Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: WillofD_04    26/03/2018    2 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Con il gomito poggiato sul freddo legno del parapetto della nave, il busto piegato in avanti, una mano a sorreggere la testa e un bicchiere di vino ancora pieno nell’altra, sospirai. Osservavo l’orizzonte, non troppo distinguibile a causa della leggera nebbia che quel giorno avvolgeva la caravella. Riuscivo ad intravedere solo l’immensa distesa marina e il cielo grigiastro. La base dei rivoluzionari già iniziava a mancarmi, e con essa anche le persone che vi avevo incontrato. Ormai mi ero abituata a quel posto, a stare lì. Mi ero abituata ai duri allenamenti di Hack ed alla sua eccessiva serietà, mi ero abituata agli sguardi severi di Dragon e perfino alle stravaganze di Ivankov, alle quali ogni tanto ero stata costretta a testimoniare. Mi ero fatta un’amica tra le fila dell’Armata, una ragazza che avevo scoperto essere veramente stupenda. E poi, beh, mi ero fatta anche qualcos’altro. O meglio, qualcun altro. Più e più volte.
Mi passai una mano su tutta la faccia al pensiero di quanto successo; poi ingollai un generoso sorso di vino. Se mai avessi rincontrato Rufy, non sarei stata capace di guardarlo in faccia dall’imbarazzo. Certo, lui non sapeva niente – e molto probabilmente neanche avrebbe capito di cosa si stava parlando – ma era pur sempre il fratellino di Sabo. Una parte di me si sentiva colpevole, come se fossi stata io a macchiare il ricordo che il moro aveva di suo fratello, come se fossi stata io a portargli via l’innocenza. Sapevo che non era così, però al momento non potevo fare a meno di crederlo. Scossi la testa e cercai di non pensarci più. Tanto ormai quel che era fatto – e rifatto, anche – era fatto. Non ero sicura che io ed il biondo avessimo finito con i nostri “incontri occasionali”, però. Avevamo ancora sei giorni da passare sulla stessa nave, e nessuno dei due aveva dei compiti da eseguire, né altre attività da svolgere.
Ad ogni modo, mi sarebbe piaciuto rimanere in quella base per un altro po’ di tempo. Anche solo una settimana. Sarei dovuta diventare più forte, avrei dovuto chiedere più informazioni a Dragon, avrei dovuto approfittare di più del tempo che mi rimaneva con Koala, avrei dovuto insegnare a Jasper più cose sulla medicina. Sentivo di non aver finito di fare quello che dovevo fare. Ma la verità era che non mi importava tanto, perché mi mancavano terribilmente i miei amici e non vedevo l’ora di tornare da loro. Mi mancavano i miei compagni di bevute e di bravate, Shachi e Penguin. Mi mancava la premura di Bepo e mi mancavano persino i suoi duri allenamenti, perché in confronto a quelli dell’uomo-pesce erano una passeggiata. E, anche se non lo avrei mai ammesso, mi mancava Law. Mi mancava tanto. In quei mesi avevo pensato spesso ai suoi occhi color grigio platino, alle sue basette nere e folte, al suo pizzetto, ai suoi orecchini dorati, al suo naso perfettamente simmetrico e alla sua espressione, magnetica e misteriosa. Me l’ero immaginato più volte mentre mi rivolgeva il suo ghigno sbarazzino, come ad ammonirmi quando facevo qualcosa di sbagliato o di nocivo per me stessa – ad esempio quando esageravo con il vino – e ad incoraggiarmi, quando invece facevo qualcosa di buono, tipo quando insegnavo a Jasper una nuova procedura medica e lui capiva subito. La medicina, mi mancava molto anche quella. Mi mancava operare, infilare le mani nel corpo di un altro essere umano e vedere gli organi che riprendevano a funzionare grazie al mio tocco. Mi bloccai per un attimo. Santo Cielo, stavo diventando più sadica del mio capitano! Risi, poi sbattei le palpebre un paio di volte nel tentativo di scacciare quell’immagine perversa dalla mia testa.
In un istante, mi incupii. Perché... cosa sarebbe successo se a causa del mio polso tremolante fossi stata costretta ad abbandonare la chirurgia per sempre? Cosa sarebbe successo se non fossi stata in grado di riprendere appieno la funzionalità del mio arto? Se non fossi riuscita a superare le mie paure ed i miei timori?
Una folata di vento improvvisa mi fece rabbrividire e fui costretta a stringermi nelle braccia.
«È tutto a posto, Camilla-san?»
Una voce alle mie spalle mi fece raddrizzare il busto e voltare. Apparteneva ad un rivoluzionario che stava passando lo straccio sul ponte.
«Se sente freddo, posso portarle delle coperte. Oppure posso chiedere al cuoco di prepararle una bevanda calda» mi propose.
«Oh, no, grazie. Sto bene» risposi, con la stessa cordialità che mi aveva rivolto lui. Quello annuì, mi sorrise e poi tornò a pulire il ponte.
Tutti i membri dell’equipaggio erano estremamente gentili con me. In realtà, tutti i membri dell’Armata Rivoluzionaria – Hack a parte – erano stati gentili con me. Se non avessi avuto una ciurma da cui tornare, mi sarei unita volentieri ai rivoluzionari e alla loro causa. Volevano rendere il mondo un posto migliore, e io avevo tanto da dire sull’argomento, così come avevo tanto da imparare. In quei giorni, in mancanza di altro da fare, mi ero divertita ad ascoltare i loro discorsi durante i pasti. Parlavano di missioni andate a buon fine, di posti strani, di incentivi e motivazioni, di popolazioni convertite e di quanto fosse bello combattere per una giusta causa. Ognuno di loro sembrava aver trovato il proprio scopo di vita all’interno dell’Armata, e io non potevo fare a meno di essere un po’ invidiosa. Anche io avevo trovato il mio scopo nella vita, ma forse non avrei potuto più servirlo. La mia era una situazione incerta, e non sapere mi faceva impazzire.
In ogni caso, ognuno dei rivoluzionari presenti sulla caravella sembrava ben felice di compiere quel viaggio apparentemente inutile e di privarsi delle comodità che offriva loro la base. L’equipaggio era composto da dodici persone, oltre me e Sabo; ed io ero l’unica donna a bordo. Sulla nave c’era una sola cabina – e di conseguenza un unico letto – che avevano concesso di buon grado a me. Tutti gli altri, invece, erano costretti a dormire nella stiva, su delle traballanti e scomode amache che avevano sistemato sul momento. Neanche a dirlo, il fratello di Rufy aveva approfittato della situazione per rimediare un letto. Il mio. Non che mi desse troppo fastidio, in fondo, essendo un letto a due piazze, lo spazio per lui non mancava. Tuttavia fino a quel momento ci eravamo limitati a dormirci; e mi ero assicurata che tutti capissero che su quel letto dormivamo e basta. Niente di più. Stavo cercando con tutte le mie forze di depurarmi da lui e dall’effetto che mi faceva. Dovevo farlo.
Mi sembrava comunque assurdo che i rivoluzionari sollevassero così tanta polvere per una sola persona. Una persona che contava meno di zero, oltretutto. Dragon non era dello stesso parere, ma io in cuor mio sapevo che era così. Insomma, che bisogno c’era di mobilitare dodici uomini – più il numero due dell’Armata – per... me? Almeno, con la scorta che mi aveva assegnato, ero abbastanza tranquilla. Non correvamo molti pericoli. Mi avevano detto che avevano scelto la rotta più sicura da percorrere, una rotta studiata a tavolino che riduceva al minimo eventuali rischi di qualsiasi tipo. Inoltre, la caravella era ben camuffata e da lontano nessuno avrebbe detto che fosse appartenuta all’Armata Rivoluzionaria. Con un pizzico di fortuna saremmo arrivati a destinazione sani e salvi.
 
***
 
«Ti odio.» sibilai a corto di fiato, ricadendo pesantemente con la schiena sul materasso.
Sabo emise un debole mugugno, come a ricordarmi che glielo dicevo ogni volta, ed ogni volta andava a finire nella stessa maniera: con delle lenzuola sgualcite e noi stesi sulle suddette lenzuola, nudi, sudati e ansanti.
«Dico sul serio» rimarcai «Io dovrei disintossicarmi da te, ma tu non me lo permetti!»
«Non è colpa mia se ho un fascino irresistibile» commentò il biondo. Udii un lieve struscio, segno che doveva essersi voltato a guardarmi. Io, però, non mi girai e tenni lo sguardo fisso verso il soffitto in legno della cabina.
«Cerca di essere serio, per una volta in vita tua» lo rimproverai, sospirando subito dopo. Per un po’ nessuno parlò.
«Che vuoi che ti dica? Fossi in te mi godrei questi momenti più che potrei» si limitò a dire. Il suo consiglio non era del tutto sbagliato, ma il modo che aveva di ridurre tutti i problemi a dei semplici granelli di sabbia mi dava altamente sui nervi.
Alzò le braccia ed intrecciò le mani dietro la nuca. Le mie narici furono invase da un pungente odore mascolino, che tuttavia ignorai. Invece, sbuffai una risata.
«Certo, la fai semplice, tu...» feci sarcastica – ed anche un po’ risentita – sollevando un sopracciglio.
Iniziai a picchiettare le dita contro il materasso. Due giorni. Avevo resistito per appena due giorni. Nemmeno il vino – che continuavo ad ingerire in quantità industriale – era riuscito a distrarmi. Anzi, se possibile mi aveva reso ancora più anelante. Nulla poteva distogliermi dal bruciante desiderio che provavo per lui. Non c’era niente che potessi fare in proposito. Dovevo semplicemente accettarlo. Dovevo accettare il fatto che ero un essere umano ed in quanto tale avevo delle debolezze. Come il vino, o il caffè. In fondo, il desiderio che provavo nei confronti di Sabo non era poi tanto diverso, giusto? Era solo una debolezza come un’altra.
«Sei tu che ti complichi la vita» affermò calmo. Aggrottai la fronte e schiusi la bocca in procinto di parlare, tuttavia ci ripensai. Anche stavolta, non potevo dargli torto. Ma il fatto che non potessi dargli torto non mi faceva desistere dall’arrabbiarmi. Mi tirai su di scatto, cercando di coprire le mie forme come meglio potevo con il lenzuolo e mi voltai verso di lui.
«No, Sabo! Sei tu! Sei tu che mi complichi la vita!» gli gridai.
«Perché ti scaldi tanto? È solo un po’ di sesso» fece, girandosi dall’altra parte, su un fianco. Grugnii senza farmi sentire. Era tipico di lui. Quando la conversazione iniziava a diventare “scomoda”, o si rivestiva, si alzava e se ne andava, lasciandomi lì come un’ebete, oppure si girava dall’altra parte, mettendosi a sonnecchiare – o fingendo di farlo – beatamente. Era come se per lui non avesse importanza. Come se io non avessi importanza. E non pretendevo di averne, perché sapevo da ben prima di conoscerlo che tipo fosse e sapevo che per lui la maggior parte delle cose era effimera, ma credevo di meritare almeno un po’ di considerazione da parte sua. Non volevo fare la bambola gonfiabile e basta. Non volevo essere una semplice ragazza di passaggio nella sua vita, né volevo che mi considerasse una dai facili costumi.
Lo sbadiglio che udii poco dopo confermò una delle opzioni che avevo vagliato. Sospirai, cercando di rilassarmi. Poi mi stesi di nuovo sul materasso.
«Vuoi davvero sapere perché mi scaldo tanto?» gli chiesi. La luce del sole di mezzogiorno era filtrata prepotentemente dall’oblò della cabina e adesso illuminava quasi completamente la parete alla nostra destra.
La stanza era piuttosto piccola e spoglia, e al suo interno vi era solo l’indispensabile. Le pareti, il pavimento ed il soffitto erano in legno. Di fronte alla porta c’era il letto – che non era molto comodo, ma neanche troppo scomodo – alla cui destra vi era situato un minuscolo comodino, anch’esso in legno, con sopra una lampada ad olio. Accanto ad esso vi erano un paio di casse contenenti le scorte di pane che mi ero fatta procurare. Alla destra della porta, sul muro di fronte al letto, invece, c’era appeso un piccolo specchio antico ed impolverato, che mi serviva giusto per accertarmi di non avere un aspetto troppo trasandato o pauroso al mattino, prima di andare a fare colazione insieme agli altri. Un piccolo oblò situato sulla parete alla sinistra del comodino filtrava la luce diurna e conferiva alla camera una parvenza meno legnosa. Mi ricordava vagamente quello presente nella cabina che avevo sul Polar Tang.
Sabo girò la testa e mi fissò da oltre la sua spalla. Non avrei voluto rivelarglielo, ma in certi casi essere sinceri è la cosa migliore da fare.
«Perché una volta che sarò tornata sul sottomarino, tu non ci sarai più. Sia chiaro, non sei una presenza indispensabile nella mia vita. Posso vivere senza di te, ma al momento, per quanto mi costi ammetterlo, ho bisogno di te. Però tu non ci sarai più tra qualche giorno. Dovremo salutarci a breve, e onestamente...»
Avrei voluto finire la mia frase, ma il biondo non me lo permise.
«Potrei anche decidere di restare per un po’» affermò, con una calma quasi scoraggiante.
Il mio cuore perse un battito. Mi tirai di nuovo su e mi voltai a guardarlo. Pensai subito che stesse scherzando.
«Sul Polar Tang?» gli chiesi, aggrottando la fronte.
«Perché no?»
Cercai di nascondere il sorriso da ebete che aveva fatto capolino sulla mia faccia. Sorriso che scomparve non appena mi raffigurai l’ipotetica situazione che si sarebbe venuta a creare se il rivoluzionario avesse deciso di rimanere e fosse diventato mio ospite sul sottomarino. Per quanto l’idea mi facesse piacere, c’erano troppe complicazioni di mezzo.
«Sul serio? E saresti disposto ad affrontare la furia tripla di Dragon, Hack e Koala?» volli sapere, piegando la testa di lato. Ero piuttosto sicura che sarebbe stato in grado di tenere testa a Dragon e Hack, ma con Koala sarebbe stata tutta un’altra storia...
«Non devo rendere conto a nessuno delle mie azioni» dichiarò. Nella sua voce percepii una punta di risentimento. Sospirai e tentai di farlo ragionare.
«Mi sta bene, ma sei pur sempre il numero due dell’Armata Rivoluzionaria. Il secondo in comando. Contano tutti su di te, non puoi piantarli così, su due piedi» lo ammonii «E poi, non credo che saresti visto di buon occhio dai miei compagni» aggiunsi ridendo. Cercai di immaginarmi la situazione, per poi scuotere la testa subito dopo. Shachi e Penguin lo avrebbero visto come un potenziale rivale, Maya avrebbe fatto delle allusioni inopportune per tutto il tempo e Ryu lo avrebbe guardato male dalla mattina alla sera. C’era, inoltre, un altro soggetto da considerare nell’equazione: Kenji.
«E dal tuo capitano?» mi chiese, forse più per curiosità che per altro. In quei mesi avevo imparato a conoscerlo almeno un po’, quindi ero sicura che a lui non importasse di non essere visto di buon occhio da un branco di squinternati.
Ci riflettei un attimo. Ero incapace di trovare una risposta. O meglio, ero incapace di trovare una risposta giusta.
«Non ne ho idea. Con lui non si può mai sapere» risposi pensierosa, accompagnandomi con un’alzata di spalle.
«A me è parso un tipo piuttosto ragionevole» considerò, facendo rotolare il corpo sul materasso e girandosi completamente verso di me.
Scoppiai in una fragorosa risata, che durò per un paio di minuti buoni.
«Purtroppo o per fortuna, non lo conosci» affermai, asciugandomi teatralmente l’angolo di un occhio con l’indice.
«So chi è, però» replicò atono.
Sbuffai una risolino. Certo che sapeva chi era. La sua fama lo precedeva. Chirurgo della Morte: un soprannome che era un perfetto biglietto da visita per il pirata dagli occhi di ghiaccio. Ma per sapere chi fosse davvero Trafalgar Law non bastava aver letto un paio di articoli di giornale che parlavano di lui. A dire la verità, non bastava neanche viverci tutti i giorni a stretto contatto. Il mio capitano era fatto così. Era la persona più sfuggente ed enigmatica che avessi mai incontrato. Mi accorsi che stavo sorridendo con un’ebete solo nel momento in cui me lo fece notare Sabo.
«Sai che c’è? Non importa. Non ne parliamo più» lo sollecitai, scostando le coperte e cominciando a radunare i miei vestiti. Era pur sempre ora di pranzo, ed ero sicura che il rivoluzionario non se lo sarebbe perso per nulla al mondo.
 
***
 
Il clima, lungo la rotta che avevano accuratamente scelto i rivoluzionari, era imprevedibile; com’era giusto che fosse nel Nuovo Mondo. Un giorno c’era il sole, il giorno dopo c’era una foschia così fitta che non si riusciva a vedere ad un palmo dal naso, mentre quello dopo ancora avrebbe potuto nevicare. E, da quello che avevo capito, gli sbalzi climatici e di temperatura sarebbero andati avanti così per tutta la settimana. Quel giorno – il terzo di navigazione – tirava un vento fortissimo e gelido. Continuavo a ripetermi che sarebbe stato meglio se fossi rimasta nella cabina, al caldo e al sicuro da potenziali malanni, ma mi annoiavo terribilmente. Non avevo niente da fare. Sabo aveva deciso di farsi un pisolino – sul mio letto, ovviamente – dopo il lauto pasto che aveva consumato, ed io non volevo disturbare il suo sonno. No. In realtà non ero così altruista. La verità era che il biondo russava e io non avevo alcuna intenzione di stare a sentire i suoi grugniti dalla dubbia provenienza umana per un lasso di tempo indefinito. Preferivo stare sul ponte, a costo di congelarmi il sedere, ad osservare la nave che onda dopo onda avanzava sempre di più verso il Polar Tang. Verso i miei adorati compagni. A conti fatti, erano quasi sei mesi che non li vedevo. Feci tamburellare ritmicamente le dita sul parapetto di legno della nave, all’improvviso impaziente, quasi smaniosa di riabbracciare i Pirati Heart. Tutti i Pirati Heart. Il mio indice picchiettava sempre più forte contro la superficie lignea della ringhiera.
«Non puoi sfuggirmi, Law» mormorai con un sorrisetto furbo. Le parole si dispersero nella brezza leggera che soffiava quel giorno, quasi come se volessero raggiungerlo a tutti i costi. «Riuscirò ad abbracciarti, prima o poi».
Mi misi a ridere, da sola. Risi al pensiero di quello che avrebbe potuto rispondermi il chirurgo se fosse stato lì con me. Risi perché mi andava di farlo. Perché a breve lo avrei finalmente rivisto, così come avrei rivisto gli altri miei compagni, e non vedevo l’ora. Mi piaceva pensare che anche loro si sentissero come me, che anche loro avessero bisogno di me, almeno in piccola parte. Non ero brava a cucinare, a rammendare, a pulire i bagni – quella era l’unica cosa che mi metteva pensiero e di cui avrei fatto volentieri a meno – o a fare il bucato, ma credevo di dare lo stesso un contributo prezioso alla ciurma. I miei compagni mi volevano bene per quella che ero, difetti e vizi compresi. Mi avevano accettata ed accolta come una di loro, ed erano stati i primi a farmi sentire come se appartenessi realmente a qualcosa. Nel mondo in cui era ambientato “One Piece” avevo riscoperto me stessa, e grazie alle persone che avevo incontrato avevo potuto far cadere la maschera che nel mio universo avevo indossato per tanto tempo, per proteggermi da nemici che non ero ancora riuscita ad identificare, ma che alla lunga erano diventati potenti e temibili. Lì, in quel posto fatto di oceani ed isole, me ne ero liberata. Certo, mi ero fatta altri nemici, forse più potenti e temibili, però cominciavo a pensare di preferirli alle invisibili controparti malvagie del mio mondo di provenienza che mi avevano accompagnato per anni.
Un invitante profumo di cioccolata mi distrasse dai miei pensieri. Spostai lo sguardo alla mia sinistra e vidi un rivoluzionario a pochi passi da me. Tra le mani stringeva una tazza fumante di quella che supponevo essere cioccolata calda. Senza dire niente e con un sorriso radioso stampato sulla faccia, me la porse. La accettai di buon grado, dato che con quel freddo avevo bisogno di qualcosa che mi riscaldasse, poi lo ringraziai e quello se ne andò.
Soffiai sul liquido marrone per intiepidirlo appena, dopodiché ne bevvi un primo sorso. Poi ne assaporai un secondo, e un terzo, e un quarto. Era davvero buona. Né troppo amara, né troppo zuccherata. Era perfetta, ed il suo sapore descriveva esattamente come mi immaginavo che fosse la scena del mio ricongiungimento con i Pirati Heart.
Un movimento sospetto mi distolse dalle mie riflessioni. Sabo era in piedi, accanto alla porta della nostra – mia – cabina e si stava stiracchiando generosamente. Ghignai. A quanto pareva il Bell’Addormentato si era svegliato, nonostante avesse l’espressione ancora un po’ assonnata. Tuttavia, se c’era una cosa che avevo imparato in quei mesi, era che – proprio come Rufy – il rivoluzionario sapeva riprendersi molto in fretta. Avevo ancora una trentina di secondi di pace prima che tornasse vispo e iniziasse a tormentarmi. Perché l’avrebbe fatto, ne ero sicura. Anche inconsapevolmente riusciva a trovare dei modi per perseguitarmi. Nell’attimo in cui mi notò le sue labbra si aprirono in un ghigno che mi fece storcere la bocca. I sogghigni di questo tipo non promettevano mai nulla di buono. Gli diedi le spalle e decisi di ignorarlo con un sospiro. Se voleva qualcosa sarebbe venuto da me. Eravamo su una nave grande quanto la Going Merry, non sarei comunque potuta scappare, a meno che non mi fossi buttata in mare. Bevvi un altro sorso di cioccolata e lasciai che il calore della bevanda scivolasse in gola e mi scaldasse, proprio mentre un gelido soffio di vento mi fece rabbrividire. Tremai leggermente e mi strinsi nelle braccia, emettendo un piccolo mugolio. In quell’istante, intravidi qualcosa di nero piombarmi sulla testa. Appiattii il collo e strizzai le palpebre, nel tentativo di evitare quell’oggetto non ben identificato, ma non servì a niente, perché me lo ritrovai dritto sul capo. Mi ci vollero un paio di secondi per capire che si trattava di un indumento. Una giacca, per la precisione. Me la scrollai di dosso e la presi, osservandola bene. Era la giacca di Sabo.
«Mettila» quasi mi ordinò la figura dai capelli biondi che si era piazzata accanto a me. Rimasi un po’ sorpresa.
«Sicuro? Poi tu non sentirai freddo?» chiesi titubante. Il rivoluzionario mi fissò con aria eloquente. Riflettendoci arrivai alla conclusione che questo per lui poteva non essere più un problema da quando aveva ingerito il Mera Mera. Ace, del resto, girava a torso nudo anche quando nevicava. Lo guardai grata, poggiai la tazza sul parapetto ed infilai la giacca. Percepii subito un piacevole senso di sicurezza. Mi stava un po’ grande e il tessuto con cui era fatta non era neanche troppo consistente, ma adoravo il tepore che mi trasmetteva ed il modo in cui mi avvolgeva il corpo. Mi ci sarei perfino potuta affezionare. In quei mesi avevo indossato praticamente solo minigonne e camicette attillate, e prima ancora la divisa color bianco fantasma dei Pirati Heart che Law mi aveva costretto ad indossare e che adesso mi stava aspettando a braccia – anzi, a maniche – aperte. Non avevo molte occasioni per sbizzarrirmi in fatto di vestiario. La giacca di Sabo rappresentava qualcosa di diverso, così come i vestiti che mi avevano preparato i rivoluzionari per il viaggio. Non mi avevano chiesto niente, li avevo trovati direttamente sulla nave, insieme alle casse di pane ed ai barili di vino. Come o dove li avessero trovati non ne avevo idea, ma erano proprio come piacevano a me: comodi, sobri e confortevoli. Chiunque li avesse scelti, aveva colto la mia essenza. Ecco perché non avevo fatto domande e mi ero limitata ad indossarli. Senza contare che era stato un sollievo per me non dover più mettere le striminzite gonne a balze di Koala. Gli indumenti per quella settimana consistevano in alcune t-shirt semplici – tutte dello stesso modello, ma di diversi colori –, tre paia di pantaloni neri lunghi ed aderenti ed un paio di shorts di un tessuto simile al denim. C’erano persino vari ricambi di biancheria intima, e la taglia era giusta. In fatto di abbigliamento avevo tutto ciò che mi serviva. L’unica cosa che mi mancava era una giacca più pesante per i giorni più freddi, ma a quanto pareva quello non era un problema, perché ci aveva pensato il dolce ed eroico Sabo.
«Koala mi ha intimato di prendermi cura di te e Dragon si è raccomandato di tenerti al sicuro. Se ti succedesse qualcosa, la responsabilità ricadrebbe su di me» mi spiegò, appoggiando entrambe le mani sulla ringhiera e scrutando distrattamente l’orizzonte «Perciò non posso lasciare che tu ti prenda un raffreddore».
Il suo tono esprimeva più malizia che premura. Alzai gli occhi al cielo, per poi sorridere subito dopo. Il fatto che la mia amica fosse tanto premurosa anche a distanza mi metteva di buonumore. Era un tesoro di ragazza. Dragon, invece, stava tentando di salvaguardare una persona che riteneva utile al raggiungimento dei suoi scopi, ed io non potevo che esserne contenta. Sapere di essere sotto la sua protezione mi faceva stare più tranquilla.
«E io che pensavo che fossi sinceramente preoccupato per le mie condizioni di salute» scherzai sogghignando e guardando il biondo di sottecchi «Il Re e la Regina ti tengono sotto scacco, eh?» lo canzonai poi, dandogli una lieve gomitata. Lui fece una blanda alzata di spalle. Stava fissando un punto imprecisato davanti a sé. Non potei fare a meno di pensare che se al suo posto ci fosse stato Marco avrebbe di certo saputo cosa rispondermi. Dopotutto, era lui l’esperto di scacchi.
Sabo si voltò ad osservarmi con un’espressione indecifrabile.
«Ho perso il mio tubo» affermò semplicemente. Alzai un sopracciglio.
«Lo hai perso di nuovo?» domandai, quasi esasperata. Certe volte riusciva ad essere più sbadato di suo fratello. In tutta risposta alzò di nuovo le spalle con noncuranza.
«Perché non mi aiuti a cercarlo?» chiese a sua volta, abbassando il tono di voce, che risultò più profondo e provocante. Lo squadrai da capo a piedi, notando un bagliore pericoloso nei suoi occhi. Annuii un paio di volte con l’aria di chi la sapeva lunga, poi sogghignai. Ora mi era tutto più chiaro. Non aveva perso il suo tubo, ma si era svegliato affamato dal suo pisolino pomeridiano. Io invece non avevo molta fame, ma non si diceva mai di no ad uno spuntino.
Non indugiò troppo. Afferrò i lembi della mia – in realtà sua – giacca e mi attrasse a sé. Vacillai per una frazione di secondo, ma ritrovai l’equilibrio nel momento in cui le sue mani imprigionarono i miei fianchi in una presa ermetica.
«Allora, hai intenzione di aiutarmi?» volle sapere in un sussurro rauco, che sapevo bene cosa stava a significare.
Impiegai un paio di minuti per setacciare tutto il ponte della nave con gli occhi per vedere se ci fosse qualche rivoluzionario di troppo in giro. A quanto pareva la via era libera, eravamo soli. Non c’era nessuno nemmeno di vedetta. Dopotutto navigavamo in acque tranquille e non c’era bisogno che ci fosse un uomo nella coffa tutto il tempo. Probabilmente l’equipaggio stava facendo una pausa caffè, o una pausa pisolino – come Sabo –, perché no.
Feci un sorrisetto compiaciuto, poi gli circondai il collo con le braccia ed intrecciai le dita dietro alla sua nuca.
«Cosa vinco se lo trovo? Meriterei una ricompensa, non credi?» soffiai a qualche centimetro dalle sue labbra. Il suo ghigno si allargò.
«Possiamo discuterne» mi disse con un’espressione maliziosa. Si chinò verso di me e lasciai che mi scostasse i capelli da una parte. Il mio corpo fu invaso dai brividi quando percepii la sua bocca sfiorarmi la pelle. Scivolava su e giù per il mio collo, fermandosi ogni tanto per schioccare qualche piccolo ed innocente bacetto. Vagava alla ricerca di una meta, ma in realtà sapeva benissimo dove stava andando, così come sapeva quello che voleva. Chiusi gli occhi e piegai la testa da un lato. D’improvviso non mi sembrava più tanto freddo come fino a pochi minuti prima. Ormai era quasi una reazione automatica, nel momento in cui Sabo mi toccava nel mio corpo si irradiava un calore intenso e piacevole. E cominciavo a valutare l'ipotesi di restituirgli la giacca. Non mi serviva in ogni caso.
«Questa sarebbe un’anticipazione del premio che mi aspetta?» domandai con voce leggermente roca.
«Consideralo più come un incentivo» mormorò tra un bacio e l’altro. I suoi palmi iniziarono a risalire lentamente la mia schiena. Gli passai una mano tra i capelli, intrappolandone una ciocca tra le dita e costringendolo a sollevare la testa. Incastonai gli occhi ai suoi.
«Stai per caso cercando di corrompermi, Mister Tubo d’Acciaio?» volli sapere, con una rapida alzata di sopracciglia. La mia espressione era seria, ma le mie iridi brillavano di malizia.
Mi avvicinai di più a lui, finché i nostri corpi non aderirono quasi completamente l’uno all’altro. Poi iniziai a percorrere il suo petto facendo camminare lentamente due dita su di esso. Entrambi sorridemmo, consapevoli che quello era il punto di non ritorno per entrambi.
«Mister Tubo d’Acciaio. Mi piace» affermò il biondo, ridacchiando ed abbassando ulteriormente la testa verso di me. Adesso riuscivo a sentire il suo respiro caldo imprimersi sulla mia pelle. Il suo alito sapeva leggermente di pesce, ma non era un cattivo odore. Niente che un sorso di cioccolata calda – che tanto bene avevo a disposizione – non potesse lavare via.
«Certo che ti piace. Io ci so fare con i nomi, non sono mica come te» risposi, allargando il mio ghigno. Lui scrollò le spalle con indifferenza.
«Io sono bravo in altre cose» mi sussurrò all’orecchio. Mi morsi un labbro per cercare di nascondere la mia espressione soddisfatta e voluttuosa, mentre un brivido si diffondeva piano in tutto il mio corpo, provocandomi un lieve tremore.
«Perché non mi mostri ciò in cui sei bravo, allora?» rilanciai, accarezzandogli dolcemente la linea mandibolare con la punta dell’indice. Sorrise, stavolta era un sorriso privo di voluttà. Forse apprezzava quel gesto. Ogni tanto era necessaria un po’ di dolcezza, e a lui serviva esattamente quanto a me, anche se non lo dava a vedere. Perché tra di noi non c’era solo una passione irrefrenabile e clandestina. Il nostro era un rapporto complicato, più profondo di quanto potesse sembrare, fatto di tanti piccoli momenti diversi che si incastravano alla perfezione tra loro, come tasselli di un puzzle composto da due corpi segretamente bisognosi di affetto, ma anche da due anime in cerca della loro libertà. Eravamo due organismi in simbiosi, due spiriti connessi da una forza misteriosa che vorticava attorno a noi e attraeva l’uno verso l’altra.
«Credo di avertene dato ampiamente dimostrazione» affermò compiaciuto, premendo sulle mie scapole per attirarmi ulteriormente a sé. I nostri visi erano vicinissimi, ad un bacio di distanza.
«E se invece non lo avessi fatto?» rincarai la dose sollevando un sopracciglio.
«Dubiti di me?» domandò fingendosi offeso. Ridacchiai.
«Dubito delle tue capacità» soffiai. Ormai ero le nostre labbra distavano appena un millimetro.
Fece per parlare, ma io gli piazzai l’indice sulle labbra e lo zittii. Spostò le mani sulla mia nuca e piegò la testa, mentre io mi alzavo sulle punte per raggiungere la sua bocca. Chiudemmo contemporaneamente gli occhi e ci prodigammo in un bacio appassionato. Con lui ogni bacio aveva un sapore diverso, ed ogni bacio mi faceva provare sensazioni diverse. L’unica emozione che non avevo mai provato era stata la vergogna. Con Sabo nemmeno esisteva, la vergogna; o l’imbarazzo. C’ero solo io, nella più pura e vera versione di me stessa, e un ragazzo bello e in gamba, che mi faceva visitare posti sconosciuti ed inesplorati.
Assaggiai la sua essenza con la lingua, mentre le sue mani vagavano per tutto il mio corpo e le mie scivolavano sul suo petto, sul suo addome, e poi sempre più in basso.
Quando ci staccammo – controvoglia – sogghignammo entrambi.
«Sai di cioccolato» mi disse compiaciuto.
«E tu di pesce» quasi lo canzonai «Ma non lasceremo che questo interrompa le ricerche del tuo tubo».
«Giusto. Il tubo» sembrò ricordarsi all’improvviso «Sono abbastanza sicuro di averlo lasciato in camera».
«No» scossi eloquentemente la testa «Credo di averlo trovato» gli feci sapere, fissando il suo cavallo e ridendo di gusto. Guardò in basso ed iniziò a ridere anche lui. Solo con il fratello di Rufy si poteva passare dalla passione bruciante all’idiozia infantile collettiva in un nanosecondo. Ma era anche per questo che mi piaceva stare in sua compagnia. Non sapevo mai cosa aspettarmi, ed era sia elettrizzante che frustrante.
«Complimenti. Adesso puoi avere la tua ricompensa» mi informò, negli occhi aveva un luccichio sconsiderato. Se non avessi fatto attenzione, quel dannato luccicore sarebbe stato fatale per me. Almeno era di parola. Tuttavia sospettavo che lo fosse solo perché in quella circostanza conveniva più a lui che a me.
Presi la tazza con la cioccolata e gliela porsi, dandogli un paio di pacche sulla spalla con aria eloquente, per esortarlo a berla. La finì in un rapido e lungo sorso. A quanto pareva aveva improvvisamente fretta. Osservai in silenzio mentre si gettava alle spalle la tazza ormai vuota, che poco dopo cadde in acqua con un piccolo splash. Sospirai e scossi la testa. Non c’era rimedio alla sua mancanza di tatto. Ormai mi ero abituata, e nonostante la sua imprevedibilità a volte fosse disarmante, quel suo gesto non mi sconvolgeva affatto.
Mi prese il mento tra pollice ed indice e mi diede un rapido ma languido bacio. Mi leccai le labbra con la punta della lingua e poi le increspai, soddisfatta. Adesso anche lui sapeva di cioccolato.
«Decisamente meglio» commentai, annuendo con finta serietà.
Non disse niente. Ero sicura che per lui avessimo perso fin troppo tempo. Mi afferrò il polso e tirò leggermente, iniziando a camminare in direzione della cabina. Lo seguii senza parlare e mi lasciai trascinare verso quella che sarebbe stata una mezz’ora – o anche di più – di follia.
 
***
 
Quella sera, le stelle tremolavano, scosse da chissà quale forza invisibile. Il cielo era limpido, a parte qualche nuvola disseminata qua e là. Non faceva freddo, ma non era neanche caldo, ecco perché mi ero fatta prestare la giacca da Sabo.
Continuai ad osservare il cielo. Quei minuscoli corpi celesti distanti anni luce sembravano così fragili all’apparenza, eppure erano così maestosi e nobili. Erano capaci di illuminare l’oscurità avvolgente della notte, e nel loro silenzio vegliavano incessantemente su di noi. James Matthew Barrie sosteneva che le stelle non potessero in alcun modo immischiarsi nelle faccende umane. Dovevano limitarsi ad osservare in silenzio; era una punizione eterna, che si era abbattuta su di loro così tanto tempo prima che nessuna stella ne ricordava il motivo. Ma lo scrittore del mio romanzo preferito si sbagliava. Ce ne era una capace di trascendere quelle stupide regole, per mia fortuna.
Una nuvoletta di vapore uscì dalla mia bocca. Feci un mezzo sorriso nel pensare che quella notte assomigliava molto alla notte in cui la Stella era comparsa per la prima volta. La notte in cui mi sentivo sola, persa e senza speranza. La notte in cui tutto era cominciato. Ora, però, non ero più sola, non mi sentivo più persa e avevo recuperato la speranza. Era incredibile come fosse bastato poco per cambiare le carte in tavola. Non che i desideri che mi erano stati concessi fossero poco, anzi, erano stati una vera e propria manna dal cielo, ma ci avevo messo del mio per arrivare al punto in cui ero. Mi era costato parecchio, tra sacrifici e sofferenze, però ne era valsa la pena. Avrei rifatto tutto da capo, sbagli compresi, se fosse stato necessario. Perché ero fiera della persona che ero diventata.
«Trascorri molto tempo all’aria aperta» commentò Sabo, che mi aveva raggiunto poco prima e che si trovava dietro di me di qualche passo.
Mancavano due giorni alla fine del nostro viaggio. Due giorni perché potessi rivedere di nuovo la mia ciurma. Gli ultimi due giorni che avrei potuto trascorrere con lui.
«Ne approfitto, come dici tu» gli risposi «Sai com’è, non sarà molto facile prendere aria fresca su un sottomarino».
Lo sentii ridere mentre si posizionava accanto a me. Restammo in silenzio per un po’, senza guardarci, a contemplare il firmamento luminoso. All’improvviso, un lampo fulmineo attraversò il cielo. Mi ridestai e spalancai gli occhi.
«Guarda! Una stella cadente!» esclamai allegra e sorpresa allo stesso tempo, artigliandogli un braccio e distendendo l’altro verso il cielo. Con l’indice seguii la scia dorata di quella stella fino a che non svanì. Mi tornarono in mente i vecchi tempi, quando io, Rufy ed il resto della banda stavamo distesi – anche se sarebbe stato più corretto dire che eravamo schiacciati come sardine –  su dei materassi fino a notte fonda per osservare le stelle e cercare di individuare la Seconda Stella a Destra.
«È meravigliosa» commentai poi, sorridendo nostalgica.
Spostai lo sguardo sul biondo. Lui piegò la testa da un lato con espressione sognante. Avevo motivo di credere che si fosse perso nei ricordi. Faceva sempre quella faccia, quando con la mente tornava bambino.
«Quando eravamo piccoli, prima che arrivasse Rufy, io ed Ace osservavamo spesso le stelle. Lui era convinto che la scia delle stelle cadenti non fosse altro che la scia lasciata da una nave del Popolo del Cielo che si dirigeva qui, probabilmente in cerca di fortuna. Ogni volta si lamentava di quanto fossero stupidi quegli uomini, a cercare fortuna in un posto come questo. Diceva che sarebbero stati molto meglio se fossero rimasti nel posto da cui venivano. Credeva che niente potesse scalfire le persone, in cielo. Allora io, per cercare di togliergli il muso lungo, gli dicevo che un giorno avremmo visitato anche noi quelle terre remote, così che niente potesse più scalfirci. Lui mi sorrideva e diceva che forse sarebbe stato lì che avremmo trovato la nostra libertà» mi raccontò, senza spostare mai le iridi dal punto in cui era comparsa la scia della stella poco prima. Apprezzai che si fosse aperto con me in questo modo, nonostante la sua confessione mi avesse lasciato un retrogusto amaro in gola. Adesso capivo perché gli piaceva tanto osservare le stelle dal terrazzo della base. Chi poteva saperlo, magari Ace era davvero in cielo e vegliava sui suoi fratelli e su tutti coloro a cui aveva voluto bene, proprio come la Seconda Stella a Destra aveva fatto con me.
«Poi siamo cresciuti e...»
Non finì la frase, forse perché non ci riuscì. Invece, sbuffò una risata ed abbassò gli occhi. Aveva i palmi premuti contro il parapetto in legno. Gli appoggiai una mano sulla spalla e strinsi delicatamente le dita attorno ad essa per supportarlo, mentre con l’altra stringevo il ciondolo di Ace. I suoi muscoli erano rigidi e tesi. Distolsi lo sguardo e sbattei rapidamente le palpebre più volte, per cercare di scacciare il bruciore agli occhi. Quando mi fui ripresa, iniziai ad accarezzargli dolcemente il bicipite, nel tentativo di confortarlo. Non serviva a niente, lo sapevo bene, perché era così anche per me, quando ripensavo alla mia famiglia. Tutto ciò che mi rimaneva di loro erano i ricordi. Nessuno avrebbe mai potuto ridarmi quei momenti, che custodivo con tanta cura. Potevo solo continuare a ricordarli all’infinito, proprio come Sabo. Ecco perché era importante che sapesse che c’era qualcuno che lo capiva e che condivideva il suo stato d’animo, almeno in parte.
«Tu sei la prova vivente che mio fratello si sbagliava» affermò, dopo qualche minuto di silenzio. Lo fissai perplessa.
«Cosa?» chiesi confusa, aggrottando la fronte «Voglio dire, in che senso?»
«Le persone che vengono dal cielo, come te, non sempre sbagliano a cercare fortuna in un posto come questo» mi spiegò. Percepii la tensione scivolare via dal suo corpo.
«Mi stai per caso comparando ad una stella cadente?» gli domandai, alzando un sopracciglio. Effettivamente, però, non aveva tutti i torti. Quando ero approdata lì ero letteralmente caduta dal cielo, e mi ci aveva portato una stella. Inoltre, avevo trovato una piccola parte della “fortuna” che tanto avevo cercato. Avevo avuto qualche gatta da pelare, certo, ma chi non ne aveva? Vivere significava anche questo.
«Forse» fece, con una blanda alzata di spalle. Il suo sorriso brillò nella notte, proprio come il sorriso di Peter Pan. Non sapevo perché, ma sentii l’irrefrenabile ed improvviso impulso di abbracciarlo. Di tenerlo stretto senza lasciarlo andare per un po’. Mi protesi verso di lui e gli circondai il corpo con le braccia. Le mie mani disegnavano dei cerchi sulla sua schiena, mentre la guancia sinistra era appoggiata al suo petto caldo. Lui non si mostrò sorpreso nemmeno per un istante. Anzi, ricambiò il mio abbraccio. Non potevo vedere il suo viso, ma ero sicura che stesse sorridendo. Non era un ghigno malizioso, ma un semplice sorriso sincero.
Nel momento in cui ci staccammo provai un inspiegabile senso di imbarazzo. Mi allisciai i vestiti, come per cercare di scacciarlo. Perché provavo imbarazzo? Che motivo ne avevo? Non stavo facendo nulla di male, o di perverso. Era solo un semplice abbraccio tra due amici. O forse no. Quella sera era successo qualcosa. Per la prima volta, avevo visto Sabo nudo. Non il suo corpo, quello lo avevo visto – e ammirato – fin troppe volte; ma la sua anima. Si era messo a nudo, con me, e avevo scoperto un lato di lui che custodiva gelosamente e che aveva mostrato solo a poche persone. Si fidava di me, ed io gliene ero grata, perché quello che mi aveva lasciato intravedere era bellissimo. Era lui, nella sua forma più pura.
Dei risolini ed un chiacchiericcio sommesso attirarono la mia attenzione. Alzai lo sguardo e corrugai la fronte.
«Non è che adesso andiamo a sbattere contro un iceberg, vero?» chiesi sospettosa, fissando i due tizi nella coffa che osservavano ridacchiando me ed il biondo e ricordandomi delle tragiche conseguenze dell’ultima volta in cui qualcuno si era comportato così.
«Cosa?» domandò a sua volta il ragazzo di fronte a me, perplesso. Gli indicai con sguardo eloquente i nostri spettatori e lui non poté fare a meno di ridere. Quando si accorsero che li stavamo guardando ci salutarono con la mano.
«Vogliono solo uno spettacolo. Si annoiano» affermò tranquillo, facendomi alzare un sopracciglio.
«E tu hai intenzione di accontentarli?» indagai, portandomi le mani ai fianchi.
«Potrei» soffiò, avvicinandosi pericolosamente a me. Nei suoi occhi risplendeva un bagliore poco rassicurante. Indietreggiai di qualche passo, ma lui fu più veloce di me. Mi afferrò il polso, bloccando la mia “fuga”. Quando si chinò verso di me spalancai gli occhi. Voleva baciarmi. Ma non poteva farlo. Non sotto gli occhi indiscreti di due membri dell’equipaggio. Ci avrebbero visti, e non avrebbero dovuto.
Mi girai di scatto verso il parapetto della nave, divincolandomi e liberandomi dalla presa di Sabo. Poi mi schiarii la gola, imbarazzata, senza staccare le pupille dal mare, che quella notte sembrava una distesa immensa di petrolio, tanto appariva nero e denso.
«Sai, da dove vengo, crediamo che si debba esprimere un desiderio dopo aver visto una stella cadente» sparai la prima cosa che mi venne in mente, riprendendo il discorso lasciato in sospeso qualche minuto prima, solo per distrarlo. Le mie dita tamburellavano nervosamente sulla superficie lignea della ringhiera. Fissai il fratello di Rufy di sottecchi. Non sembrava esserci rimasto male per il fatto che mi fossi scansata e avessi evitato le sue labbra.
«Allora esprimilo» mi sollecitò divertito. No, non gli dispiaceva affatto per l’accaduto. Sospettavo che adorasse giocare al gioco della volpe e dell’uva, in cui io ero l’uva e lui la volpe. Cercare di ottenere ciò che non poteva avere era il suo passatempo preferito. C’era qualcosa che lo elettrizzava nell’ignorare imposizioni ed infrangere divieti. Non dovevo dargli corda... o sarebbe arrivato all’uva.
Scossi la testa, sorridendo con l’aria di chi la sapeva lunga.
«Io ho già la mia, di stella» gli dissi con una punta d’orgoglio nella voce. Del resto, quella che si era fatta carico dei miei desideri – ben due di più di quanti qualsiasi altra stella concedesse – era una stella speciale.
Sabo ghignò fieramente.
«Capisco. Non vuoi tradirla» scherzò, facendomi alzare gli occhi al cielo. Non era colpa sua, però. Lui non poteva capire il valore che aveva per me la Seconda Stella a Destra.
«Se la vedessi in cielo, che cosa desidereresti?» mi chiese poi, sinceramente curioso.
Boccheggiai un paio di volte, spiazzata da quella domanda. Che cosa avrei desiderato? Non ero sicura di saperlo.
Un fulmine improvviso squarciò il cielo, seguito dal rombo di un potente tuono. Subito dopo iniziò a cadere una scrosciante pioggia, che in pochi secondi mi inzuppò tutti i vestiti. Alzai la testa, coprendomi gli occhi con una mano. Non c’era nemmeno una nuvola sopra di noi. Erano tutte distanti. Come accidenti era possibile che piovesse? Supponevo che fosse un’altra delle stranezze climatiche del Nuovo Mondo. Se ci fosse stata Nami molto probabilmente lo avrebbe previsto. Tuttavia non c’era, per cui sarebbe stato meglio interrompere la conversazione e trovare in fretta un riparo.
L’acqua cadeva copiosa, sferzandomi il viso. Sabo mi fece cenno di rientrare con la testa, mentre un gruppetto di rivoluzionari si prodigava a sollevare le vele per evitare che si bagnassero. O meglio, che si bagnassero ancora di più. A quanto pareva ci saremmo fermati finché non avesse smesso di piovere. I due addetti alla vedetta cercavano di coprirsi con i mantelli come meglio potevano. Sarebbe toccato loro un destino infausto, per quella notte.
Iniziai a correre verso la cabina, seguita dal Capo di Stato Maggiore. Mentre attraversavamo il ponte di corsa per andarci a riparare, pensai che non avesse importanza cosa avrei chiesto alla Stella, perché tanto non l’avrei mai più vista ricomparire.
 
***
 
Addentai un morso del mio panino e lo masticai con calma. Quando ebbi mandato giù il boccone mi leccai le labbra con la punta della lingua per recuperare le briciole.
Feci dondolare appena le gambe, beandomi dell’assenza di un pavimento su cui posare i piedi. Ero seduta sulla ringhiera della nave e sotto di me c’era solo il mare, di uno scintillante color zaffiro. Era calmo, e lo sciabordio dell’acqua che si infrangeva contro la nave, insieme allo stridio dei gabbiani, faceva da colonna sonora a me e Sabo mentre sgranocchiavamo i nostri sandwich ed osservavamo il sole che tramontava. Essendo il penultimo giorno di viaggio, quello sarebbe stato uno degli ultimi tramonti che avrei visto per un po’ di tempo, dal momento che spesso e volentieri quando arrivava il calar del sole il Polar Tang si trovava nelle profondità marine. Poche volte eravamo risaliti in tempo per vedere il crepuscolo, quindi avevo deciso che quello del mio penultimo giorno sulla Marie Jolie me lo sarei goduto. Il biondo aveva voluto farmi compagnia, senza che io gli dicessi niente, e mi sedeva accanto masticando con gusto e rumorosamente. Poco prima ci era venuta fame e ci eravamo fatti preparare dei panini dal cuoco di bordo. Il mio era con tonno e pomodori, due sapori apparentemente contrastanti, ma che insieme erano quasi sublimi. Quel sandwich mi ricordava vagamente me e Law. Il gusto deciso del tonno e quello delicato dei pomodori. C’era da capire chi fosse il tonno e chi i pomodori. Nel tramezzino di Sabo, invece, c’erano tonno, carciofi e uova. Non riuscivo ad immaginarmi niente di più disgustoso. Mancavano solo i broccoli per renderlo un perfetto rimedio anti-sbronza alla Kenji; oppure un potente ed infallibile emetico. Il biondo mi aveva chiesto se volessi assaggiarlo, ma io avevo rifiutato con un “no” secco ed una faccia disgustata. Ad ogni modo, non sapevo perché il rivoluzionario si fosse unito a me, ma finché fosse rimasto zitto sarebbe potuto restare tutto il tempo che voleva. Quello era un tramonto che andava contemplato in silenzio. Il sole era già sparito dietro la linea dell’orizzonte, ma la sua luce continuava a riflettersi sulle nuvole. Quelle più vicine al confine tra cielo e mare erano dipinte di caldi toni aranciati, che poi sfumavano e diventavano rosei sulla pancia delle nuvole più distanti. Proprio come il panino che stavo mangiando, quello era un connubio di colori particolari, che tuttavia insieme creavano uno spettacolo intenso e mozzafiato. In realtà, però, il cielo, pitturato di un pacifico color blu cobalto, era terso. Tutte le nuvole che c’erano, erano raccolte in un punto preciso dell’immensa distesa celeste davanti a me, come se si fossero posizionate lì appositamente per farsi illuminare dai colori caleidoscopici del sole. Quel tramonto sembrava un quadro di William Turner. Bellissimo e poetico. Delicato ma sgargiante. Solo che i colori che avevo davanti agli occhi erano molto più vividi, quasi mi aspettavo che prendessero vita da un momento all’altro. Insomma, era un perfetto ultimo tramonto. Anche la compagnia non era male, ma non si poteva dire che non desiderassi avere accanto Law ed i Pirati Heart. Avrei voluto bearmi insieme a loro di quella vista spettacolare.
Sorrisi appena, persa nei miei pensieri e nella meraviglia di quelle sfumature aranciate. Con la coda dell’occhio percepii un movimento brusco alla mia destra, che mi fece tornare alla realtà. Il corpo di Sabo era pericolosamente piegato in avanti. Aveva gli occhi chiusi e la testa china e ciondolante. Si era addormentato, non prima – ovviamente – di finire il suo tramezzino. Come diavolo aveva fatto ad addormentarsi davanti ad un tale spettacolo!? Supponevo che non avesse importanza, dato che stava per cadere in mare. E se fosse caduto in acqua sarebbe annegato. E poi la colpa sarebbe ricaduta su di me. Non potevo permetterlo. Mi sporsi verso di lui e gli piazzai la mano sull’ampio torace con un rapido gesto per impedirgli di precipitare. Premetti sui suoi muscoli per qualche secondo nel tentativo di anticipare ed arrestare la caduta che stava per fare, ma fu pressoché inutile, visto che era praticamente un peso morto. Proprio quando pensai che stesse per cadere, il suo corpo si irrigidì ed i suoi occhi si spalancarono di scatto. Mi fissò per un po’ con un’espressione indecifrabile, poi il suo viso si aprì in un ghigno divertito e compiaciuto. Quando capii, lo fissai con aria truce. Aveva finto di essersi addormentato, quel maledetto. Mi aveva fatto proprio uno scherzetto carino.
«Sei un idiota» gli dissi sconsolata mentre mi stringevo nelle spalle e allargavo le braccia. Lui rise di gusto.
«Lo finisci quello?» mi chiese, indicando il panino con tonno e pomodori che ero miracolosamente riuscita a salvare. Feci roteare gli occhi e glielo porsi. Tanto non avevo più fame, mi aveva fatto passare l’appetito. Non si fece di certo pregare, e se lo divorò in appena due morsi. Sospirai e cercai di concentrarmi sui colori rosati che avevano invaso il cielo ora che il sole era tramontato. Quello era l’ultimo tramonto che avrei guardato insieme al biondo, ed era anche la mia ultima occasione di chiarire una volta per tutte alcune questioni che lo riguardavano.
Non parlai fino a che il cielo non si fu colorato completamente di indaco ed ogni traccia della luce solare fu scomparsa.
«Sabo» lo richiamai, voltandomi verso di lui. Lui si girò a sua volta e ci fissammo negli occhi per un breve istante. Feci una pausa e presi un respiro profondo. Non era facile trovare le parole giuste, né il coraggio per farle uscire dalla bocca.
«Noi... cosa siamo?» gli domandai con cautela. Mi parve di sentire il cuore fare una capriola nel petto. Lo percepivo rimbombare contro le pareti della gabbia toracica. Ci furono alcuni secondi di silenzio assordante. Poi, udii il biondo ridere. Gli avrei voluto chiedere cosa accidenti avesse da ridere – in un modo poco carino – ma mi trattenni.  Continuai a guardarlo in attesa di una risposta, mentre un gabbiano sopra di noi emetteva uno stridio poco piacevole per le orecchie.
«Due persone in cerca della libertà» mi rispose, spostando il suo sguardo verso l’orizzonte. Feci una rapida alzata di sopracciglia. Non potevo dargli torto, ma non era quello che volevo sapere.
«Intendo... che rapporto abbiamo? Cosa siamo l’uno per l’altra?»
Glielo avevo già chiesto, tempo addietro, dopo la nostra prima notte insieme. Adesso, però, era diverso. Perché dopo quella prima notte ce ne erano state tante altre, e avevamo anche condiviso dei momenti particolari che personalmente non avrei condiviso con tutti. Law a parte, era stato l’unico ad esplorare parti di me che nemmeno sapevo di avere. Sabo mi aveva fatto scoprire cose che non pensavo fossero possibili e mi aveva fatto vedere la realtà sotto una luce diversa. Mi aveva mostrato il lato oscuro e mi aveva aiutato a non averne paura, a capire che faceva parte della natura umana avere delle debolezze carnali. Di certo non lo vedevo come un fidanzato, ma non era neanche un mero amante. Non mi venivano gli occhi a cuoricino quando lo guardavo, non avevo le palpitazioni né sentivo le farfalle nello stomaco, ma non gli ero nemmeno indifferente. Non avevo idea di cosa fosse lui per me, però sapevo che lui mi vedeva allo stesso modo in cui lo vedevo io. E mi andava bene così.
«Ha importanza saperlo?» mi chiese. Un piccolo sorriso era affiorato sulle sue labbra e aveva l’espressione persa. Quello era il segno che per lui la conversazione si sarebbe conclusa lì, che io lo avessi voluto o meno.
«No, immagino di no» replicai. Sorrisi anche io. In fondo, non mi serviva una risposta. Non era sempre necessario conoscere tutte le risposte, era stato propio Sabo ad insegnarmelo. E, ancora una volta, mi stava bene così.
La salsedine mi solleticava la pelle ed un vento tiepido e confortevole mi avvolgeva il corpo e faceva danzare nell’aria i miei capelli. C’era profumo di mare, e di libertà.
Sì, era stato un perfetto ultimo tramonto.
 
Una gocciolina di sudore mi scivolò lungo la tempia. Il soffitto in legno sopra le nostre teste ondeggiava. Non ero sicura che fosse perché era la nave a muoversi o perché invece ero tuttora su di giri per quanto successo poco prima. Sorrisi beata, inspirando ed espirando con forza l’aria ancora elettrica che ci circondava. Gettai una rapida occhiata al biondo accanto a me, che si era puntellato su un gomito e mi stava fissando con un sorrisetto compiaciuto. Feci roteare gli occhi e sospirai.
«Avanti, dillo. So che hai bisogno di vantarti dopo ogni tua performance» lo incoraggiai, canzonandolo appena. La cosa più grande che aveva Sabo, quando si parlava di amplessi, era l’ego. Non per niente, mi aspettavo che si mettesse a decantare le sue abilità da grande seduttore, invece disse qualcosa che mi stupì e mi lasciò senza parole per qualche secondo.
«Sono disposto a fare un’eccezione, per questa volta» iniziò divertito «Ma solo se ammetterai che ti mancherò».
Mi girai su un fianco per guardarlo. I suoi occhi scrutavano il mio corpo, coperto solo da un lenzuolo, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. E in un certo senso lo era. Mi puntellai anche io su un gomito.
«Questo non posso farlo, perché non mi mancherai. O meglio, non sarai tu a mancarmi» gli confessai, facendo leva sul braccio ed avvicinandomi pericolosamente al suo viso, fino a poggiare la testa sul suo cuscino. Lui mi guardava con curiosità. «Diciamo che piuttosto mi mancherà il tuo... tubo» gli soffiai poi, ad un centimetro dalle labbra.
Rimanemmo immobili ed in silenzio per un po’, poi scoppiammo a ridere contemporaneamente.
«Se la metti così, anche io sentirò la mancanza della miglior cercatrice di tubi che sia mai esistita» affermò ghignando. Cercai di trattenermi dal sorridere come un’ebete. Ero contenta che me lo avesse detto e di certo mi sentivo onorata dalle sue parole. Perché quella frase, detta da lui, significava più di quanto potesse sembrare.
«Lo prendo come un complimento» risposi, con un’alzata di spalle.
Non rispose. Appoggiò la testa sul cuscino e si mise comodo, poi mi fece cenno di fare lo stesso. Avevamo entrambi bisogno di dormire, il giorno seguente – l’ultimo giorno di viaggio, nonché il giorno in cui mi sarei ricongiunta alla mia ciurma – si prospettava impegnativo. Feci per allontanarmi da Sabo per ritornare sulla mia “parte di letto”, ma lui mi trattenne poggiandomi una mano sul fianco. Non era un gesto voluttuoso, fu piuttosto delicato. Il suo pollice si mosse un paio di volte, solleticandomi la pelle nuda. Il suo corpo emanava calore e sicurezza, perciò non mi opposi. Del resto, era l’ultima notte che passavo in sua compagnia, quindi perché non approfittarne del tutto? Gli posai la mano sulla spalla e gliela strinsi appena, come per accertarmi che fosse veramente lì, che quel momento praticamente perfetto non era frutto della mia fantasia.
«Sai, avresti bisogno di una doccia» mi fece sapere. Dapprima aggrottai la fronte, stupita, ma poi risi ed annuii. Non potevo dargli torto, avevo sudato parecchio.
«Sì, decisamente» asserii «Anche tu però non scherzi» lo presi in giro, ridendo.
«Se vuoi domani possiamo farla insieme» mi propose subito dopo, accompagnandosi con una provocatoria alzata di sopracciglia.
«Mi sembra un buon compromesso» valutai. Lui ghignò.
«Per te è sicuramente vantaggioso» soffiò, un bagliore gli illuminava le iridi cineree.
Non aspettò una risposta e chiuse gli occhi. Non passò molto tempo prima che si addormentasse. A me, invece, ci volle un po’ di più. Non ero inquieta, solo che provavo tante emozioni diverse e contrastanti, a tal punto che non sapevo come sentirmi. Avrei dovuto essere eccitata di rivedere i miei compagni? O avrei dovuto essere dispiaciuta perché non avrei più avuto a che fare con Sabo e con tutto ciò che riguardava i rivoluzionari? Forse non aveva senso stare a rimuginarci troppo. Forse non era sbagliato provare entrambe le cose. In ogni caso, avevo bisogno di riposare.
Osservai il fratello di Rufy mentre dormiva. Sembrava così tenero ed indifeso, era tornato bambino. Se i suoi nemici lo avessero visto ora, probabilmente si sarebbero inteneriti. Mi chiesi cosa stesse sognando, e sperai che fosse qualcosa di bello.
I capelli biondi gli ricadevano sul viso e ne coprivano una parte. La bocca era socchiusa. Il respiro appena accennato, lento e regolare. Aveva un’espressione pacifica. Non potei trattenermi dall’accarezzargli una guancia. La sua pelle, al tatto, era liscia e soffice. Ricalcai il contorno delle sue labbra con la falange dell’indice. Mi dispiaceva molto non poterle più assaporare. Non poterle assaporare ancora. Mi sembrava di non averne mai abbastanza di quel sapore. Il sapore della libertà, il sapore della passione, il sapore dell’avventura. Lasciai scivolare le dita più in basso e gli sfiorai la cicatrice rosea che gli contornava l’occhio sinistro. Anche quella aveva il suo fascino. E dire che era partito tutto da una cicatrice. La stessa che mi aveva incasinato la vita in un modo estremamente piacevole.
Sorrisi, grata e felice che Sabo fosse lì con me, beandomi ancora una volta della vista del suo viso prima di divincolarmi dal suo tocco e sporgermi verso il comodino per spegnere la lampada ad olio. Se non l’avessi fatto, molto probabilmente si sarebbe incendiata l’intera cabina, e non avevo nessuna voglia di presentarmi ai Pirati Heart con delle ustioni di terzo grado sparse per il corpo.
«Buonanotte, Sabo. E grazie. Di tutto» gli sussurrai dolcemente, scostandogli una ciocca di capelli dalla tempia. Non poteva sentirmi, dato che ronfava come un angioletto, ma questo non importava. Non aveva bisogno di sentirmi, sapeva quello che aveva fatto per me. Nel bene e nel male.
Sì, Dragon aveva assolutamente preso la decisione giusta scegliendo di affiancarmi il suo braccio destro in questo viaggio.
 
 
 
 
He said: “Let's get out of this town,
Drive out of the city,
Away from the crowds”.
I thought: “Heaven can't help me now,
Nothing lasts forever,
But this is gonna take me down”.


He's so tall, and handsome as hell.
He's so bad, but he does it so well.
I can see the end as it begins, my one condition is...

 
Say you'll remember me
Standing in a nice dress, staring at the sunset, babe.
Red lips and rosy cheeks,
Say you'll see me again, even if it's just in your
Wildest dreams.
Wildest dreams.

 
I said: “No one has to know what we do”,
His hands are in my hair, his clothes are in my room.
And his voice is a familiar sound, nothing lasts forever,
But this is getting good now.


He's so tall, and handsome as hell,
He's so bad, but he does it so well.
And when we've had our very last kiss,
My last request is...

 
Say you'll remember me,
Standing in a nice dress, staring at the sunset, babe.
Red lips and rosy cheeks,
Say you'll see me again, even if it's just in your wildest dreams.
Wildest dreams.

 
You see me in hindsight,
Tangled up with you all night,
Burn it down.
Some day when you leave me
I bet these memories follow you around.
You see me in hindsight,
Tangled up with you all night,
Burn it down.
Some day when you leave me
I bet these memories follow you around.

 
Say you'll remember me,
Standing in a nice dress, staring at the sunset, babe.
Red lips and rosy cheeks,
Say you'll see me again, even if it's just pretend.

 
Say you'll remember me,
Standing in a nice dress, staring at the sunset, babe.
Red lips and rosy cheeks,
Say you'll see me again, even if it's just in your

Wildest dreams.
In your wildest dreams.
Even if it's just in your wildest dreams.


In your wildest dreams.



 
Angolo autrice
Salve a tutti! Sono tornata. Questo è un altro capitolo incentrato sul rapporto che hanno instaurato Camilla e Sabo in questi mesi. Dato che il rivoluzionario ci lascerà tra un paio di capitoli (per il momento, non è detto che non possa ricomparire in un lontano futuro), ho voluto concludere questo loro viaggio, sia fisico che spirituale, con una canzone, e ho pensato che "Wildest Dreams" di Taylor Swift fosse perfetta per descrivere il complicato legame che hanno stabilito quei due. Credo che tale canzone si adatti bene a questo capitolo in particolare, ed ecco perché ho deciso di inserirla ora e non in seguito.
Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che il biondo fratello di Rufy non risulti troppo OOC. Un'ultima precisazione, sempre a proposito di fratelli: la parte in cui Sabo confessa che a lui ed Ace piaceva osservare le stelle da piccoli è frutto della mia immaginazione. Non so perché, ma secondo me è qualcosa che i futuri possessori del frutto Mera Mera avrebbero potuto fare. A me piace immaginarli così, almeno. Anche se non sappiamo molto a riguardo, sono convinta che abbiano vissuto dei momenti molto poetici insieme.
Fatemi sapere cosa pensate del capitolo, se vi va. :) A presto!
   
 
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