Quando, poi, era stato condotto dal cancelliere della Sforza fino alla rocca di Ravaldino – quando invece lui era stato certo di venir accolto al palazzo dei Riario – Soderini era stato ancor più sul punto di sentirsi preso per i fondelli.

Poi l'avevano piazzato lì, in una stanza senz'altra mobilia se non un piccolo tavolo, un paio di sedie e un divanetto davanti al camino e gli avevano detto di mettersi il cuore in pace e aspettare.

“Trattare così un uomo del Santo Padre...” borbottò tra sé, andando fino alla piccola finestra che dava verso l'esterno: “Se non fosse per Giovanni...”

Guardando il sole che pian piano andava giù, il Vescovo si trovò a un punto di svolta. Era stanco. Il viaggio non era stato semplice come sperava e aveva anche dovuto fare delle variazioni sul percorso per evitare – almeno così aveva detto la sua guida – alcuni paesi colpiti da epidemie.

Si disse che nessuno l'avrebbe preso come un gesto troppo scortese se, visto che si avvicinava l'ora di cena, si fosse defilato di buonagrazia, andando a cercarsi una stanza per la notte e qualcosa da mettere sotto i denti. Si sarebbe ripresentato alla rocca di Ravaldino il giorno appresso, facendo finta di non essere minimamente infastidito da quel ritardo.

Era già a un passo dalla porta quando, con un movimento secco, questa si aprì. Nella camera entrò la Contessa Riario. Non poteva essere che lei. Il Vescovo la fissò per un lungo istante, mentre involontariamente, le sue narici catturavano un profumo indefinito di olii alle erbe.

La guardò meglio e si rese conto che la donna, vestita in modo semplice, seppure alcuni gioielli al collo e ai polsi lasciassero intendere una disponibilità economica maggiore rispetto a quel che si diceva in giro per l'Italia, aveva i capelli – lunghi e sciolti sulla schiena – un po' umidi.

“Vescovo. Vi aspettavamo solo domani.” disse Caterina, porgendo la mano all'uomo, affinché gliela baciasse.

Questi, concentrato sulle iridi verdi della Tigre, non fece nemmeno mente locale, dimenticandosi del fatto che, essendo lui un alto prelato, sarebbe dovuta essere lei a baciargli l'anello pastorale e non il contrario.

“Perdonate l'attesa – disse Giovanni Medici, alle spalle della Contessa – speriamo non vi siate annoiato troppo.”

Soderini cercò con lo sguardo il suo compatriota. Il Popolano gli stava sorridendo, ma, Francesco se ne rese conto all'istante, nel modo in cui sollevava le labbra c'era un che di freddo.

Anche se erano stati esiliati assieme, anni prima, per lo stesso motivo e dalla stessa persona, in quel frangente sembravano due sconosciuti che si intravedono su due sponde opposte di un fiume.

“No, no, non temete, anzi...” fece il Vescovo, stirando le labbra sottili e facendo un breve inchino ai due: “Almeno così ho avuto modo di riposarmi dal viaggio.”

“Meglio così allora.” tagliò corto la Sforza, chiudendo la porta e facendo cenno al messo papale di sistemarsi dove preferiva.

“Sono solo un po' curioso – sorrise mellifluo Soderini, prendendo posto su uno degli scranni dalla seduta imbottita e occhieggiando verso il lontano parente e la Contessa – mi piacerebbe sapere che genere di impegni tengono una donna come voi lontana dagli affari di Stato...”

Caterina, ben lungi dal farsi impensierire da quelle insinuazioni vaghe, decise anzi di rivoltare il discorso contro lo stesso Vescovo: “Sapete, una donna ha altre cose a cui pensare. Avevo un impegno molto personale che non potevo lasciare a metà.”

E così dicendo, in aperto atteggiamento di sfida, la Tigre si sedette sul divano e fece segno a Giovanni di mettersi accanto a lei. Il Popolano eseguì all'istante, sedendolesi tanto appresso da essere spalla contro spalla con lei.

Senza levare un momento lo sguardo dagli occhi di Soderini, che seguivano ogni gesto con una famelica curiosità, la Contessa appoggiò con disinvoltura una mano sulla coscia del marito e poi riprese a parlare come nulla fosse: “Dunque, siete qui per farmi la proposta ufficiale per conto del papa, giusto?”

Il Vescovo annuì e, dopo essersi schiarito la voce un paio di volte, espose la sua pappardella imparata a memoria, sfoggiando un accento toscano molto mitigato e screziato da chiare inflessioni romane.

Più l'uomo parlava, più la Sforza perdeva il filo del discorso, finendo per chiedersi come facesse quel fiorentino a difendere così bene gli affari della Chiesa e di Rodrigo Borja.

Quando aveva saputo che il papa aveva deciso di mandare proprio il Vescovo di Volterra a Forlì, la Tigre aveva immediatamente subodorato la trappola nella trappola. Non solo il Borja si abbassava a mandare un legato per discutere del matrimonio, quando l'inferiorità di Caterina avrebbe dovuto costringere lei a muovere un ambasciatore, ma addirittura aveva fatto mostra di essere tanto amichevole da spedirle un parente di Giovanni, per quanto di parentela lassa.

La Contessa sapeva che Francesco Soderini era stato incarcerato per qualche tempo assieme a Giovanni e a Lorenzo. Suo marito gliene aveva parlato, anche se in modo molto distaccato, dicendole che lui e il fratello avevano cercato l'appoggio di quel Vescovo per avere qualcuno di autorevole e forzare la mano della Signoria a scacciare Piero il Fatuo.

Quando i giochi si erano ritorti contro di loro ed erano stati arrestati e poi esiliati, Soderini aveva preso in fretta le distanze, diventando un diplomatico d'eccellenza del Santo Padre, e solo suo fratello Piero era rimasto apertamente in politica.

Nemmeno il Medici stava dando molto ascolto a Soderini. Rivederselo davanti gli aveva riportato alla mente i giorni confusi che aveva trascorso nelle carceri del palazzo della Signoria. Più che la paura di poter essere condannato a morte o di qualunque altra cosa, Francesco, con il suo sguardo sveglio e i suoi denti dritti e bianchi gli stava facendo tornare in mente immagini del passato, soprattutto immagini di Firenze.

Soprappensiero, Giovanni aveva appoggiato la propria mano sopra a quella della moglie, che ancora stava sulla sua coscia. Così facendo stava mettendo in mostra le dita un po' rovinate dalla gotta, ma il Vescovo sembrava non averle viste, troppo concentrato nel suo monologo.

Ripensare a Firenze fece tornare nel Popolano una feroce nostalgia di suo fratello, di sua cognata e anche dei suoi nipoti. Da quando era partito, ormai anni addietro, non li aveva più rivisti.

“E quindi – stava dicendo Soderini, impuntilato sul bordo del suo scranno, le mani giunte sul petto e il naso un po' affilato che non smetteva un attimo di vibrare – sarebbe opportuno se vostro figlio Ottaviano raggiungesse al più presto madonna Lucrecia a Roma, in modo da...”

Risvegliata da quelle parole, Caterina scosse il capo e bloccò il messo papale con un imperioso gesto del braccio: “Mio figlio sta per partire per la guerra. Anche se accettassi il compromesso matrimoniale, lui comunque non potrebbe recarsi a Roma in tempi brevi.”

Francesco si morse il labbro inferiore e poi, sbattendo un po' le palpebre, chiese: “Partendo per la guerra?”

“Non fate finta di non saperlo.” rimbeccò la Sforza, quasi annoiata.

Il Vescovo, che in effetti era stato informato dalle spie papali del fatto che ormai Ottaviano Riario aveva strappato una condotta di tutto rispetto – quindicimila fiorini e un buon numero di armigeri non era poco, per un diciannovenne all'esordio – alla Signoria di Firenze, fece un sorrisetto tirato e non insistette nella sua farsa: “Ecco, il Santo Padre era convinto che ci fosse tempo, per una visita a madonna Lucrecia...”

“No, il tempo non c'è.” tagliò corto la donna.

La luce era scesa in fretta e ormai le poche candele accese non bastavano più a rischiarare a sufficienza la saletta. Lo stomaco della Tigre brontolava e tutto quello che desiderava ancora, per quella sera, era un buon pasto e rintanarsi in camera da letto con Giovanni. Quindi, dopo una rapida occhiata con il marito, le cui iridi chiare lasciavano trasparire le medesime intenzioni, la donna decise che rimandare le decisioni importanti all'indomani non sarebbe stato poi molto grave.

Alzandosi, la Leonessa disse al Vescovo: “Si è fatto tardi. Avremo modo di discutere ancora di queste cose domani. Avete dove dormire stanotte?”

Soderini, che avrebbe quasi voluto una stanza alla rocca per spiare le abitudini di Ravaldino, capì dall'espressione della Contessa che la donna gli avrebbe trovato alloggio, se lui l'avesse chiesto, ma di certo fuori dalla rocca. Perciò, assicurò di essere già a posto.

“Volete fermarvi a cena?” chiese Giovanni, guardandolo con insistenza: “Non un banchetto, sia chiaro. Noi si ha l'abitudine di mangiare sgranati, come soldati che ruotano il turno.”

Caterina non capì nell'immediato perché il marito avesse fatto quella proposta, ma si fidava di lui e sapeva che conosceva Soderini discretamente bene. Dunque, si disse, era meglio assecondarlo.

“Sì, vi prego, restate. Questa sera dovrebbe esserci un ottimo stufato di cervo.” sottolineò la Sforza.

Il Vescovo, che aveva fame e si sentiva relativamente tranquillo, se non altro per la presenza di un Medici che era stato per un bel po' suo alleato, annuì e accettò: “Se non sono di troppo...”

 

Pandolfo si mise in bocca l'indice, con una smorfia. Si era inavvertitamente fatto un piccolo taglio con lo stiletto che a volte usava per aprire le lettere.

Era troppo distratto. Anche se cercava di dare a vedere a tutti di essere relativamente calmo e padrone di sé, quell'ennesima scoperta lo aveva destabilizzato.

Succhio il sangue con la mente altrove, quasi senza sentire il saporo ferroso che gli invadeva la bocca e poi si alzò dalla scrivania. Stava un po' gobbo, i muscoli rilassati dopo una giornata passata impettito davanti alla forca.

Quell'ennesima congiura, scoperta all'ultimo istante, era stata un colpo basso, per lui. Era tornato a Rimini da poco, si era fatto convinto che ormai che Venezia era una presenza stabile nel suo Stato, nessuno più si sarebbe azzardato a fargli del male.

E invece quel pomeriggio aveva dovuto far impiccare ben due congiurati che si erano messi in testa di farlo cadere in un agguato.

“Mio signore...” la voce titubante di uno dei servi arrivò da oltre la porta.

Il Malatesta si voltò di scatto e chiese, nervoso: “Che accidenti c'è?”

L'altro, protetto dal legno spesso dell'uscio, attese un momento, prima di rispondere: “Siete sicuro di non voler nulla per cena? I cucinieri hanno preparat...”

“Ho detto che non voglio essere disturbato!” sbottò il Pandolfaccio, avvicinandosi alla porta, per farsi sentire bene: “Se avrò fame, uscirò a mangiare! Adesso voglio stare solo!”

Appena fu certo che il servo si fosse allontanato, il signore di Rimini tornò alla scrivania. Strinse gli occhi alla luce della candela e riprese in mano la lettera di Guidobaldo da Montefeltro.

Questi, scriveva, aveva avuto dei dissapori con i Baglioni, suoi parenti, ma l'intercessione papale e quella veneziana lo avevano in fretta riportato sulla retta via, deciso come non mai a buttarsi a capofitto nella guerra contro Firenze. Su pressioni del Doge, stava chiedendo a Pandolfo di raggiungerlo a Ferrara e da lì organizzare la campagna assieme, convincendo anche il vicino Marchese di Mantova a dare loro sostegno, in segno di buona volontà nei confronti della Serenissima.

Il Malatesta, quel pomeriggio, aveva chiesto, fingendo di farlo per pura chiacchiera, un consiglio a sua moglie Violante. La donna, che ormai non gli rivolgeva quasi mai la parola, se non era chiaramente interpellata, aveva alzato le spalle e non aveva risposto.

Quando il Pandolfaccio aveva insistito nel voler sapere il suo parere, la Bentivoglio aveva lapidariamente ribattuto: “Sei tu il signore di queste terre. Io sono solo una povera donna incinta. Di certo ne sai più tu di me, di cosa è giusto e cosa no.”

Era stato da quel tono piatto e freddo che era scaturita tutta la rabbia del Malatesta. Una rabbia così viscerale e profonda da chiudergli perfino lo stomaco.

Intinse la punta della penna nell'inchiostro e poi, con un profondo sospiro, cominciò a scrivere la risposta per Guidobaldo. Mentre vergava una parola dopo l'altra, però, si rese conto che la sua mano tremava un po'. Se di rabbia o paura, non avrebbe saputo dirlo neppure lui.

 

Il Vescovo di Volterra, senza smettere un istante di occhieggiare per la sala dei banchetti, nel tentativo di carpire il più possibile ogni informazione riguardante la rocca e la sua organizzazione, aveva spazzolato senza troppi problemi più di una portata di cervo.

Una mano sul ventre pieno, Soderini bevve ancora un po' di vino e, constatando come la Contessa da un lato e il Medici dall'altro avessero già finito di mangiare da un pezzo, esclamò: “Mia signora, devo dire che non mangiavo così bene da anni!”

Oltre a Caterina e Giovanni, al tavolo c'erano anche Bianca e un paio di Capitani. A quell'esclamazione nessuno ebbe reazioni particolari, ma Francesco parve deciso a sottolineare di nuovo il concetto, sia perché era rimasto davvero soddisfatto della cena, sia perché ci teneva che si sapesse che non era suo costume lesinare sui complimenti, specie se meritati.

“Appena ne avrò l'occasione, se siete d'accordo – disse l'uomo, rivolgendosi alla Tigre – vorrei tanto fare i miei vivi complimenti ai vostri cacciatori e alle vostre cuoche per questo stupendo stufato.”

“Allora potete anche farlo subito, se ci tenete tanto...” fece Caterina, senza troppo trasporto, gli occhi verdi rivolti all'ingresso, dov'erano appena apparsi Galeazzo e Bernardino che, dopo una lunga giornata, sembravano entusiasti all'idea di mettere un po' di carne sotto i denti.

“Che intendete?” domandò il Vescovo di Volterra, mentre i due figli della Leonessa raggiungevano la tavolata.

Galeazzo si sedette composto accanto alla sorella e cominciò subito a prendere qualche pezzo di carne dal vassoio, versandosi da solo dell'acqua. Bernardino, invece, prima di dedicarsi al cibo, si avvicinò al Medici e gli disse qualcosa che il religioso non riuscì a sentire.

La Sforza si stava riempiendo il calice di vino, provvedendo quasi all'istante a svuotarlo, così, prima che arrivasse la sua risposta, il Vescovo fece in tempo a vedere Giovanni scompigliare con fare affettuoso i capelli di Bernardino e poi dargli un veloce bacio sulla fronte, dicendogli: “E vedrai che domani riuscirai anche a fare centro. Le balestre non sono facili da usare e tu sei ancora piccolo... Dai, prendi un po' di cervo, così cresci forte.”

Il piccolo, che con i suoi quasi otto anni si sentiva già grande, accettò di buon grado le parole del patrigno e gli si sedette accanto, mettendosi a mangiare con solerzia, come se avesse preso il consiglio come un ordine.

“Intendevo dire – spiegò la Contessa, pulendosi le labbra con il dorso della mano – che il cervo l'ho cacciato io. E che tra le cuoche c'era anche mia figlia.”

Indicò Bianca che, alla sua sinistra, abbassò appena la testa, a mo' di conferma, arrossendo un po'.

Soderini rimase un po' stupito da quelle affermazioni e credette di essere stato preso in giro. Così, inconsciamente, guardò il Medici, convinto di vederlo sorridere sarcastico. Quando, invece, lesse sul suo volto un'espressione che si poteva definire fieri, capì che la Contessa non stava affatto scherzando.

“In effetti avevo sentito dire che siete una donna particolare...” 'Ma non pensavo fino a questo punto.' terminò tra sé il messo papale.

La Tigre sollevò un sopracciglio e poi, quando i due Capitani che erano a tavola con loro fecero per andarsene, la donna disse al marito e all'ospite: “Perdonatemi. Devo scambiare due parole con Rossetti e Numai. Giovanni, ti spiace congedare te il nostro ospite, quando avrete finito?”

Il Popolano annuì con un sorriso e poi si alzò per salutare la donna con un bacio sulle labbra.

Il Vescovo abbassò furtivo lo sguardo, fingendo di voler dare loro un minimo di privatezza, ma nella sua testa i pensieri si affollavano. Si diceva di loro che fossero sposati, benché le nozze non fossero state rese pubbliche e che il nuovo figlio della Sforza, Ludovico, fosse a tutti gli effetti un Medici. Si diceva che l'alleanza con Firenze derivasse proprio da quell'unione, ma che i due non facessero mai nulla per far capire agli ospiti stranieri fino a che punto le voci fossero vere.

Un tale sfoggio di vicinanza, sia prima nella sala di rappresentanza, sia ora con quel bacio, a Soderini dava una strana sensazione. Non capiva se facevano così solo perché per loro era normale, o se in qualche modo volevano fargli capire qualcosa.

L'apparente e pacifica indifferenza con cui i figli della Contessa presenti e i due Capitani avevano accolto quel bacio, però, lasciava intendere al Vescovo che la Sforza e il Medici non fossero nuovi a quel genere di effusioni pubbliche.

Senza fare una parola in merito, Francesco prese anche un po' di dolce e poi seguì Giovanni fuori dalla sala dei banchetti, incrociando, solo di striscio, un altro dei figli della Contessa: Cesare. Di nero vestito e con un vistoso crocifisso al collo, il giovanotto lo salutò con reverenza e facendosi il segno della croce.

Il Vescovo, che spesso dimenticava il colore rosso dell'abito che portava, ricambiò in modo molto meno formale, facendo solo un mezzo inchino.

Il Medici gli fece fare una strada strana, che non lo portò immediatamente all'uscita, come invece si sarebbe atteso. L'aveva condotto in un punto abbastanza buio, sotto la tromba delle scale. L'unica luce arrivava da una fiaccola a muro a qualche metro di distanza.

Già il posto non era dei più rassicuranti, quando poi il Popolano si fermò di colpo e, con un gesto tanto rapido che sembrava strano potesse arrivare da uno sciancato come lui, lo prese per la collottola, Francesco desiderò sopra ogni cosa essere da un'altra parte.

“Non provare a fregarci, Soderini.” disse a voce bassa l'ambasciatore fiorentino, avvicinando il viso a quello del messo pontificio: “Siamo stati dalla stessa parte, quella volta, contro Piero, te lo concedo. Siamo stati in gabbia assieme, ma la nostra amicizia inizia e finisce lì. Se provi a ingannarci, non me ne importerà nulla di quello che è stato in passato, chiaro?”

Il Vescovo, che aveva alzato le mani per proteggersi, chiese, con un filo di voce: “Ma che state dicendo, Medici? Io sono qui come messo vaticano... Io non sono qui per imbrogliare nessuno... Il Santo Padre tiene molto al suo figlioccio Ottaviano e...”

Giovanni, che in realtà sentiva le dita della mano dolore come trafitte da mille lame, nel tenere stretta a quel modo la stoffa soffice dell'abito talare di Soderini, rafforzò ancor di più la presa e, dando un piccolo strattone, disse: “Devi essere sincero con me, prete.”

Francesco sgranò gli occhi, avvertendo nella voce del Popolano una vena di reale minaccia che mai avrebbe creduto potesse uscire dalle sue labbra.

“Quella del papa è una trappola, vero?” chiese il Medici.

Prima di riuscire a ragionarci, il Vescovo di Volterra sentì le viscere rivoltarsi per la tensione e fece un rapido cenno d'assenso con il capo.

Giovanni lo lasciò andare di scatto, senza dire nulla e riprendendo a camminare, probabilmente quella volta davvero diretto all'uscita.

“Aspettate...” lo bloccò allora Soderini, afferrandolo per una manica del giubbone su cui si vedevano ricamati i gigli fiorentini: “Aspettate.”

L'altro, senza troppa convinzione, si fermò e lo guardò, interrogativo.

“Quella del papa è una trappola, è vero, ma solo per la Sforza e per suo figlio. Voi, se volete, potete guadagnarci.” spiegò Francesco, indagando, come il buio gli permetteva, lo sguardo del suo conterraneo: “Questa terra andrà ai figli di Lucrecia, dopo il matrimonio, questo sì, ma se ci darete un aiuto a convincere la Contessa Riario, il Santo Padre vi sarà molto riconoscente. Vi aiuterà a riprendervi Firenze. Immaginatevi: voi, signore di Firenze, protetto dal papa in persona. Sarete l'uomo più ricco e più potente d'Italia. Pensateci: Firenze non ce la può fare, senza una potenza come il Vaticano alle spalle. E voi avete l'opportunità di fornire alla vostra patria l'appoggio di cui ha bisogno.”

Giovanni lo ascoltava in silenzio, il volto duro e le labbra strette. Soderini non riusciva a capire che gli stesse passando per la testa. Volendo essere ottimista, credette che il Popolano stesse cominciando a ragionare sopra a quella conveniente offerta.

“Il papa vuole la Romagna, ma solo perché è sua di diritto. Si tratta di raddrizzare un torto. Se voi sarete disposto a convincere la Contessa ad accettare il matrimonio tra suo figlio e madonna Lucrecia, vi libereremo presto di lei e dei suoi figli.” continuò Francesco, avvicinandosi un po' al Medici e parlando in tono più suadente: “Potrete smetterla di fingere di essere innamorato di quella donna. Non vi servirà più. Firenze non avrà più bisogno di uno Staterello come questo a protezione dagli attacchi di Venezia. Sarà Sua Santità, il vostro protettore. E quando sarete libero, se vorrete, il papa stesso vi aiuterà a trovare una sposa che sia degna del vostro rango e...”

“Stai zitto.” lo tacitò Giovanni, a voce molto bassa, senza cambiare espressione: “Ti assicuro, è meglio per te.”

Sentendosi molto stupido e avvertendo un vuoto allo stomaco al pensiero che la sua ambasceria stava fallendo ancor prima di nascere, Soderini non poté far altro che tacere davvero e seguire il padrone di casa – perché tale gli sembrava, quel fiorentino trapiantato in Romagna – fino all'uscita della rocca.

“Fossi in voi – disse il Popolano, con un sorriso serafico, a voce ben alta in modo che anche le guardie del portone sentissero – non perderei tempo a disfare i bagagli. Ho idea che dovrete tornare alle gonne del Santo Padre molto presto.”

Assicuratosi che il Vescovo avesse attraversato il ponte e fosse passato sotto la statua bronzea del Barone Feo, per inoltrarsi poi nel cuore della città, diretto al suo alloggio notturno, Giovanni fece un sospiro pesante e tornò nelle viscere della rocca.

Si ritirò direttamente in stanza e, quando la moglie arrivò, lo trovò ancora perfettamente vestito, seduto alla scrivania, lo sguardo vitreo e la fronte aggrottata.

“È successo qualcosa?” gli chiese, dopo aver chiuso la porta ed esserglisi avvicinata.

L'uomo sollevò lentamente lo sguardo verso di lei e poi fece per parlarle, ma la voce gli morì in gola. Preoccupata per quell'atteggiamento strano, Caterina gli appoggiò una mano sulla spalla e lo fissò con insistenza.

Ci mise un po', ma alla fine Giovanni disse, stentato e un po' in difficoltà: “Dopo che te ne sei andata... Ho cercato di chiedere a Soderini se il papa stesse cercando di raggirarci in qualche modo.”

La Contessa restò in ascolto, appoggiandosi alla scrivania e continuando a guardare il marito.

Questi, dopo aver deglutito un paio di volte, e preso fiato, continuò: “Si sono fatte un po' di parole e alla fine mi ha detto chiaramente che è così.”

“Come potevamo immaginare.” notò la Tigre, ansiosa di capire cosa in particolare avesse scosso così tanto il marito.

“Ecco...” fece il Popolano, dopo essersi passato una mano non molto ferma sulla fronte: “Poi mi ha chiesto... Ecco, mi ha proposto... Mi ha detto che se favorissi il matrimonio tra Ottaviano e la Borja, convincendoti ad accettare, il papa sarebbe pronto a farmi signore di Firenze.”

La Sforza staccò la mano dalla spalla del fiorentino e si raddrizzò. Non si era aspettata che il messo papale cercasse di forzare la mano di suo marito per indurla ad accettare.

Nella sua mente si stava già formando uno strano parallelismo tra Giovanni e Giacomo. Anche il suo secondo marito, da quello che aveva poi scoperto, a suo tempo era stato preso da parte da un ambasciatore che voleva fargli usare il suo ascendente per convincerla ad accettare un accordo svantaggioso...

“Ti ha detto che ti libererebbero di me, immagino.” sussurrò Caterina, ricordando il passato e sentendo ancora la ferita aperta come allora.

Il Popolano fece segno di sì e poi disse, con la voce che si rompeva: “La cosa grave è che per un istante, un solo istante...”

La Contessa capì subito cosa il marito stesse per dire, così preferì non ascoltare delle parole che l'avrebbero solo fatta soffrire.

Gli prese la testa tra le mani e se la strinse al seno, baciandogliela e zittendolo una volta per tutte.

“L'importante è che alla fine hai scelto me.” gli sussurrò, mentre sentiva le sue spalle scuotersi per colpa di un pianto silenzioso: “Alla fine non hai accettato e me ne stai parlando. Questa è l'unica cosa che conta.”

“Ma io mi vergogno – ribatté l'uomo, controllando a stento la voce – di aver anche solo potuto pensare...”

“Siamo tutti deboli, davanti a certe cose.” disse lei, ferma: “E adesso non pensiamoci più. Domani faremo finta di ascoltare le sue proposte e poi lo rispediremo a Roma.”

Giovanni si scostò un po' da lei e la guardò. I suoi occhi erano arrossati e ancora velati di lacrime, ma le sue labbra avevano in sé l'ombra di un sorriso.

“Ce la caveremo anche senza l'appoggio del papa.” concluse Caterina, facendolo alzare: “Rodrigo troverà un marito diverso per sua figlia, e noi imbracceremo le armi, se sarà necessario difenderci anche dal Vaticano.”

Il Medici ci mise un po' per riprendersi, ma alla fine, quando l'animo gli si placò e sentì tornare il sereno, trovò anche lo spirito giusto di mettersi a letto a leggere qualche poesia insieme alla moglie.

Erano quasi assopiti, cullati dalle parole lente e cadenzate dei latini, quando qualcuno bussò alla porta.

“Che c'è ancora...” sbuffò la donna, andando subito ad aprire.

Il castellano, che aspettava fuori, le porse una lettera dall'aria ufficiale e le annunciò: “Notizie da Firenze: hanno giustiziato frate Savonarola.”

   
 
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