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Autore: Adeia Di Elferas    28/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il rinnovato governo fiorentino aveva scelto il suo Segretario. Machiavelli non aveva potuto credere, in un primo momento, a una simile fortuna. Anche se sapeva di meritarselo, quando quel 28 maggio la sua carica era stata resa ufficiale, era rimasto ugualmente senza parole per qualche istante.

Essere Segretario gli avrebbe dato un potere sotterraneo che mai avrebbe potuto sperare di ottenere in un momento di pace. La morte di Savonarola e i rimaneggiamenti che ne erano seguiti erano stati la chiave di volta per il suo insperato avanzamento di grado.

Benché Niccolò fosse intimamente certo di meritare una simile carica, non confidava abbastanza nei suoi concittadini per sperare di ottenerla. E invece, il fato e le coincidenze, gli avevano permesso di fare la carriera che aveva immaginato. O, almeno, di fare il primo passo.

“Sia ben chiaro – gli aveva detto il Gonfaloniere di Giustizia – sarà il Consiglio degli Ottanta a eleggervi formalmente. E poi ci vorrà la ratifica del Consiglio Maggiore. Ma ormai potete starvene tranquillo, il posto è vostro.”

Machiavelli, che era di indole inquieta, trepidava di gioia, ma allo stesso tempo, quando si fermava a pensarci come in quel momento, mentre attraversava a passo spedito la via Larga, diretto al palazzo della Signoria, i dubbi lo attanagliavano come scorpioni.

Stringeva la sua cartellina al petto, i capelli indomabili sollevati dal venticello insolente di fine maggio, e i suoi occhi più che guardare la strada davanti a sé erano spersi in eventualità di ogni tipo.

Immaginava nuovi colpi di Stato, nuovi sedicenti santi in vita pronti a ribaltare le sorti di Firenze, una guerra...

La guerra. Niccolò deglutì, scansando all'ultimo minuto un nugolo di bambini scalzi che correva.

La cocente sconfitta a San Regolo per la Repubblica era stata peggio di una bastonata sul naso. La Signoria aveva subito chiesto aiuto a tutti i vicini, ma nessuno voleva rispondere. L'unica, a quanto pareva, era stata la Sforza di Forlì.

Tuttavia, pure lei aveva spedito a Firenze solo parte dell'esercito, tenendo l'artiglieria migliore e il figlio ben al sicuro, con la promessa di inviarli in un secondo tempo.

Secondo Machiavelli già era folle fare accordi con una donna, specie se in tema bellico, ma piegarsi in modo tanto vigliacco alle sue pretese...

Era all'altezza di Palazzo Medici quando notò appena fuori due figure che conosceva bene. Uno era Lorenzo il Popolano e l'altro, per quanto smagrito e in abiti un po' consumati, era di certo Sandro Botticelli.

Siccome la paura che, complice il nuovo re francese, il ramo Popolano dei Medici potesse perdere di nuovo il potere, favorendo così un ritorno del Fatuo – e quindi un ennesimo stravolgimento del governo che avrebbe messo in dubbio la sua carica di Segretario – era forte, Niccolò volle avvicinarsi, sia per capire cosa rendesse tanto truce il volto dei due uomini, sia per cercare di ingraziarsi Lorenzo.

“Accettate, vi dico!” stava dicendo il Medici, allargando le mani con il fare di chi non sa più che pesci prendere: “Si tratta di qualche dipinto, nulla di che, ma sarebbe importante, per voi... Non potete continuare così...”

Botticelli non l'aveva lasciato continuare e, scuotendo il capo, aveva ribattuto, perentorio: “Non posso. Finché si tratta di qualche piccolo lavoro di manutenzione, posso pensarci, ma non di più.”

“Buona giornata, messeri...” salutò, con un inchino ossequioso Machiavelli, capendo che il discorso in essere non gli interessava.

Lorenzo lo guardò di sottinsù, trovandolo come sempre ridicolo, con il suo viso appuntito, da faina, e il suo fisico reso ancora più comico dal vestone scuro che si era messo a portare da quando aveva subodorato la possibilità di diventare qualcuno.

“Buongiorno.” fece in fretta Sandro, senza nemmeno guardarlo e tornando subito a discutere con il Popolano: “Tu non capisci. Io ho compreso che la mia arte era troppo... Troppo terrena. La vita in questo mondo non è eterna, ma quella nell'aldilà sì e io non voglio dannarmi l'anima per colpa di un dipinto...”

Il Medici lanciò un'occhiataccia a Niccolò che capì di essere di troppo e di aver sbagliato ad avvicinarsi. Perciò, con un altro inchino, se ne andò all'istante, scalpicciando sulla strada polverosa.

 

“Prima voglio essere certo che Ottaviano Riario sia via da Forlì.” disse Antonio Maria Ordelaffi, lisciandosi la stoffa del mantello sulla gamba.

Il Doge, che eccezionalmente aveva deciso di vederlo di persona, trattenne una risata. Quell'uomo, se non fosse stato indispensabile per i suoi piani, sarebbe stato da lasciare al suo destino una volta per tutte. Ingenuo com'era, probabilmente sarebbe morto di stenti dopo pochi giorni.

“Se vi fa stare più tranquillo...” fece Barbarigo, accennando un sorriso.

“Grandemente.” assicurò l'Ordelaffi, annuendo.

“Ebbene, allora tornerete a Ravenna solo quando saremo certi che il figlio della Tigre è in partenza per Firenze.” concluse il Doge: “Ma sul resto i patti non si cambiano.”

Antonio Maria si alzò dalla preziosa ottomana su cui il suo ospite l'aveva fatto accomodare. Si sistemò con cura il colletto del giubbone e le lattughine candide che ne uscivano e poi guardò di traverso il Doge.

Con il solito tono teatrale che Barbarigo proprio non sopportava, il romagnolo esule ribadì: “Io sollevo il popolo, combatto contro la Sforza, ma in cambio mi riprendo la mia città.”

“Come da accordi.” fece il Doge, desideroso di mandarlo via il prima possibile.

“Bene. Inizierò a mettermi in viaggio già da domani. In modo da essere pronto appena riceverò l'ordine di andare a Ravenna.” concluse Ordelaffi.

Barbarigo annuì di nuovo e poi lo scortò personalmente alla porta. Non appena se ne fu liberato, andò alla finestra e guardò la laguna che si scuriva nell'arrivare della sera.

Aveva spedito moltissimi uomini nel ravennate e anche a Rimini. Voleva far spaventare la Sforza il più che poteva. Quella donna aveva uno Stato minuscolo e anche se si vantava di poter contare su Milano, tutti sapevano che il Moro non avrebbe mosso un dito per lei.

Così come non avrebbe mosso un dito Firenze. Le voci che correvano sul figlio nato da lei e Giovanni dei Medici erano accompagnate dalla certezza che il fiorentino l'avesse sedotta e blandita solo per poterla usare. Dunque, in caso di pericolo reale, era probabile che il Popolano se ne sarebbe tornato a Firenze, lasciandola sola in pasto ai nemici, nella speranza che il suo sacrificio rallentasse l'avanzata veneziana.

Se il Doge – ne era fermamente convinto – fosse riuscito a metterla abbastanza alle strette, spaventandola come nessun altro mai, forse si sarebbe ricreduta. Forse avrebbe accettato la mano tesa che Astorre Manfredi le avrebbe mostrato in quei giorni e sarebbe passata una volta per tutte dalla parte della Serenissima.

Con un sospiro pesante, Barbarigo si allontanò dalla finestra e poi chiamò un servo: “A che ora comincia il banchetto, questa sera?” chiese, stancamente.

Far la guerra, c'era da dirlo, gli metteva una fame incredibile.

 

Il Consiglio di Guerra si era riunito poco dopo l'alba. Mentre la rocca si risvegliava a fatica, la Contessa e i suoi uomini più fedeli stavano lambiccandosi sulle mosse più giuste da fare in quel frangente.

La notizia peggiore, indubbiamente, arrivava dal fronte orientale. I soldati veneziani si stavano moltiplicando e sia a Ravenna sia a Rimini stavano approntando un vero e proprio arsenale di artiglieria.

Pandolfo Malatesta era a Ferrara e Caterina non riusciva a evitare di chiedersi cosa ci facesse di preciso. Secondo Giovanni, che aveva recuperato grazie alla cognata qualche contatto con dei delatori fiorentini, stava cercando, assieme a Guidobaldo da Montefeltro, un esercito per riportare Piero il Fatuo a Firenze.

Secondo la Tigre, invece, era più probabile che il Pandolfaccio stesse solo cercando una via di fuga, abdicando completamente il suo ruolo di signore di Rimini e lasciando che Venezia usasse la sua terra come magazzino di uomini e armi.

Quale che fosse la verità, poco importava. Era chiaro che quello sfoggio di muscoli da parte del Doge non sarebbe rimasto fino a se stesso.

“Vuole solo convincerci a cedere alle loro lusinghe e diventare veneziani anche noi.” disse Mongardini, scuotendo il capo.

Caterina, appoggiata al tavolo delle mappe, osservava in silenzio il quadro tragico che le si prospettava.

Per quanto i suoi soldati fossero più preparati, più motivati e in linea di massima molto più disciplinati di chiunque altro, restava il problema che potenze come la Serenissima potevano schierarle contro il doppio, il triplo, il quadruplo degli uomini.

“Firenze purtroppo non ha abbastanza risorse per correrci in aiuto, se Venezia dovesse attaccare adesso.” ammise a denti stretti Giovanni, seduto poco distante dalla moglie.

Di norma non gli piaceva farsi vedere comodamente in poltrona quando tutti gli altri stavano in piedi, ma quel giorno le sue gambe non volevano collaborare e così, per evitargli sofferenze inutili, la Leonessa l'aveva costretto a prendere posto seduto senza reclamare oltre.

“Forse allora non dovremmo mandare messer Ottaviano – fece Luffo Numai, stringendosi le mani l'una nell'altra e cercando lo sguardo del Capitano Francesco Numai, suo parente, per avere appoggio – forse ci converrebbe attendere e anzi richiamare i soldati già inviati per averli a difesa di Forlì e Imola...”

La Sforza ancora taceva, una mano sulla fronte, a massaggiare lentamente, probabilmente a lenire una forte cefalea che le toglieva anche lucidità.

Era da qualche giorno che il mal di testa la tormentava, specialmente nel pomeriggio. Oltre a quello, le capitava di sentirsi febbricitante, verso sera, ma quando il medico aveva azzardato qualche ipotesi diagnostica, lei l'aveva sempre preso in giro, dicendogli che sapeva benissimo qual era la sua malattia.

Quando il dottore aveva provato a chiedere: “Quale, di grazia?” la donna aveva alzato le spalle e gli aveva fatto capire che non gli avrebbe risposto, benché nella sua mente la soluzione rimbalzasse senza sosta: 'la paura'.

Quelli non erano giorni troppo sereni. Malgrado vedere crescere Ludovico fosse un'autentica gioia, tanto per lei quanto per il marito, le nubi dense e minacciose che si stendevano sul loro futuro sembravano trovare sfogo nelle difficoltà fisiche di entrambi.

Sia lei sia Giovanni stavano vivendo momenti complicati. Confrontarsi a quel modo con la debolezza dei loro corpi li rendeva di giorno in giorno più desiderosi di passare del tempo con il loro piccolo Ludovico – che invece era in perfetta salute, per la loro gioia – e anche di passare del tempo assieme, quando ci riuscivano, dimenticando per qualche ora le loro angosce, stemperandole nella passione.

“Richiamarli, però – fece notare a quel punto il Capitano Rossetti – sarebbe un affronto a Firenze.”

“Potremmo dire che in cambio si devono impegnare a far liberare il Capitano Tiberti!” si accese a quel punto Francesco Numai, che non aveva digerito la decisione della Tigre di lasciare Achille al proprio destino nelle mani dei pisani.

“Fare richieste a questo punto verrebbe visto come un atto di arroganza!” si oppose con fermezza Rossetti, scuotendo il capo e battendo una mano sull'elsa della spada che portava al fianco: “Il nostro onore non deve venire infangato! I fiorentini penserebbero che ci stiamo tirando indietro perché abbiamo paura di combattere!”

“Ma noi abbiamo paura di combattere!” esclamò Giovanni, non riuscendo a trattenersi: “Se restiamo fermi nel nostro proposito Venezia ci attaccherà e sarà la fine!”

“Voi state zitto, che non siete nemmeno forlivese!” si adirò Francesco Numai, facendo minacciosamente un passo avanti: “E poi voi non combattereste di certo, nello stato in cui siete!”

“Come vi permettete..!” sbottò il Medici, tirandosi in piedi con un po' di fatica.

“Non capite quanto è importante il lavoro di mediazione di messer Medici?!” intervenne Rossetti, parandosi tra il furente Capitano e l'adirato fiorentino.

“Io dico di attaccare e basta! O moriamo con la spada in mano o vinciamo da eroi!” gracchiò Mongardini, facendosi largo tra i litiganti.

“State zitti!” li fermò di colpo Caterina, alzando la voce in modo tanto temibile che in una frazione di secondo nella stanza non si sentì più il minimo rumore.

Giovanni si rimise lentamente seduto, Francesco Numai rinfoderò la spada che stava per sguainare, Mongardini se ne tornò nel suo angolo e anche tutti gli altri si fecero perfettamente muti.

“Non tradiremo il patto con Firenze.” mise subito in chiaro la donna, le mani appoggiate al tavolo e lo sguardo che passava dall'uno all'altro degli uomini presenti, il marito compreso: “Venezia deve pensare che non abbiamo alcuna paura.”

“Ma così finiranno per attaccarci...” disse debolmente Luffo Numai.

“Se si arriverà a quel punto, vedrò di far pesare le mie parentele.” premendosi due dita sulle tempie, la Tigre concluse: “E adesso dichiaro sciolta la riunione. Ci riaggiorneremo appena avrò novità da comunicarvi. Per il momento, che venga mandato ordine al Governatore di Imola di proseguire negli arruolamenti e nell'acquisto di armi. Lo stesso si faccia qui. Mongardini...”

L'uomo, raddrizzando le spalle, si fece avanti: “Mia signora?”

“Mi raccomando, che le truppe vengano addestrate a dovere. Dobbiamo essere una macchina ben oliata, una macchina che quando sarà il momento di metterla in funzione, non metta in crisi i muli che tirano l'argano. Siamo intesi?” gli disse, fissandolo penetrante.

Questi chinò il capo e assicurò: “Avrete a disposizione l'esercito migliore che l'Italia abbia mai conosciuto.”

“Numai...” disse poi la Contessa, indicando Francesco: “Voi setacciate le campagne. Mostrate alle famiglie e ai giovani i vantaggi di entrare nel mio esercito. Non siate avaro di promesse. Chi sopravvivrà, le vedrà mantenute, se avremo vinto.”

Il Capitano Numai annuì e confermò: “Farò come dite, mia signora.”

A quel punto la Sforza congedò tutti con un cenno della mano, ma fece capire al marito di restare seduto là dov'era.

Appena rimasero soli, Giovanni ebbe per un momento il terrore che sua moglie lo volesse riprendere per quello che aveva detto e per come aveva tenuto testa ai Capitani. Da tempo erano d'accordo sul fatto che lui non doveva mai impicciarsi in modo pubblico degli affari di Stato.

Poteva dare dei consigli a lei, in privato, ma non lasciare trapelare quanto la sua opinione fosse importante, né lasciare che qualcuno potesse crederlo capace di influenzare il volere della Contessa.

Benché Caterina si fidasse molto del suo giudizio, infatti, la Tigre era convinta che il ricordo del Barone Feo fosse ancora troppo vivo e che insinuare il dubbio che il Medici si stesse per trasformare in un nuovo Giacomo avrebbe causato di certo problemi, benché il fiorentino fosse molto apprezzato dai forlivesi e conosciuto per essere un uomo equilibrato e istruito.

Così, mentre già si aspettava una strigliata di capo per la sua impudenza, Giovanni un po' trasecolò nel sentire il tono mesto della Sforza che gli chiedeva: “Credi che stia sbagliando?”

L'uomo deglutì e, dopo un momento di serio ragionamento, scosse la testa: “No. Credo che la tua sia la decisione migliore.”

“Non la più saggia, però.” fece lei, sentendo un'inclinazione particolare nella voce del fiorentino.

Un po' in difficoltà, il Medici si alzò in piedi e poi, accarezzandole il viso con la punta di indice e medio, disse solo: “Non la più saggia, forse, ma di certo la migliore. L'onore a volte conta molto più dell'interesse, non credi?”

“Resterai con me fino alla fine?” gli domandò, appoggiando la propria mano su quella di lui.

Il Popolano sorrise, un po' triste e rispose: “Lo sai che lo farò.”

 

“Il vescovado di Viterbo non è cosa da poco.” disse a voce bassa Ascanio Sforza, guardando di sottecchi il Cardinale Sansoni Riario.

Questi, con un'espressione a tratti indecisa, a tratti ottimista, annuiva di quando in quando, senza aggiungere nulla di più alla conversazione.

“Da quest'estate?” chiese lo Sforza, cercando di capire meglio quello che voci di corridoio gli avevano portato all'orecchio.

“Probabilmente da agosto, o giù di lì.” rispose Raffaele, allargandosi un po' il colletto dell'abito talare, gli occhi, resi sfuggenti dall'ansia che gli metteva addosso il suo interlocutore, correvano sempre più spesso verso la porta.

Di lì a poco sarebbe dovuto arrivare il papa assieme ad altri porporati, ma ancora non si profilava nessuno a levarlo da quell'impiccio.

Ascanio si grattò pensoso il doppio mento. Negli ultimi mesi aveva preso molti chili e ogni minima preoccupazione ulteriore sembrava capace di farlo espandere ancora di più. Di quel passo, scherzavano certi suoi conoscenti, sarebbe scattata una gara tra lui e il Moro su quale fosse lo Sforza più grasso.

“Certo che è un grande onore, per voi, accentrare così tante cariche...” buttò lì il milanese, spostando il peso da un piede all'altro.

Raffaele deglutì. Non gli piacevano quelle conversazioni, non gli erano mai piaciute. E poi non ci vedeva nulla di male, nell'avere l'appoggio del papa. La Chiesa gli stava dando tanto, ma gli aveva anche chiesto tantissimo. Una cosa per tutte, la sua presenza alla Messa durante la quale era stato ucciso Giuliano dei Medici, molti anni addietro.

Il solo ricordo lo fece vacillare un istante. Erano passati quelli che sembravano secoli. Da ragazzino spaurito, si era trasformato in un uomo capace, malgrado tutto, di restare a galla. Aveva commesso molti errori, ma era anche stato in grado di fare molte cose giuste. Ecco perché era ancora lì, ecco perchè Alessandro VI gli dava importanza.

“Ma è vero quello che dicono di Cesare, il figlio di Sua Santità?” cambiò discorso Ascanio, capendo che non avrebbe cavato altro, da quel dannato Riario, sulla sua nuova carica.

“Non saprei. Che cosa si dice?” chiese Raffaele, asciugandosi con un fazzoletto candido la fronte imperlata di sudore.

Giugno era appena cominciato, ma Roma si stava già surriscaldando. Se non fosse stato per il ponentino che spirava verso sera, probabilmente non si sarebbe riusciti a resistere.

“Che suo padre lo voglia far spretare e sposare. Sembra che la nostra cara nipote – fece lo Sforza, scoprendosi un po' nella speranza che lo facesse anche il suo interlocutore – questa volta abbia tirato troppo la corda e che il papa ne voglia approfittare per riprendersi il suo Stato.”

Il Cardinale Sansoni Riario sgranò gli occhi, fissando l'altro. Bastò quel cambiamento repentino per far capire ad Ascanio che il savonese non sapeva assolutamente nulla di quella storia e che dunque si era esposto troppo.

Quando Raffaele stava per chiedere qualcosa in più, però, la porta finalmente si aprì e ne entrò un papa sconvolto dal caldo assieme a un codazzo di amici e Cardinali pronti per quella riunione informale che, ne erano tutti certi, serviva solo al Borja per fare il punto della situazione su chi gli era ancora fedele e su chi invece cominciava a vacillare.

 

Caterina si morse il labbro e restituì Ludovico a Giovanni. Mentre questi prendeva con delicatezza il figlio tra le braccia, la moglie fece segno all'Oliva di seguirla.

Quello che le aveva detto era gravissimo, dal suo punto di vista. Voleva avere conferma assoluta che fosse tutto vero.

A passo di marcia, seguita dal capo delle sue spie, la donna andò filata allo studiolo del castellano e pregò l'Oliva di ripetere quello che aveva detto a lei poco prima.

“E dunque siamo certi che il Doge abbia accordato una condotta ad Antonio Maria Ordelaffi affinché sfrutti il suo nome e le sue vecchie amicizie per riprendersi Forlì e, se possibile, per allungare le mani anche su Imola.” concluse il milanese, parlando spedito, ma in modo molto chiaro.

“Adesso si spiegano le parole strane di Castagnino.” commentò Cesare Feo a denti stretti, riferendosi a una recente lettera del reggente di Astorre Manfredi con cui si pregava la Tigre di recedere dai suoi propositi e schierarsi con Venezia 'prima che forze che non v'aspettate' la divorassero.

“Da quello che so, però – fece dopo un momento il castellano, appoggiando la penna alla scrivania e guardando la Contessa – questo Ordelaffi è poco più che un damerino.”

La Sforza ricordava bene i trascorsi con quell'uomo e la sua pretesa di sposarla per riavere il suo Stato. Ricordava anche molto bene di come avesse sparso la voce di un loro prossimo matrimonio senza nemmeno consultarla.

“Quell'uomo è un pericolo, invece. Ha ancora amici ovunque e...” iniziò a dire Caterina, che in realtà non voleva raccontare il vero motivo per cui quella notizia l'aveva profondamente messa in difficoltà: “Voglio che mandiate dei soldati discreti nelle campagne e sul confine. Che cerchino di capire se c'è ancora qualcuno fedele agli Ordelaffi.” ordinò.

Il Feo annuì, prendendo subito nota. Dopodiché domandò se fosse il caso di fare altrettanto in città.

“So bene – cominciò, guardingo, scegliendo con cura le parole per non urtare la sua signora – che la classe nobiliare di Forlì ha cambiato nomi e volti, negli ultimi anni, ma non si sa mai...”

“Ottima idea.” convenne la Leonessa: “Fate le vostre indagini e se doveste avere anche solo un dubbio, portate i sospettati da me.”

Il castellano annuì e l'Oliva fece altrettanto, così alla donna non restò che tornare dal marito e dal figlio, sperando che la loro vicinanza potesse in qualche modo rasserenarla.

Tuttavia, arrivata la sera, l'animo della Contessa era ancora in preda a una tempesta. A suo tempo, si era scontrata abbastanza aspramente con l'esule Ordelaffi, tanto da raccomandarlo a Venezia, affinché non gli permettessero più di tornare in patria. Ora, quella stessa vicinanza con la Serenissima che in fondo lei stessa aveva causato le si stava per ritorcere contro.

Giovanni stava facendo del suo meglio per rassicurarla, ma i fantasmi del passato erano più presenti che mai.

Stavano per mettersi a dormire, dopo una lunga conversazione che non aveva portato a molto, quando qualcuno bussò alla porta.

Siccome la Sforza aveva dato ordine di disturbarla pure qualsiasi cosa fosse successa, appena sentì quel suono scattò in piedi veloce come un lampo e andò a vedere chi fosse e che avesse da dire.

Il castellano la salutò con un cenno del capo e le diede una lettera: “Direttamente da Milano. È appena arrivata. Non volevo disturbarvi, ma mi avevate detto di...”

“Avete fatto benissimo.” lo liquidò Caterina, chiudendo subito la porta dopo aver preso in mano la lettera.

Si sedette sul letto e spezzò il sigillo di suo zio. Giovanni leggeva assieme a lei da sopra la sua spalla e comprese bene perché la moglie, dopo essere arrivata all'ultima riga, prese la lettera e l'accartocciò con rabbia.

“Il più pericoloso nemico dei Riario!” sbottò Caterina, citando le parole che il Moro aveva usato per descrivere l'Ordelaffi.

Si alzò dal letto e, cominciando a vagare per la stanza furibonda, agitò la lettera per aria borbottando frasi sconnesse un po' contro suo zio e un po' contro Venezia, per poi sfociare in un iracondo: “Loro credono di potersi fare beffa di me perchè sono una donna! Pensano che perché posso partorire figli non ho abbastanza cervello per essere loro pari! Sono convinti che mi prenda un marito solo perché da sola non valgo nulla! La vedranno, quanto valgo!”

Il Medici, che non sapeva come placarla, in quel momento, si limitava a guardarla in silenzio, aspettando che sbollisse da sola.

Le parole dello Sforza erano vergate con il miele, ma nascondevano del veleno. Con frasi affettate e apparentemente molto cortesi, aveva fatto capire alla nipote che era circondata da nemici e che, in caso di bisogno, Milano non sarebbe intervenuta, a meno che da parte di lei non vi fosse stato un chiaro intento di lasciarsi poi guidare dal Duca, oltre, chiaramente, alla condiscendenza nello scacciare ogni fiorentino da Forlì e Imola, con chiaro riferimento tanto a Giovanni, quanto a Ridolfi.

Per concludere l'opera, le faceva capire anche che non sarebbe certo bastato chiamare un bambino Ludovico per assicurarsi il suo appoggio. La parentela era importante, ma altre cose lo erano molto di più.

“La cosa più grave...” fece dopo un po' la Tigre, a voce molto più bassa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, senza forza: “È che se mio zio sapeva prima di noi di Ordelaffi, significa che o ha spie più efficienti delle nostre, o è in combutta con Venezia.”

“Quindi di lui non possiamo più fidarci?” chiese il Popolano, alzandosi e andandole vicino.

Gli occhi verdi della Tigre cercarono quelli molto più chiari del marito, non nascondendo un velo denso di lacrime che stavano per scivolarle sulle guance.

Giovanni la strinse a sé e, mentre la donna lasciava cadere con un ultimo residuo di rabbia la lettera in terra, le disse: “Possiamo farcela anche senza Milano.”

“Ma Milano è casa mia.” sussurrò lei, con voce roca.

L'uomo la strinse a sé ancora per un po', sentendo la sua pelle bollente sotto la sottile sottoveste che indossava. Fu quasi certo che avesse di nuovo la febbre, ma questa volta per colpa del nervosismo che le parole dello zio le avevano messo addosso.

Facendo un profondo respiro, Caterina allontanò Giovanni con un gesto deciso e poi, asciugandosi le poche lacrime che aveva versato con il dorso della mano, decretò: “Hai ragione. Possiamo farcela anche senza Milano. Che si butti da una torre anche mio zio.”

Raddrizzando le spalle, la Tigre accese qualche candela in più e si mise alla scrivania, per rispondere immediatamente al Moro.

Gli scrisse una lettera molto puntuale, in cui minimizzava il pericolo legato tanto a Ordelaffi, quanto a tutti gli altri e concludeva dicendo che, benché non avesse forse lo sterminato esercito milanese alle spalle: 'mi basta bene l'animo de difendermi'.

Una volta finito, fece leggere a Giovanni il risultato e l'uomo fu d'accordo su tutto quanto.

Soddisfatta per quella missiva che non lasciava trasparire la minima preoccupazione per l'avvenire, la Sforza chiamò subito un servo affinché desse la lettera a una staffetta rapida che partisse all'istante per Milano.

“Che non si dica che la guerra mi rallenta.” disse tra sé, tornando in camera.

“Che ne dici di leggere qualche poesia, per distendere un po' i nervi?” propose il marito, desideroso di non chiudere la serata con l'assillo del Moro sul collo.

Caterina lo guardò un momento e poi, avvicinandosi, gli posò una mano sul fianco e gli diede un bacio. Era un bacio aggressivo, quasi rabbioso. Giovanni la scostò un momento da sé e fece un debole sorriso interrogativo.

“Non ho voglia di leggere poesie...” gli disse, con uno sguardo fiero, quasi feroce.

“Niente poesie, allora.” accettò l'uomo, mentre la moglie iniziava a baciargli il collo: “Però lo sai che...”

“Stai zitto.” lo mise a tacere lei, facendolo stendere a letto.

Il momento di smarrimento che la Leonessa aveva avuto dopo la lettera del Moro, si era trasformato in nuova linfa vitale. Era accesa, vorace, come se la prospettiva di essere rimasta praticamente sola contro tutti le desse una forza sovrumana e, con essa, una fame smisurata di vita.

A quell'ordine perentorio, esattamente come un bravo soldato che dà ascolto al suo comandante, Giovanni non disse più nulla e fece solo quello che gli veniva richiesto. In fondo, si disse, mentre la Tigre lo faceva suo senza la minima remora, quasi stesse scaricando su di lui tutto il peso di quei giorni infernali, lo sapeva che a sposare una belva selvatica si poteva finire a essere a volte considerati solo una facile preda.

 

   
 
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