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Autore: Luxanne A Blackheart    03/04/2018    1 recensioni
Un grosso edificio è stato costruito nel centro di una grande città americana. Impiegati in smoking e tailleur vi lavorano, circondati dal lusso e da vetrate nere sempre pulite e immacolate.
Nessuno sa che cosa ci sia al suo interno, oltre ad una piccola casa editrice che accetta i vari talenti provenienti da tutto il paese.
Ophelia Adams scrive da tutta la vita e si ritroverà catapultata, per ordine della madre, in una situazione più grande di lei, piena di effetti collaterali.
Uno di questi sarà proprio Jacob Robertson, tra gli editori che lavorano nell'edificio Senza Nome, un uomo bellissimo quanto misterioso.
I suoi occhi azzurri celano una verità importante, che Ophelia dovrà comprendere poco alla volta...
Riuscirà a capire cosa succede nelle ore più buie della notte, nei silenziosi e inquietanti sotterranei dell'edificio?
Riuscirà a capire le sfumature dei begl'occhi di Jacob?
Genere: Comico, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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"Capitano a volte incontri con  persone a noi assolutamente estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo, all'improvviso, in maniera inaspettata, prima che una sola parola venga pronunciata." 






Salve a tutti e benvenuti in questa nuovissima avventura!
Devo dire che questo è un esperimento per me, poiché i romanzi rosa non sono proprio nel mio genere; di solito tratto temi amorosi ma in altre epoche storiche e non così moderne.
L'idea per questa storia mi è nata dopo aver fatto un brutto sogno e ho voluto crearlo in qualcosa.
Preparatevi quindi, perché Jacob e Ophelia ne combineranno delle belle!
Luxanne.










Prologo.




La sala d'attesa era angusta, lo stile spartano: poche sedie verde smeraldo, qualche vecchia rivista dell'Entertaiment Weekly, risalenti a qualche anno prima.


Mia madre, Stephany Adams, le sfogliava in modo annoiato, borbottando su qualche rivelazione sconveniente fatta da questo attore o quell'attrice, mentre io giocherellavo sul mio cellulare, osservando le varie stories su Instagram.


Persone che conoscevo immortalavano la loro vita divertente, fata di ubriacature e uscite, mentre io il massimo di divertimento che conoscevo era passare le serate, parcheggiata davanti la TV a guardarmi una serie malinconica, pesante o che trattava temi poco digeribili, mentre mi spaccavo di schifezze, quali cioccolata, bibite gassate che mi consentivano di ruttare rumorosamente per minuti interi e osservare la faccia schifata della mia coinquilina.


Mia madre era l'unico familiare con il quale avessi a che fare e quando aveva scoperto la mia fantasmagorica ossessione per la scrittura, mi aveva sequestrato il computer per una settimana, nella quale aveva passato a leggere tutte le schifezze che avevo scritto dall'età di dodici anni, partite come fanfiction su Justin Timberlake e successivamente su Kurt Cobain (perché tutte una volta nella vita hanno avuto una cotta/ossessione su questi due) e poi evolute in qualcosa di più serio.


Era diventata, nel giro di una settimana, la mia fan numero uno e così aveva deciso di mandare il mio lavoro migliore, quello a cui stavo lavorando da circa due anni, ad una casa editrice e incredibilmente mi avevano fissato un colloquio.


Adesso mi ritrovavo in quel palazzo, il Senza Nome, in uno degli innumerevoli piani, ad aspettare di essere ricevuta.


«Non è possibile far aspettare così a lungo, andrò sicuramente a lamentarmi con la direzione! Abbiamo anche altro da fare e non staremo al loro servizio tutto il giorno.»


Mia madre non era una cattiva persona; aveva avuto un passato difficile, una di quelle donne che, a causa di una gravidanza improvvisa, si sposò giovane per non abortire e mettere su famiglia velocemente. Subito dopo il liceo, ero arrivata io, Ophelia Adams, prima di tre figli e l'avevo incatenata ad una vita non sempre infelice, fatta di sacrifici e tanto duro lavoro.


Le ero riconoscente per il lavoro fatto su di me, per essere sempre stata presente, alle volte più del dovuto, perché nonostante tutto ero venuta su bene. L'amavo, dopotutto era mia madre, ma molto spesso non sapeva quando stare zitta, proprio come in questo caso.


La segretaria entrò all'improvviso nella sala d'attesa, che stava cominciando a darmi sui nervi. I colori troppo accesi mi davano fastidio, ero una creatura delle tenebre io.


«I signori Robertson e Cole sono pronti a ricevervi.», era una bella donna, giovane, dai lunghi capelli rossi tenuti in alto da una coda tirata e con poco trucco in viso. La osservai, provando un moto di gelosia. Certe persone nascevano fortunate; la natura sapeva dare più del dovuto.


«Dio sia lodato!»


Alzai gli occhi al cielo all'esclamazione di mia madre e la seguì in quello che doveva essere lo studio dei due miei, speravo, futuri editori.


Rimasi piacevolmente sorpresa nel notare il repentino cambio di ambiente. Se prima mi trovavo in una classe d'asilo per i colori sgargianti, adesso ero in un enorme studio professionale, nei quali predominavano il grigio, il nero e l'odore di carta.


Infatti la prima cosa che notai furono i grandi scaffali in mogano che contenevano centinaia di libri, dai grandi classici a quelli contemporanei, tutti in fila per colore e importanza. I muri bianchi, erano pieni di citazioni dei più grandi poeti e scrittori che abbiano mai messo piede sulla terra, come Oscar Wilde, Rimbaud, Baudelaire, Verlaine, Dante...


Mi sentii immediatamente a casa e all'improvviso quella giornata, ai miei occhi inutile e imbarazzante, era diventata interessante.


Le finestre erano enormi, gigantesche e davano sulla strada, dalla quale i passanti, in smoking e tailleur correvano per cercare di fermare un taxi, auricolari alle orecchie e occhiaie da stress.
Su una enorme scrivania, colma anch'essa di libri e malloppi di fogli, sedevano due uomini in giacca e cravatta nera.


«Buongiorno, signora e signorina Adams e benvenute.», a parlare fu quello seduto alla mia destra con voce cordiale.


«Io mi chiamo William Cole e spero di diventare il suo editor in futuro, signorina Adams.», aggiunse, guardandomi negli occhi. Era un uomo affascinante, dai capelli castani e il naso spruzzato di lentiggini chiare, due occhi verdi come il prato di primavera e labbra sottili.


«Piacere, ma può chiamarmi Ophelia se preferisce.», dissi con un sorriso forzato, stringendogli la mano. Aveva una presa forte, sintomo di sicurezza.


«Bene, se abbiamo finito con le presentazioni, possiamo procedere per parlare di lavoro, voi che dite?», a intervenire fu il suo socio, il signor Robertson, che aveva tenuto lo sguardo abbassato su una pila di fogli, che ricontrollava con la penna rossa. Erano più i segni che vi lasciava, che le parole scritte in nero.


«Io sono Jacob Robertson, da quello che ben sapete.», alzò lo sguardo per guardarci e per poco non sussultai. I suoi occhi, di un azzurro ghiaccio mai visti, mi guardavano con superiorità, come se io fossi una delle innumerevoli formiche che calpestava sul suolo.


Era di una bellezza disarmante: capelli neri, come la pece, come il cielo notturno senza stelle, tirati indietro ordinatamente dalla gelatina, occhi azzurri, freddi e calcolatori come il ghiaccio, che contrastavano con le sopracciglia e capelli scuri, labbra spesse e morbide, circondate da una leggera barbetta.


«Abbiamo letto il piccolo estratto e la trama dello scritto che ci ha mandato sua madre, signorina Adams.», proseguì, puntandomi quelle iridi addosso. Non mi intimoriva, poche cose ci riuscivano, ma non potevo rispondere a tono, poiché mia madre era presente e anche perché quello sarebbe diventato un ipotetico datore di lavoro. «Non è nulla di interessante, a mio avviso, ma al mio collega è piaciuto. Devo ammettere che lei abbia un modo particolare di scrittura, ecco che cosa mi ha convinto a perdere il mio tempo questa mattina.»


«Be', grazie?», domandai, non sapendo se fosse un insulto o un complimento. In realtà stava cominciando a darmi particolarmente sui nervi.


«Ciò che il mio collega dai modi bruschi stava cercando di dirvi era che saremmo interessati a lei, Ophelia, ma dovrebbe portarci qualcos'altro da lei scritto per valutare quale delle opzioni sia migliore per lanciarla in questo grande e grosso mare. Ha uno stile veramente particolare, come pochi, e la capacità di incatenare il lettore alle pagine del racconto, quindi penso – pensiamo – sia un peccato lasciare questo talento incolto. È giusto dare una possibilità a tutti.», s'intromise William Cole, sorridendomi dolcemente.


Annuii, ringraziandolo con un sorriso. Avevo una trentina di idee per nuovi scritti da sviluppare, me ne nascevano di continuo, quindi avrei solamente avuto l'imbarazzo della scelta.


Mia madre, stranamente, se ne stava in silenzio senza mai intervenire. Questa cosa l'apprezzai sinceramente.


«Quindi, dovrei portarvi altri miei scritti?»


«Sì, signorina Adams. La nostra segretaria le lascerà una data di incontro. Nel frattempo ci mandi per email quello che vuole, il mio collega si occuperà di lei. Arrivederci.»


Riabbassò lo sguardo e continuò a martoriare quei poveri fogli, imbrattandoli di rosso. Io strinsi i pugni, alzando un sopracciglio, pronta a rispondere, ma William Cole mi interruppe. «Prego, vi accompagno.»


Si alzò, abbottonandosi la giacca nera di ottima sartoria che indossava e ci fece strada; né io né mia madre salutammo il signor-palo-in-culo.


«Dobbiate scusarlo, è molto preso dal lavoro.», il signor Cole era veramente imbarazzato per il comportamento del suo collega.


«Non si preoccupi, signor Cole, grazie per la sua disponibilità. Al più presto le manderò il richiesto per posta elettronica. Arrivederci.»


«Arrivederci.»


Ci strinse la mano con un cordiale saluto e uscimmo da quel luogo, trovando già la segretaria ad aspettarci con la prossima data di incontro e la posta elettronica alla quale inviare il mio scritto.


«Nonostante l'antipatia del signor Robertson, sono felice che loro siano interessati nel tuo lavoro. Mi rendi immensamente felice, Ophelia, sappilo.», mia madre parve commuoversi. I suoi occhi color nocciola, proprio come i miei, si inumidirono e mi abbracciò per nascondere il tutto.


La strinsi a me, dopotutto era stato tutto merito suo.


«Grazie mamma, ma non è ancora detta l'ultima parola. E poi devo ancora trovarmi un lavoro, non si campa di arte purtroppo.»


Pensandoci, fu proprio quel colloquio che scatenò una delle più grandi catastrofi che mi siano mai capitate.
Un solo sguardo può travolgere la tua intera esistenza, se veramente lo desidera e per me così è stato.
Ma questo è solo l'inizio di tutto.

 
   
 
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