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Autore: Adeia Di Elferas    23/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La notizia della morte di Savonarola aveva portato la Contessa e il Popolano a una notte in bianco, trascorsa a discutere e pianificare le mosse future.

Anche se entrambi si erano convinti – sia per quello che aveva scritto Semiramide, sia per lo notizie ufficiali che erano arrivate i giorni prima – che alla fine il frate sarebbe stato davvero condannato, saperlo impiccato e bruciato era tutta un'altra cosa.

“Tuo fratello adesso deve giocarsela bene.” aveva detto a un certo punto Caterina, seduta accanto al marito, le mani strette in grembo e le gambe incrociate: “Se prenderà il potere, se lo prenderà davvero, allora potremo dirci tranquilli. Almeno per un po'.”

Giovanni aveva annuito e, grattandosi un po' una guancia su cui stava ricrescendo la barba, aveva sussurrato: “Se ci riuscisse, tu devi prendere la cittadinanza fiorentina. E così anche i nostri figli.”

La Tigre l'aveva guardato un po', più concentrata nel capire che cosa intendesse davvero con quel 'nostri' che non sull'aspetto politico di quella decisione.

Tutti i nostri figli.” aveva rimarcato quasi subito il Medici: “Anche Ottaviano e Cesare. Anche se hai del rancore verso di loro e anche se ormai sono adulti, e tecnicamente non sottostanno più alla tua potestà, devi far rientrare anche loro.”

Per la Contessa non era una novità, il fatto che Giovanni prendesse tanto sul serio la sua carica di padre adottivo, ma ogni volta che finiva per includere altri a parte Ludovico nell'elenco dei suoi figli, alla donna veniva sempre uno strano nodo allo stomaco.

Da un lato, ne era più che felice. Le dava sicurezza, vederlo tanto sicuro e deciso e far parte appieno di quella famiglia. Dall'altro, però, la semplicità con cui offriva il proprio sostegno anche a chi non aveva il suo sangue nelle vene, le ricordava di quanto lei, che invece ne era la madre, non fosse capace di accettare i propri figli.

Non avevano toccato più l'argomento e a mattina fatta, senza essere riusciti a dormire nemmeno un minuto, avevano dato appuntamento al Vescovo di Volterra.

Appena prima di dare inizio a quelli si preannunciavano discorsi difficili, la Sforza era stata raggiunta dal castellano che le aveva consegnato un dispaccio arrivato da Pesaro. Il suo parente, Giovanni Sforza, le scriveva per dirle che aveva saputo per vie traverse delle trattative preliminari per far sposare Ottaviano a Lucrecia Borja.

'Fate com'havete in animo, cugina, ma vi dico de stare attenta maxime a costei e al di lei padre, chè la sua rete è pronta a catturare chiunque vi si avvicini e farne carne da macello' aveva scritto.

Caterina, leggendo solo una riconferma di quello che già sapeva, aveva fatto a pezzi la lettera per evitare che finisse in mani sbagliate e poi si era preparata mentalmente, assieme al marito, a incontrare di nuovo Francesco Soderini.

Si erano incontrati questa volta a palazzo, nella sala delle udienze, con Luffo Numai e Cardella come unici testimoni.

Soderini, che nella notte aveva ripercorso i suoi errori e aveva capito di avere esili speranze, aveva cambiato del tutto registro e si era scusato per aver dato un'impressione errata.

“Vorrei farvi capire, da amico e parente – cominciò a dire, dopo i primi convenevoli – che anche voi, mia signora, potrete avere gran giovamento da questo matrimonio.”

“Fatemi un esempio.” disse Caterina, fissandolo senza espressione.

Francesco si strinse le mani l'una nell'altra e poi, con il tono di chi sceglie una cosa a caso tra un ventaglio infinito di possibilità, ribatté: “Per esempio, se Venezia dovesse attaccarvi, Sua Santità vi difenderebbe...”

“Con quanti uomini?” domandò all'istante la Contessa, fredda.

Giovanni, accanto a lei, non diceva nulla, ma la sua presenza pesava ugualmente come un macigno, per il Vescovo. Se la Leonessa era seduta dritta sul suo scranno, le mani sui braccioli e il viso inespressivo, impreziosito da una serie di gioielli che probabilmente valevano più denaro che l'intero palazzo, il Popolano se ne stava in piedi accanto a lei in una posa apparentemente rilassata.

Le sue labbra carnose erano appena incrinate verso l'alta, in una sorta di sorriso sardonico che al messo papale metteva i brividi. Aveva le mani dietro la schiena, come Soderini aveva notato teneva spesso, forse a nasconderne la deformità. Il peso si spostava di quando in quando da un piede all'altro, ma sembrava più per noia che non per il dolore che – il Vescovo ne era certo, avendolo osservato bene – doveva provare alle giunture.

“Io...” balbettò Francesco, sforzandosi di fare due calcoli a mente: “Non saprei... Questo spetterebbe al papa deciderlo, anche in base al genere di attacco che...”

“Ho capito. L'aiuto del papa si fermerebbe a qualche pater noster e a una mezza minaccia di scomunica. Andiamo avanti, fate altri esempi.” lo incalzò la Tigre, iniziando a battere la punta delle dita contro il legno dello scranno, con una certa impazienza.

“Ecco...” Soderini si morse il labbro e infine disse, trionfale: “Per esempio il papa ha dato il nulla osta alla condanna di Savonarola per farvi un favore.”

Il messo pontificio, che dando quella notizia sperava di sorprendere la donna impassibile che aveva dinnanzi, rimase deluso. Probabilmente sia lei sia il Medici lo sapevano già. Evidentemente le notizie a Forlì arrivavano più in fretta di quanto si pensasse in Vaticano.

“Savonarola è bruciato, di lui non restano nemmeno le ceneri.” commentò con uno sbuffo la Sforza: “Non mi sembra che rifiutando di far sposare mio figlio a sua figlia il papa possa più ritirare questo suo favore. A meno che Rodrigo Borja non sia davvero un negromante come dicono...”

“Sua Santità papa Alessandro VI – disse piccato Soderini, sconcertato dalla disinvoltura con cui una donna pronunciava il nome secolare del pontefice massimo – non ha nulla a che fare con quel genere di stregoneria!”

“Certo, certo...” ridacchiò Caterina, mostrando per la prima una reazione che anche Giovanni riconobbe per sincera: “Soprattutto perché quel genere di idiozie non esiste.”

Il Vescovo di Volterra strinse le labbra e poi domandò, chiaro e netto, a costo di far saltare una volta per tutte le trattative: “Dunque, siete intenzionata a firmare il compromesso di matrimonio tra vostro figlio e madonna Lucrecia o no?”

“E perché dovrei firmarlo?” fece allora la Contessa, tornando tremendamente seria: “Mio figlio non ci guadagna nulla, se non una moglie di bell'aspetto. Anzi, una vedova di bell'aspetto. Merce pregevole, ma di seconda mano.”

“Madonna Lucrecia è illibata. C'è anche un processo ufficiale che...” iniziò a dire Soderini, infervorandosi.

“Un processo ufficiale pilotato da suo padre il papa.” precisò la Leonessa, alzandosi e avvicinandosi a Francesco: “A proposito, come sta il figlio che a partorito poco dopo aver vinto suddetto processo? A proposito, alla fine si sa chi sia il padre? Molti dicono sia Sua Santità, ma altri vedono come favorito il caro Cesare...”

Soderini sbiancò e farfugliò: “Voi..! Come... Come vi permettete?!”

“Avanti... Lo dicono tutti.” tagliò corto Caterina, cercando anche lo sguardo del marito, che, però, aveva abbandonato il sorriso serafico, prendendo una piega dura.

“Il fatto che lo dicono tutti non significa che sia vero.” ribatté con forza il Vescovo.

“Ah, su questo vi do ragione.” annuì con gravità la donna: “Anche di me dicono molte cose. Per esempio, dicono che dopo averli fatti miei per una notte, io getti i miei amanti in un pozzo con pareti piene di lame affilate... Peccato sia successo solo una volta.”

L'espressione pungente che illuminò la Tigre e lo strano rossore che prese il collo del Medici, per una frazione di secondo fece pensare al Vescovo che la signora di Imola e Forlì non stesse affatto mentendo.

“Per farla breve – fece l'uomo, stanco di farsi prendere in giro – avete deciso di rifiutare?”

“Ho deciso di rifiutare.” confermò Caterina, senza esitazione.

“Potevate risparmiarmi tante parole inutili, allora.” fece l'uomo, scontroso e ritrovando un po' di coraggio: “Quindi... Vi saluto e dirò a Sua Santità che quel bamboccio di Ottaviano Riario, Conte solo de nome, fa scegliere sua madre per lui e che sua madre è stata tanto stolta da rifiutare una donna come Lucrecia.”

“Bravo. Esattamente quello che direi io.” fece la Tigre, indicandogli con l'indice la porta e poi rivolgendosi a Numai e Cardella: “Portatelo all'ingresso e assicuratevi che lasci la città prima di sera. Che sia chiaro che non si stringono accordi matrimoniali con chi vorrebbe usarli per rovesciare il mio governo.”

Appena il Vescovo e i due forlivesi ebbero lasciato la sala, Caterina fece un respiro profondo. Il palazzo Riario, usato solo per le riunioni ufficiali del Consiglio, le questue e, sempre più di rado, per altre incombenze, per la Sforza aveva in sé un che di stantio e fastidioso.

Da quando aveva repentinamente deciso di restare a vivere alla rocca, dopo la morte di Girolamo, quell'edificio – in parte anche smembrato in seguito alle sue politiche edilizie lasciate a metà – era solo il vuoto simulacro di un passato che rinnegava con tutta se stessa.

Mentre era ancora avviluppata nei suoi pensieri, gli occhi rivolti verso il soffitto affrescato, la donna sentì le braccia del marito cingerla e attirarla a sé.

“Facendo come hai fatto, praticamente hai dichiarato guerra al papa, lo sai?” le sussurrò, affondando il viso nei suoi capelli lunghi e stringendo gli occhi, quasi cercando di placare il panico che lo stava prendendo.

Sapeva benissimo che non c'erano alternative valide. L'unica sarebbe stata accettare il matrimonio e sperare che Lucrecia Borja venisse colta da un malore mortale prima di convolare a nozze con Ottaviano. Ma si sarebbe trattato di affidarsi alla Provvidenza o al sovrannaturale, due potenze in cui in fondo il Medici credeva, ma di cui non si fidava affatto.

“Se anche l'avessi trattato come un fratello, riempiendolo di lodi e parole buone – ribatté la Tigre, con tono dimesso – Rodrigo l'avrebbe presa comunque come una dichiarazione di guerra.”

Il Popolano deglutì e poi, stringendo per un istante con ancora più forza, ammise: “Lo so.”

 

Il Vescovo stava passando per le strade di Forlì con un passo spedito da curato di campagna che fece voltare molte teste. Scalciava l'abito talare – di finissima seta rossa – senza averne il minimo riguardo e i commenti che questo fatto suscitò furono tutto fuorché lusinghieri.

Stava raggiungendo a marce forzate la locanda dove aveva alloggiato. Poco più di una bettola, in realtà. Sembrava che quella città fosse a misura di soldataglia. Tutto riecheggiava la vita militare o la miseria dei soldati.

Soderini ne aveva fin sopra i capelli, di Forlì.

Le braccia che seguivano i movimenti concitati delle gambe, rendendolo ancora più comico, l'uomo voltò l'angolo con una furia tale che per poco non travolse quello che arrivava dalla traversa adiacente.

“E state attento!” sbottò questi, spintonandolo via.

Francesco sollevò lo sguardo, deciso a farsi valere più che a chiedere scusa, ma quando riconobbe il Conte Ottaviano Riario nel giovane che l'aveva centrato, fece un estremo tentativo.

“Vostra madre pretendere di decidere cosa sia meglio per voi, e...” iniziò a dire, usando il tono più conciliante che la rabbia che covava dentro gli permettesse di avere.

“E vi assicuro che sa benissimo quello che fa.” lo zittì Ottaviano, scostandosi e fissando l'abito da Vescovo con aria schifata: “Adesso ho da fare. Se state partendo, fate buon viaggio.”

Soderini guardò il giovane allontanarsi. Lo seguì con lo sguardo fino a che non ne vide sparire la zazzera di riccioli perfetti dentro uno dei bordelli più malfamati di Forlì. O almeno, così pareva.

Scuotendo il capo tra sé, Soderini decise che non c'era altro da fare se non tornarsene a Roma il prima possibile e aizzare il papa contro quella donna arrogante e impossibile che era la Leonessa di Romagna.

“Messer Cesare ne sarà ben felice – borbottò tra sé, una volta al suo alloggio, mentre, troppo agitato per dare a un servo il compito di farlo, ricacciava le sue cose nel baule – lui non voleva nemmeno provarci, a tenderle una mano...”

 

Ottaviano aveva guardato dalla finestra del piano terra del bordello la via, assicurandosi che il Vescovo se ne andasse dalla strada e non si facesse venire in mente di tornare sui propri passi.

Quello che quell'uomo dall'accento fiorentino gli aveva detto, poteva rischiare di fargli saltare i nervi o di convincerlo. Il giovane Riario un po' si conosceva e aveva capito subito che, per evitare guai, l'unica cosa che poteva fare era non ascoltarlo.

Se sua madre aveva preso delle decisioni sul suo futuro, gli stava bene. Era nel suo diritto. Da quando lui si era sporcato le mani con il sangue dello stalliere, sapeva che ogni giorno di vita era regalato. Gli bastava così.

Però...

“Avete scelto, Conte?” chiese una delle ragazze del postribolo, avvicinandosi suadente a Ottaviano.

Il ragazzo sapeva che molte di quelle donne avevano paura di lui. Non le biasimava. Perciò, visto che quella, che sembrava nuova, gli si era proposta tanto spontaneamente, la prese per un braccio e le disse che gli andava bene lei.

La ragazza ebbe un momento di esitazione. Cercò lo sguardo delle altre, ma tutte quante fecero finta di non vedere, troppo sollevate da non essere le prescelte di quel giorno.

Ottaviano lanciò una moneta al proprietario, dicendogli semplicemente che non aveva altro con sé, quando questi si permise di far notare che la cifra richiesta era più alta, per quella nuova giovane.

Trascinando di forza la ragazza verso una delle stanze, incurante delle lamentele, sempre più flebili, che seguivano ogni strattone, il Riario cominciò a sentire la mente confondersi, come sempre.

Le immagini di sua madre, dei momenti passati assieme, del cadavere di suo padre che veniva lasciato cadere dalle finestre del palazzo, il trionfo che si tramutava in orrore nel vedere cadere lo stalliere dalla sella, trafitto da decine di lame, il sentore opprimente della stanza in cui era stato rinchiuso per un anno, le chiacchiere su sua madre e su tutti gli uomini che si era portata in stanza, prima che decidesse di sposare il Medici...

“Smettetela! Mi fate male!” si ribellò la giovane, liberando il braccio dalla presa ferrea del Riario.

Questi, riportato alla realtà da quel grido, la colpì d'istinto, tanto forte da farla cadere in terra. Nel momento in cui la donna risollevò lo sguardo, una mano sul labbro spaccato che sanguinava copiosamente, Ottaviano sentì una nausea fortissima prendergli la bocca dello stomaco.

Tuttavia, come gli capitava sempre, la sua mente contorta gli fece trasformare la paura per quello che era stato capace di fare, in violenza.

Quando lasciò il bordello, scapigliato, con una manica mezza scucita e con l'angosciante dubbio di aver lasciato la ragazza in fin di vita, lanciò un'altra moneta al proprietario, ma non ebbe il coraggio di aggiungere a voce 'per le cure che le serviranno', lasciando che quell'inutile e ipocrita slancio di redenzione rimanesse solo un vago pensiero.

 

“Una domenica che stenteremo a dimenticare...” assicurò Bernardi, non riuscendo a trattenere un sorriso trionfante.

Anche se avrebbe voluto mostrarsi più trattenuto con la Contessa, che si era fatta vedere alla sua bottega sempre più di rado, quel giorno era così orgoglioso della propria città da non riuscire a essere di cattivo umore.

“L'idea di farli partire così in pompa magna è stata di Giovanni.” spiegò Caterina, rigirandosi tra le mani il calice di vino che il barbiere le aveva voluto offrire a tutti i costi.

“Direi che vostro marito ha avuto una buona intuizione.” ammise a malincuore l'uomo, con appena un velo di freddezza: “Ma piuttosto... Credevo che anche vostro figlio Ottaviano sarebbe partito oggi.”

In effetti, in quel 27 maggio anche Ottaviano avrebbe dovuto prendere i bagagli e partire per Firenze assieme alla nutrita colonna di soldati che avevano lasciato Forlì quella mattina.

La decisione di ritardare la sua partenza, però, non era stata senza ragione. Da un lato, e di questo la Tigre si vergognava profondamente, c'era il fatto che il giovane aveva usato violenza e picchiato brutalmente una donna di malaffare. Per questo la madre aveva deciso di punirlo privandolo del cibo e chiudendolo nella rocca, permettendogli di esercitarsi nel cortile e basta. Era poca cosa, ma era meglio di niente e avrebbe trattenuto gli scandali.

Dall'altro lato, c'era una lettera di Semiramide Appiani che, in vece del marito, avvertiva Giovanni di non far partire subito Ottaviano, perché Firenze era ancora troppo pericolosa.

'Basterà attendere un mese' aveva aggiunto, suggerendo di far partire come deciso il grosso dell'esercito e, una volta che i Capitano avessero stanziato a dovere le truppe, far sì che Ottaviano li raggiungesse.

Così, cogliendo due piccioni con una fava, la Sforza aveva comunicato che il figlio sarebbe partito in un secondo tempo, secondo gli accordi presi con la Signoria.

“Mio figlio raggiungerà i miei soldati a tempo debito.” spiegò Caterina, deglutendo, un po' a disagio: “Nulla che non fosse già deciso.

La cosa che la stava mettendo più di tutto in difficoltà non era mentire davanti a quello che poteva da sempre reputare un amico fedele. La cosa che le era risultata davvero difficile era stato il penoso ricordo della lettera di Semiramide.

La Contessa era appena rientrata dalla caccia, il giorno prima, e aveva portato un paio di piccole prede alle cucine, per poi andare in camera a cambiarsi.

Lì aveva trovato Giovanni, chino sulla scrivania, gli occhi lucidi e le guance ancora umide. Gli aveva subito chiesto che cosa fosse successo, già temendo qualche drammatica notizia da Firenze, ma lui aveva fatto segno di no con la testa e si era chiuso in un mutismo ostinato, voltandole le spalle per non farsi vedere.

Con una pazienza che non avrebbe creduto di avere, la Leonessa aveva insistito, con calma e sfoggiando anche una certa dolcezza nei modi e nei termini e alla fine il marito aveva confessato, con una disperazione che l'aveva smossa fin nelle viscere: “Mia cognata mi ha scritto... Poi ti dico cosa... Ma io... Io volevo risponderle, ma...”

Aveva allora preso in mano una penna, ma una smorfia di dolore subitanea e una contrazione innaturale delle dita aveva fatto capire alla moglie quale fosse il problema.

“Non ce la faccio... Non ci riesco... Mi fa troppo male...” il pianto, silenzioso e pregno di orgoglio ferito, era stato placato dall'abbraccio della Sforza che, cercando di non far pesare la situazione al marito, già distrutto per conto suo, gli prese la penna dalla mano e si offrì di aiutarlo.

Dopo un primo ostinato rifiuto, il Medici aveva ceduto e aveva iniziato a dettare: “Fratello amatissimo...”

Quelle due parole gli avevano fatto avere un nuovo accesso di lacrime, ma anche quella volta la Tigre aveva saputo aspettare e quando alla fine l'uomo si era ripreso, aveva scritto tutto quello che lui le aveva dettato, senza nemmeno discutere quando, con tono irrevocabile, Giovanni aveva voluto che lei chiudesse la lettera con un: 'La mia salute m'assiste sempre e si crede, com'io già dissi, che non havrà che a migliorare'.

Bernardi, vedendo la Contessa distratta, la trattenne ancora per poco. Le fece qualche domanda puntuale sulla condotta di Ottaviano e anche sulle sue disavventure nei postriboli cittadini. La cosa che sconvolse la Sforza fu sentire come le violenze che suo figlio perpetrava, in fondo erano viste dai forlivesi come una nota di colore, più che come un dramma.

Non volendo approfondire troppo il discorso per non dover ripiombare nel ricordo del suo primo marito più di quanto non stesse già facendo in quei giorni, la Tigre si congedò dal Novacula in modo un po' frettoloso e tornò alla rocca.

Trovò Giovanni, che aveva già cenato, immaginando che lei l'avrebbe fatto a casa di Bernardi, nella loro stanza, con Ludovico in braccio. Lo teneva appoggiato al petto, com'era sua abitudine. A quel modo, le aveva spiegato, poteva averlo vicino senza doverlo stringere troppo con le mani, risparmiandosi inutili sofferenze.

“Guarda...” fece il Medici, parlando al figlio, ancora così piccolo, ma dallo sguardo già molto sveglio: “C'è la tu' mamma...”

“Ci tieni proprio, vero, che parli con il tuo accento?” sorrise Caterina, prendendo tra le braccia il figlio che il merito le stava porgendo: “Quando parli con lui, ti moderi meno di quando lo fai con me.”

Il Popolano non rispose, ma sorrise, restandosene poi seduto sulla sedia della scrivania e fissando rapito la moglie che cullava il bambino che avevano atteso con tanto amore e trepidazione.

“Guarda cosa mi ha regalato Bianca...” fece a un certo punto Giovanni, mentre Caterina si sedeva sul letto, Ludovico che le si attaccava al seno.

“Cosa?” chiese retoricamente la Sforza, mentre l'uomo si alzava e recuperava dalla cassapanca un paio di guanti imbottiti.

La Leonessa gli rese Ludovico e prese tra le mani i guanti. Erano molto larghi, quasi sfasati, però si vedeva che erano stati cuciti con cura. La pelle, la riconobbe subito, era di daino e l'interno di pelo di coniglio. Probabile che quei due materiali arrivassero direttamente da qualche animale che aveva cacciato lei stessa.

“Sono molto belli.” disse, appoggiandoli sul lenzuolo.

“Nascondono questo orrore.” spiegò il marito, mostrandole pleonasticamente la mano sinistra, le cui due ultime dite apparivano rigide e dalle articolazioni rigonfie.

“Bianca ha di questi slanci di gentilezza...” notò la Contessa, senza fare commenti sullo stato di salute del fiorentino.

“Lo so.” confermò lui, sedendolesi accanto e appoggiando Ludovico al materasso, tra loro, con dolcezza: “In fondo è un tratto che ha preso da te.”

Caterina non disse nulla, accarezzando la fronte del figlio che, tranquillo, fissava i genitori assorto in chissà che ragionamenti da lattante.

“Tu lo fai in modo diverso, ma ti prendi cura di me. E di tutti quelli che ami. In tutti i modi che conosci.” continuò il Medici, serio: “Ma non tutti se ne accorgono.”

La Leonessa strinse le labbra e poi si alzò, desiderosa di sviare l'attenzione da sé: “Ludovico resta nella nostra camera stanotte?” chiese.

“Se ti va...” fece l'uomo, con un sorriso un po' triste.

“Allora vado a prendere la sua culla.” disse lei, uscendo dalla stanza.

“La tu' mamma non lo vuole vedere, piccolino...” sussurrò Giovanni, coricandosi accanto al figlio e massaggiandogli piano il pancino con l'indice: “Ma è meglio di tanta altra gente... Anche se a volte si comporta in un modo che fa venir voglia ai preti di mettersi a far la guerra...”

   
 
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