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Autore: Adeia Di Elferas    31/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare Borja camminava a passo lento in una delle stradine più buie di Roma. Teneva il volto in parte celato dal cappuccio del mantello, calato ben bene sulla fronte, benché non facesse freddo.

I suoi passi risuonavano sordi nell'aria immobile di quella notte di giugno e l'unico rumore che gli faceva compagnia era l'incessante scorrere del Tevere alle sue spalle. Anche se non era vicinissimo, il fiume pareva avere una voce abbastanza forte da seguirlo ovunque, quando era nella Città Eterna, quasi a volergli ricordare del momento in cui Pedro Calderon era caduto tra i flutti scuri delle sue acque.

Stringendosi un po' nelle spalle, Cesare virò con sicurezza nel secondo vicolo che incontro e proseguì il suo cammino in modo paziente, come se ogni passo gli servisse per acquietare un po' la tempesta che aveva nel petto.

Stava ripensando da tutto il giorno a quando suo padre aveva saputo dal Vescovo di Volterra che la Sforza non aveva accettato di far sposare Lucrecia al suo primogenito. Il papa era rimasto sorpreso, come un vecchio stupido, come se davvero credesse che una donna del genere avrebbe accettato quella che era chiaramente una trappola.

Cesare, appena Soderini se n'era andato, aveva riproposto al padre di marciare subito sulle terre della Tigre e distruggerla una volta per tutte, cominciando a forgiare l'impero dei Borja proprio dalle sue città.

“Giovane, sciocco e avventato!” aveva esclamato Alessandro VI, scuotendo il capo con decisione e fissandolo con i suoi occhi rapaci: “Attaccare adesso equivarrebbe a entrare in una guerra più grande di noi. Aspettiamo di vedere che succede tra Venezia e Firenze. E aspettiamo di capire da che parte starà re Luigi...”

Citare il nuovo re di Francia aveva scavato per un attimo un solco di preoccupazione sulla fronte del Santo Padre che, con voce più bassa, aveva borbottato tra sé: “E dobbiamo anche scoprire se le parole che il Cardinale Della Rovere gli ha sussurrato all'orecchio per tutti questi anni ce l'hanno reso nemico...”

Al giovane Cesare non importavano tutte quelle finezze politiche. Lui sapeva che una sola cosa governava gli uomini: la paura. Una volta insinuata nell'animo del nemico, lo corrodeva fino a farne una preda facile come un topolino ferito.

Arrivato nella strada che voleva raggiungere fin dal principio, il figlio del papa controllò di avere con sé il denaro, e poi andò con passo più deciso verso il portone della bettola in cui si rintanava quasi ogni sera, negli ultimi giorni.

Quando entrò, chiese subito da bere. Siccome era stato riconosciuto immediatamente, malgrado il volto in parte nascosto, il padrone si affrettò a servirlo.

Posti come quello non sarebbero stati ben visti, se non fosse stato per la chiara protezione del figlio del papa e quindi di suo padre.

Cesare si scolò in rapida successione del vino, della birra e dei liquori, sforzandosi di mettere a tacere la propria testa, che non faceva che suggerirgli cose orribili e piene di rancore.

Quando si sentì abbastanza rintronato da non provare più i sentimenti ingarbugliati che a volte lo portavano a desiderare di prevalere definitivamente su suo padre, il giovane si guardò in giro e puntò il dito verso una ragazza che aspettava vicino al muro: “Lei.” ordinò, parlando con il padrone del lupanare: “E lei.” aggiunse, scegliendone un'altra, che aveva i capelli d'oro come sua sorella Lucrecia.

Il proprietario della baracca andò a recuperare le due donne e le consegnò al Borja, che, prendendole entrambe per il braccio, iniziò a condurle verso la porta che introduceva alle camere per i clienti. Era quasi deciso ad accontentarsi così, quando l'occhio gli cadde su uno dei ragazzi.

A Roma non erano molto tollerati, gli uomini che lavoravano nei postriboli, ma si chiudeva spesso un occhio – o anche due – quando erano i membri del clero a richiederli.

“Anche lui.” fece Cesare, senza nemmeno guardare più il padrone del postribolo che, abituato ai metodi sbrigativi del porporato, prese da parte anche il ragazzo indicato dal Borja e gli ordinò di seguire 'messer Cesare'.

 

“Ne siete sicuri?” chiese la Contessa, guardando con attenzione il volto di Mongardini.

L'uomo annuì con gravità e poi, gonfiando un po' il petto, rispose: “Abbiamo trovato in casa sua delle lettere incriminanti, mia signora. E lui stesso ha faticato a negare.”

“Ma è un poveraccio – si intromise Giovanni – come potete pensare che sia un appoggio di Ordelaffi?”

Caterina strinse la labbra e cercò gli occhi chiari del marito. La sua espressione lasciava trapelare alla perfezione il suo sconcerto, ma la donna sapeva che il Capitano Mongardini doveva avere ragione.

“Antonio Maria Ordelaffi – spiegò la Tigre, scostandosi un po' dal Medici e mettendosi a misurare lo studiolo del castellano a grandi passi – ha dimostrato già altre volte di non essere un fine stratega.”

“Infatti.” convenne Cesare Feo, dalla sua scrivania.

“Cosa intendete fare, dunque?” chiese Mongardini, una mano sull'elsa della spada.

“Portatelo alla rocca.” decise Caterina, con gravità: “Lo interrogherò di persona.” aggiunse poi, con un sospiro pesante.

Dopo che il Capitano ebbe lasciato lo studiolo, la Sforza dedicò uno sguardo al fiorentino, rimasto immobile e muto, dopo l'unica obiezione che aveva osato muovere, e gli sussurrò: “Così vedremo se è così innocente come credi tu.”

La donna lasciò lo studiolo senza dire altro e così a Giovanni non restò che sedersi sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo e pensare.

Il castellano non si lamentò per la sua presenza, anzi, continuò a lavorare come se non fosse lì.

“Credete che dovrei esserci anche io? All'interrogatorio, intendo...” disse dopo un po' il Popolano, cercando il consiglio di Cesare Feo.

Questi smise un istante di scrivere e poi, con una smorfia indecifrabile, rispose: “Io ho visto una volta i metodi della Contessa. Fossi in voi, preferirei non esserci, quando incontrerà quel povero Cristo...”

Il Medici deglutì e poi, schiarendosi la voce, si tirò in piedi e dichiarò: “Se qualcuno mi dovesse cercare, dite che sono con mio figlio Ludovico.”

Il castellano chinò il capo in segno di assenso e reverenza e guardò uscire il marito della Leonessa senza fare commenti.

Intingendo la punta della penna nell'inchiostro, però, si lasciò scappare, tra sé e sé: “Non è facile, amare certa gente...”

 

“Diecimila ducati, come promesso.” disse Ludovico, annuendo con serietà verso la moglie Francesco Gonzaga, vera padrona di casa, lì a Mantova.

“Voi sì che siete un uomo di parola.” fece Isabella dedicandogli un sorriso tirato.

Il Moro, che aveva la pancia piena, malgrado in tavola continuassero ad arrivare pietanze di ogni genere, bevve un sorso di vino e poi, approfittando della confusione che li circondava e delle voci troppo alte dei commensali, chiese alla Marchesa: “Qualcosa vi preoccupa? Vi vedo un po' sciupata, dall'ultima volta che ci siamo incontrati...”

Isabella occhieggiò verso il marito, seduto dall'altro lato del tavolo. Sembrava non accorgersi nemmeno delle attenzioni che il Duca di Milano stava rivolgendo a lei. O forse se n'era accorto, ma non voleva esserne volontario spettatore.

“Sono stata poco bene.” mentì la Marchesa, trattenendosi a stento dal riversare sullo Sforza tutta la sua insoddisfazione, mettendolo a parte dei problemi tra lei e Francesco.

“Mi auguro che vi stiate riprendendo...” disse allora il milanese, corrucciandosi appena mentre veniva portato in tavola il dolce: “Una donna della vostra levatura non dovrebbe mai stare male. È un crimine contro l'intelligenza e la bellezza.”

Il sorriso accomodante del Moro si ampliò ancora di più quando si servì un pezzo di torta grande quanto la sua manona, e Isabella ebbe il dubbio che l'uomo avesse parlato per mera cortesia.

Tuttavia, sentirsi rivolgere quel genere di complimenti, specialmente da un uomo che tutti dicevano ormai spento e disinteressato alle cose del mondo, la fece sentire strana.

Sapeva che Ludovico era ancora in lutto per la morte di Beatrice. Anche lei, soprattutto la sera, si trovava a ripensare a sua sorella, anche se i suoi ricordi erano quasi sempre animati da emozioni spiacevoli. Benché fosse la loro cugina, Isabella d'Aragona, quella veramente sempre in lotta con Beatrice, anche lei, l'Este, non era mai stata molto in sintonia con la defunta Duchessa.

“Sapete...” fece dopo un lungo silenzio il Moro, mentre Francesco Gonzaga veniva distratto dalle chiacchiere di uno dei cortigiani seduti appresso a lui: “Quando siete così pensierosa, mi ricordate mia moglie.”

Lasciando a briglia sciolte il suo istinto, Isabella allungò una mano e la poggiò sull'avambraccio del Duca, abbandonato sul tavolo. La ritirò subito, sapendo di aver ecceduto, con quel gesto di comprensione – che da tutti sarebbe stato scambiato per altro – ma non abbastanza in fretta da sottrarsi allo sguardo del marito.

Francesco, pallido in viso, si morse l'interno della guancia e poi, voltandosi in modo abbastanza netto verso il suo interlocutore, riprese a chiacchierare, senza trovare più il coraggio di guardare verso la moglie.

Per contro, l'Este, che si era sentita avvampare per colpa dello sguardo del marito, si sistemò un po' sulla sedia e sussurrò al Duca di Milano, con tono confidenziale: “Vi piacciono sempre i bei quadri e i dipinti?”

Ludovico non sapeva cosa rispondere. Da quando era vedovo, trovava consolazione solo nell'andare in chiesa e nel mangiare.

Tuttavia, vedendo gli occhi della Marchesa brillare d'aspettativa, annuì: “Sempre. Così come mi piacciono ancora le belle donne e le buone conversazioni.”

“Allora – propose senza ulteriori indugi Isabella – se vorrete, finito di mangiare, vi mostrerò il mio studiolo.”

“Ne sarò lietissimo.” assicurò lo Sforza.

Quelle ultime parole giunsero come un pugnale affilato e gelido alle orecchie del Gonzaga che, però, ben conoscendo l'importanza dell'appoggio milanese per il Marchesato, reagì unicamente versandosi dell'altro vino, sperando che l'ubriachezza lo strappasse alla sua tremenda gelosia.

 

Giovanni aveva rinunciato in partenza ad accompagnare la moglie nelle segrete, dove voleva interrogare il sospettato. Aveva paura che vederla in quel contesto avrebbe rotto qualcosa, in lui.

Sapeva benissimo di cosa era capace sua moglie. Tutte le volte che usciva per la città, vedeva perfettamente le teste che ancora svettavano sulla Torre del Pubblico. La sentiva svegliarsi praticamente ogni notte, preda degli incubi in cui riviveva anche le brutture che lei stessa aveva perpetrato.

Eppure, sapere, ma non vedere gli permetteva di sopportarlo.

Era nella camera dedicata a suo figlio da un po'. Aveva congedato le balie per un'oretta e con lui restava solo Sforzino, che si era seduto vicino al camino a leggere, mangiucchiando qualche pezzo di formaggio.

Il Medici teneva Ludovico sul petto. Il bambino dormiva e ogni tanto si risvegliava, agitato. Gli bastava sussurrargli qualche parola e dargli qualche bacio in fronte e subito Ludovico si riassopiva, tranquillo come non mai.

Sforzino, seppur impacciato come sempre, aveva trovato lo spirito di dire al fiorentino: “Mio fratello Ludovico è così tranquillo solo quando lo tenete in braccio voi, mia sorella Bianca o mia madre. Con le balie strilla come un falco.”

Giovanni aveva riso a quella rivelazione, ma poi, quando Sforzino si era rituffato nella lettura e nel formaggio e lo aveva lasciato libero di immergersi nei suoi pensieri, per il Popolano quell'affermazione aveva preso un retrogusto amaro.

“Forse sai che avremo poco tempo...” bisbigliò all'orecchio del figlio, che, stringendo a pugno le minuscole mani, spalancò gli occhi e cercò quelli del padre.

Aveva appena due mesi, eppure a Giovanni pareva che Ludovico potesse capirlo.

Vedere la propria mano rovinata posata sulla piccola schiena del figlio, gli diede un senso di impotenza e precarietà da mettergli addosso una malinconia prepotente, così prepotente da fargli sentire il bisogno di piangere.

Si passò la lingua sulle labbra e guardò in alto, sottraendosi agli occhi un po' allungati di Ludovico, il tratto, lo dicevano tutti, che più aveva in comune con lui.

Con un sospiro pesante, sapendo che non sarebbe riuscito a trattenersi oltre dal piangere, se fosse rimasto così vicino al piccolo in quel momento, Giovanni si alzò e rimise con cura Ludovico nella culla, salutandolo con una carezza sulla tempia.

“Vado a dire alla balia di tornare...” disse in fretta, la voce un po' incrinata, uscendo veloce dalla stanza, prima ancora che Sforzino potesse salutarlo.

 

Caterina aveva attraversato gli stretti corridoio, impregnati di umidità, che portavano alle segrete con il fiato sospeso.

Non scendeva là sotto da quando l'aveva fatto l'ultima volta, nell'ultima notte di sanguinaria follia che si era permessa, quando ancora il ricordo di Giacomo e della sua morte erano tanto scottanti e vicini da toglierle la lucidità, oltre al sonno.

Quando arrivò nella sala degli interrogatori, pretese che venissero accese più torce. Secondo il suo ordine, il prigioniero era stato fatto sedere su uno sgabello nel centro della celletta e le mani gli erano state legate dietro la schiena.

Dopo un paio di minuti che le servirono per non ripiombare nel buio che quel luogo le ricordava, la Tigre fissò l'uomo, cercando di riconoscerlo. Da com'era vestito, era chiaro che fosse di poche sostanze.

Aveva il viso trasfigurato dalla paura, il camicione da lavoro impregnato di sudore e il cavallo dei pantaloni fradicio d'urina. Un paio di lividi molto recenti sul volto completavano la perfetta immagine di un arresto complicato.

“È vero che siete in contatto con l'esule Ordelaffi?” chiese Caterina, a voce bassa.

Oltre a lei e all'imputato, erano presenti l'aguzzino, due guardie e il Capitano Mongardini.

L'uomo, abbassando il capo, cominciò a piangere.

“Risparmiatemi certe scene.” lo riprese la Leonessa, senza guardarlo, ricordandosi troppo da vicino altri interrogatori: “Rispondete e basta.”

L'uomo annuì, senza trovare la voce per parlare.

“Abbiamo trovato in casa sua delle lettere – ricordò Mongardini – e lui stesso non ha negato di essere d'appoggio a Ordelaffi.”

La Sforza annuì e poi, dopo essersi premuta un istante le dita sugli occhi, prese a fare domande serrate e precise al carcerato.

Dopo un'iniziale resistenza, l'uomo, molto meno fedele all'Ordelaffi di quanto forse l'esule credesse, iniziò a raccontare per filo e per segno ogni cosa.

“E così dovevate sollevare Forlì contro di me.” riassunse alla fine la Contessa, con un sospiro.

“Non sarebbe stato difficile...” fece il prigioniero, tra le lacrime: “Dopo quello che avete fatto alla morte di quello stalliere...”

“Bada a come parli!” urlò la Tigre, muovendo minacciosa un passo avanti.

A quel repentino scatto, l'uomo cominciò a tremare come una foglia e vomitò, per la paura.

Caterina tornò sui suoi passi, per evitare di sporcarsi, ma ormai l'interrogatorio stava prendendo una brutta piega.

La donna passò a chiedere in modo puntuale chi altri fosse coinvolto e come avrebbero nel dettaglio messo in atto il piano.

La ritrosia del prigioniero, granitica, non si smosse nemmeno quando la Contessa fece arroventare i ferri. Altri nomi non ne fece, ma, vedendosi perso, passò al contrattacco, insultandola e ricordandole il passato.

Quando l'interrogatorio giunse alla sua naturale conclusione, il carcerato era ancora vivo, seppur molto mal messo, e il vestito della Contessa era imbrattato di sangue, così come le sue mani.

“Impiccatelo stasera alle merlature della rocca, verso la città.” decise Caterina, rivolgendosi al Capitano Mongardini: “Che tutti sappiano che era un traditore.”

 

Giovanni, dopo aver trovato la balia e averla fatta tornare da Ludovico, si mise a girare per la rocca, prediligendo le zone più tranquille. Il suo passo era un po' incerto, ma quel giorno non aveva dolori.

Voleva tenersi attivo, finché poteva. Camminare era una delle attività più innocue con cui mantenersi vitale.

Passò accanto al loggiato e guardò per qualche minuto Ottaviano che si addestrava nel cortile assieme a Galeazzo e Bernardino. Dopo averlo visto battuto per la terza volta in pochi minuti, il fiorentino si trovò a pregare sommessamente, nella speranza che il suo figliastro non venisse ammazzato ancora prima di scendere in battaglia.

Era ormai vicino alla camera che divideva con la moglie, quando sentì una voce che riconobbe all'istante, benché arrivasse un po' ovattata: “Smettila! Basta! Ti ho detto di no!”

Seguendo le parole di Bianca, il Popolano arrivò fino all'ultima rampa di scale e lì, dietro al giro di pietra, vide una scena che gli diede i brividi.

La giovane Riario aveva la schiena premuta contro il muro e un ragazzo, un soldato da com'era vestito, stava cercando di forzarla. Teneva le mani sui suoi polsi, bloccandole le braccia, e per il momento non era ancora riuscito a vincere le sue difese solo perché Bianca pareva sapere il fatto suo.

“Avanti, lo sanno tutti che siete come vostra madre...” stava dicendo il giovane, senza demordere.

“Spostati immediatamente!” ordinò Giovanni, tirando fuori tutta la voce che si trovò in corpo.

Spaventato da quell'intrusione inattesa, il soldato sgranò gli occhi e, pur non lasciando la presa su Bianca, si immobilizzò.

Il fiorentino, del tutto dimentico dei suoi dolori alle mani, afferrò con rabbia il ragazzo per la collottola e lo strattonò di lato.

Questi per poco non ruzzolò dalla stretta scala a chiocciola. Si era tenuto all'ultimo minuto al corrimano, ma non ebbe la prontezza di scappare.

Giovanni non perse tempo e lo riagguantò, sfruttando la sua sorpresa, più che altro. Il soldato era molto più piazzato di lui e di certo, se non fosse stato tanto stralunato, non avrebbe avuto problemi ad avere ragione di lui.

Tra un tirone e uno scapaccione, il Medici arrivò con una certa discrezione fino allo studiolo del castellano. Consegnò il soldato a Cesare Feo, assicurandosi che il castellano lo tenesse stretto, per paura che fuggisse.

“Ho beccato questo vigliacco intento in un crimine orrendo. Ordino che venga allontanato immediatamente dalla rocca e che venga consegnato al primo contingente in partenza per il fronte, dove verrà impiegato come ricognitore.” disse Giovanni, senza nemmeno guardare l'insolente soldato che stava perdendo ogni briciolo di arroganza.

“Ma la Contessa sa che...” cominciò a dire Cesare Feo, ma l'altro lo mise subito a tacere.

“Credete a me, se la Contessa sapesse, questo imbecille non avrebbe già più la testa attaccata al collo.” fece il Medici, sicuro delle proprie parole.

Dopo essersi accertato che il castellano avrebbe agito con discrezione e accuratezza, tornò a cercare Bianca.

La trovò dove l'aveva lasciata. Era ancora spaventata e visibilmente mortificata.

Sperando di non scegliere parole sbagliate, il Medici le chiese: “L'avevi avvicinato tu o..?”

“Io...” cominciò a dire la ragazza, ma senza riuscire ad andare oltre.

“Non c'è nulla di male, nell'interessarsi ai ragazzi, per una giovane donna come te – prese a dire il Popolano, valutando con attenzione come muoversi – ma devi stare attenta. Non solo per tutta la storia di Astorre Manfredi. Chi se ne importa di Astorre Manfredi... Devi stare attenta per te stessa.”

Bianca sollevò gli occhi blu verso di lui e cercò nel suo sguardo una spiegazione più approfondita.

“In un mondo perfetto, lui non avrebbe fatto così. Ma nel mondo in cui viviamo, bisogna guardarsi da tutti.” con un respiro fondo, il Medici offrì le proprie braccia alla figliastra e la strinse a sé, sperando sia di consolarla, sia di rinfrancarla.

Non era successo nulla, ma c'era mancato poco. Bianca sapeva essere molto disinvolta, ma questo, fino a che era stata poco più che una bambina, non era stato un gran problema. Con gli anni e con la fama che Caterina si era guadagnata dopo la morte di Giacomo, la posizione della giovane Riario si era fatta molto più complicata.

“Stai attenta.” sussurrò Giovanni, sciogliendola dall'abbraccio: “Ti chiedo solo quello.”

L'accompagnò fino in camera, e quando stava per lasciarla, la ragazzina chiese: “Lo direte a mia madre?”

“Lo sa già anche troppa gente. Se vorrai, glielo dirai tu.” rispose l'uomo.

Mentre attraversava il corridoio, ripensando con una lieve vertigine a quello che era successo in quei concitati minuti, il Medici si sgranchì la mano con cui aveva afferrato il soldato. Adesso le dita gli facevano male.

 

Caterina aveva atteso di sapere morto il prigioniero, appeso per il collo a uno dei merli della rocca di Ravaldino, rivolto verso la città e verso la statua bronzea di Giacomo, prima di ritirarsi.

Aveva passato quella manciata di ore come un'anima in pena, riuscendo a sottrarsi solo all'ultimo minuto e solo per un caso, al mostro che albergava nel profondo del suo spirito e che, stuzzicato dal sangue e dalla violenza, aveva cercato di liberarsi dalle sue catene ancora una volta.

Trovò Giovanni in camera, sul letto, assorto. Non stava leggendo, né stava facendo altro. Era ancora vestito come in pieno giorno e, quando la vide entrare, fece appena un cenno col capo a mo' di saluto.

Stanca e provata per quella lunga giornata, la Tigre si sedette sul materasso, dandogli le spalle.

Il fiorentino la fissò a lungo. La sua schiena, di solito dritta e orgogliosa, era incurvata, così come le spalle. Di quando in quando tirava indietro la testa, guardando il soffitto, come se stesse pregando, o, forse, solo come se si stesse sciogliendo un po' i muscoli tesi del collo.

“L'hai ucciso?” chiese, atono, il Medici, quando si rese conto di non poterne più di quel silenzio.

“Non mi chiedi nemmeno se era colpevole?” domandò di rimando Caterina, senza voltarsi.

“Se fosse stato innocente, non saresti tornata tanto tardi.” fece notare l'uomo, con una vena di scontrosità.

La Tigre fece un suono gutturale e poi spiegò: “L'ho interrogato. Ha confessato. L'ho fatto impiccare. Il suo cadavere adesso è appeso a una delle merlature.”

“L'hai torturato?” la voce del Popolano s'era fatta incerta, come se in realtà non volesse sentire la risposta.

“Sì.” disse semplicemente la moglie.

Giovanni sentì la bocca seccarsi e poi, alzandosi di scatto dal letto, provò a dire: “Avanti, si è fatto tardi... Faremmo meglio a cambiarci per notte e metterci a dormire, perché domani dobb...”

Le parole gli si spensero sulle labbra quando l'occhio gli cadde sulle mani della moglie.

Le teneva strette l'una all'altra, in grembo. Erano lorde di sangue. Sangue ormai secco, ma di certo versato non da molto. Sangue di uomo già morto. Sangue di un uomo che penzolava senza vita oltre le mura della rocca.

La Contessa seguì lo sguardo del marito e capì che cosa lo avesse tanto sconvolto. Non si era ricordata di lavarsi. La sua mente era stata tanto assorbita dai fantasmi del passato e da quelli del futuro, da renderla completamente dimentica del presente.

“Hai ragione...” soffiò: “Vado a prendere dell'acqua per... Anzi, mi lavo nella mia camera. Torno quando..?”

Il tono vagamente interrogativo con cui aveva lasciato cadere la frase venne ignorato da Giovanni che, come se lei non avesse parlato, si stava già cambiando per la notte.

La Leonessa si fece portare nella sua vecchia camera una catinella piena di acqua calda e si lavò con cura le mani. Ci volle parecchio, per scrostare il sangue in modo decente. Si cambiò d'abito e poi restò immobile in mezzo alla stanza a lungo.

Alla fine, pronta anche a sentirsi rifiutata, tornò nella camera che condivideva con il marito.

Il Medici era già steso a letto. Non si oppose, quando la sentì coricarsi accanto a lui. Caterina sentiva il cuore fremere, davanti a quella freddezza. Era già tanto, pensò, che lui non le avesse chiesto di stare nell'altra camera, quella notte, tuttavia...

“Non condivido quello che hai fatto.” disse lui, nel buio della camera: “Sono metodi che trovo eccessivi.”

“Ma se l'avessi lasciato in vita, lui avrebb...” prese a difendersi la donna.

“Io non riuscirei a fare come fai tu e mi dà i brividi, pensare a quello che riesci a fare.” la interruppe lui, alzando la voce e imponendosi come raramente faceva: “Però...”

La Sforza, che era sul fianco, in imitazione alla posa presa dal marito, lo sentì muoversi un po' accanto a lei e poi avvertì la sua mano poggiarlesi sul fianco e le sue labbra cercare il suo collo.

“Però io, malgrado tutto, non ce la faccio, a starti lontano.” le sussurrò all'orecchio, avvicinandosi ancora di più: “Una volta mi avevi chiesto se avevo paura di te e io ti ho detto di no...”

Il ricordo di quella lontanissima conversazione fece stringere lo stomaco alla Tigre. Quando ancora non erano marito e moglie e ancora non si conoscevano...

“Adesso io ti risponderei di sì.” confessò Giovanni, mentre le sollevava lentamente il bordo della sottoveste, facendolo scivolare poco per volta sulla coscia, fino al bacino: “Ma è quando si ha paura, che bisogna farsi coraggiosi...”

Non riuscendo a trattenere un sorriso di sollievo e trionfo, la Tigre si offrì volentieri al marito che la voleva e, per una volta, fu lui quello che spense la propria sete con aggressività, lasciando che fosse lei a sciogliersi in gesti dolci e accomodanti, del tutto in antitesi con quello che aveva dimostrato di saper fare nelle segrete solo poche ore prima.

 

 

 

 

 
   
 
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