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Autore: Adeia Di Elferas    04/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina era seduta in una delle poltrone della sala delle letture, l'unghia del pollice tra i denti e lo sguardo fisso verso la finestra.

Le dita dell'altra mano battevano ritmiche contro il bracciolo imbottito, fermandosi solo di quando in quando, di pari passo con l'interruzione repentina del filo logico che la Tigre stava cercando di seguire.

Aveva scritto a Fracassa, per la seconda volta, ma la risposta non le era piaciuta. Anche se con suo zio non aveva trovato campo d'intendimento comune, aveva sperato che almeno con Gaspare Sanseverino ci sarebbe riuscita. In fondo parlavano la stessa lingua. Fracassa la rispettava, ritenendola alla pari di un commilitone e altrettanto faceva la Sforza con lui.

Il condottiero le aveva detto di essere diretto in Toscana con cinquecento cavalli. Caterina gli aveva domandato di potersi coordinare, una volta che Ottaviano fosse giunto in quel di Pisa.

La risposta dell'uomo del Duca era stata tanto evasiva e vaga da far capire alla Leonessa che non sarebbe mai riuscita a farlo accettare.

“Ti ho trovata, finalmente...” fece Giovanni, con un mezzo sbuffo, aprendo la porta senza bussare.

La donna sollevò gli occhi sul marito e lo guardò interrogativa. Il Medici aveva i riccioli un po' spettinati, portava solo il camicione da lavoro e le brache di cuoio, quelle spesse, ormai scelte più per celare un po' la strana postura delle sue gambe che non per proteggersi dal freddo.

Alle mani, Caterina lo notò con un piccolo dolore, portava i guanti che gli aveva fatto Bianca. Era chiaro che li avesse indossati solo per non mettere troppo in mostra le mani, di cui cominciava a vergognarsi.

Quella mattina aveva incontrato alcuni mercanti, per contrattare delle compravendite di cibo da mettere nelle scorte del castello, e così doveva aver indossato i guanti in vista di quell'appuntamento, per poi dimenticarsi o evitare di toglierli benché fosse già pomeriggio e facesse un gran caldo.

“Perché mi cercavi?” chiese la Contessa, raddrizzandosi un po' contro lo schienale.

Il Medici si morse le labbra carnose e poi, dopo aver fatto vagare per qualche istante le iridi chiarissime sulla figura della moglie – la cui bellezza prorompente non smetteva mai di stupire e attrarre il fiorentino – soffiò: “Il cadavere appeso alla merlatura... Per favore, fallo togliere da lì. È stato esposto abbastanza, non credi?”

Il viso di Caterina si contrasse in un'espressione fredda: “Perché vuoi che lo tolga?”

Giovanni non avrebbe voluto spifferare il vero motivo che lo aveva portato a cercare la moglie per farle una simile richiesta, tuttavia pensò che sarebbe stata la via più rapida e indolore: “Bernardino ne è terrorizzato.”

Sorpresa da una simile affermazione, la Sforza si alzò e si avvicinò al marito: “Bernardino ne è terrorizzato?” chiese, come a domandare se avesse capito bene.

“L'ho trovato che piangeva in un angolo della dispensa, quando sono tornato alla rocca e...” il Popolano alzò le spalle e allargò un po' le braccia: “Mi ha detto che era fuori a giocare con dei suoi amici. Tornando, ha guardato la statua di suo padre e l'occhio si è spinto oltre e ha visto quel corpo appeso alle merlature...”

La Leonessa incrinò le labbra, pensando che in effetti doveva essere una brutta vista, specie per un bambino come Bernardino.

“E mi ha detto – aggiunse Giovanni, senza riuscire a trattenersi – che i bambini che erano con lui gli hanno detto che sei stata tu a ridurre quel poveraccio così. Ed è allora che s'è spaventato davvero.”

Caterina deglutì ripensando al viso sfatto e agli arti spezzati e disarticolati dell'uomo che aveva fatto impiccare alla merlature e così trovò appena la voce per dire: “Lo toglierò di lì appena farà buio.”

“E parlerai anche con Bernardino?” fece il Medici, sperando di riuscire a convincerla.

La donna gli passò una mano tra i riccioli, togliendone qualcuno dalla fronte, e disse, senza rispondere: “Sono più lunghi del solito... Non te li fai sistemare?”

Il fiorentino fece un sospiro un po' contrariato per quel cambio di argomento, ma poi l'assecondò, sperando che avesse deciso di dargli ugualmente ascolto: “Pensavo di passare dal Novacula domani...”

 

Lorenzo appoggiò la penna alla scrivania, avendo cura che la punta ancora bagnata non macchiasse la stoffa preziosa che sua moglie aveva insistito di usare come poggiacarte.

La studiolo che il Popolano si era ricavato vicino alla propria camera da letto era caldo e dall'aria un po' chiusa. Giugno si stava mostrando un mese intollerante e difficile da ammaestrare e anche se Firenze, rispetto ad altre zone d'Italia, godeva comunque di un clima discreto, il Medici era certo che quel caldo e quella siccità avrebbero presto portato problemi anche a loro.

Di certo l'arrivo della bella stagione stava muovendo la guerra. Come una macchina spietata, l'attività bellica cominciava a macinare carne e presto anche Firenze avrebbe avuto i suoi lutti.

In quei giorni si stava combattendo a Pisa. Nulla di serio, almeno così riportavano le staffette che arrivavano dal fronte, ma secondo Lorenzo presto sarebbe iniziata la vera guerra.

Se non altro, pensava, perchè finalmente anche Milano era scesa in campo.

Giovanni, in una delle ultime lettere indirizzate a Semiramide – perché ormai non scriveva quasi più direttamente al fratello – aveva lasciato intendere che la Tigre di Forlì non avesse molta parte nelle decisioni del Moro.

Fatto restava che, tramite Gaspare Sanseverino, il tracotante Fracassa conosciuto in tutta Italia, era arrivato in Toscana alla testa di una nutrita schiera di soldati milanesi per affiancare i fiorentini contro i veneziani.

Dunque, benché fosse probabile l'assenza di un accordo chiaro tra la Leonessa di Romagna e il Duca di Milano, di certo si erano momentaneamente schierati dalla medesima parte. Questo, per Firenze, rappresentava un vantaggio nell'immediato, ma forse, più avanti e a guerra conclusa, avrebbe portato la Signoria a sentire il giogo degli Sforza al collo.

Lorenzo non si fidava degli Sforza. Non se ne era mai fidato. Sapeva che il vecchio Duca di Milano, Galeazzo Maria, il padre della Tigre, aveva avuto contatti molto assidui, a suo tempo, con il Magnifico. Avevano cercato accordi e stretto alleanze che poi il milanese per primo aveva dimenticato.

Il fatto stesso, comunque, che fosse stato in combutta con suo cugino, per il Popolano bastava a etichettarlo in un certo modo.

Adesso che Giovanni si era dissennatamente legato a una donna della medesima famiglia, poi, tutto si complicava terribilmente nella testa del Medici.

“Posso..?” la voce di Semiramide arrivò ovattata dalla porta.

Lorenzo sollevò appena lo sguardo dal foglio su cui aveva appena finito di scrivere una lettera, breve e concisa, per uno dei suoi amministratori.

Quando aveva capito, poco dopo la morte di Savonarola, che era il momento di cominciare a imporsi davvero sulla Signoria, il Medici aveva chiesto alla moglie di raggiungerlo di nuovo in città.

Malgrado tutto, il suo appoggio gli serviva e averla lontana lo faceva solo stare peggio. Portare anche i loro figli a Firenze costituita un rischio, Lorenzo se ne rendeva ben conto, ma anche di loro aveva bisogno.

“Stavo scrivendo agli amministratori, che stiano attenti a farsi scappare tutti i braccianti delle vigne...” spiegò l'uomo, soffiando un po' sulla lettera e iniziando a chiuderla con cura: “Ho capito che c'è la guerra, ma se restiamo senza forza lavoro...”

Semiramide era arrivata alla scrivania e, appoggiata una mano sul ripiano di legno, con l'altra sfiorò la guancia del marito. Era incavata, secca, solcata da una profonda ruga. Era molto diversa dalla guancia piena e spesso colorita che aveva contraddistinto il volto paffuto di Lorenzo quando era più giovane.

L'Appiani, con una spina nel cuore, si disse che avrebbe preferito mille volte riavere il Lorenzo dei primi anni, anche a costo di rinunciare al palazzo in cui abitavano, a tutti i loro soldi e anche al prestigio che stavano con fatica recuperando.

“Adesso basta lavorare.” gli sussurrò: “Ormai è sera. Vieni a mangiare qualcosa. Anche Pierfrancesco vuole stare un po' con te...”

Nel sentir citare il figlio maschio maggiore, quello che un giorno avrebbe preso il suo posto per lo meno negli affari, il Medici si sentì sul punto di cedere.

Da quando la moglie era tornata a Firenze, non aveva cenato o pranzato con lei quasi mai, più che altro per evitare i pesanti silenzi che si creavano tra loro. L'argomento che li divideva, alla fine, era sempre lo stesso: la Sforza di Forlì.

E, dopo lei, arrivava il figlio che Giovanni aveva avuto da lei. Lorenzo, ostinatamente e forse in modo un po' infantile, voleva rifiutarsi di credere che quel bambino, chiamato come il Duca di Milano, fosse davvero suo nipote.

Anche se Semiramide credeva ciecamente alle parole di Giovanni, che pareva non avere dubbio alcuno né sulla paternità del piccolo, tantomeno sulla fedeltà coniugale della Tigre, il Popolano maggiore non riusciva a digerire il fatto di essere diventato zio e di non aver nemmeno potuto vedere una volta il nipote.

Anche se in parte si era convinto che suo fratello sarebbe rimasto celibe a vita, a volte se l'era figurato con una famiglia sua. Anche se non era più giovanissimo, non era nemmeno vecchio e quindi era possibile che alla fine si sarebbe sposato. Lorenzo, però, se l'era figurato accasato con qualche figlia di qualche fiorentino in vista. Una volta ripreso il potere, Giovanni avrebbe solo dovuto scegliere. Tutti, a Firenze, avrebbero voluto un genero e un cognato come lui: ricco, intelligente e anche bello.

E invece lui si era andato a imbrogliare con una donna rimasta vedova due volte – ed entrambe le volte in circostanze poco chiare e violente – nota in tutta Italia per essere una spietata assassina e amante della compagnia maschile, nonché gran bestemmiatrice e irriverente verso Dio e la morale.

“Vuole parlarti di quello che ha fatto oggi con il suo precettore...” lo invogliò Semiramide, avvicinandosi ancora un po' di più, fino a vincerne in parte la riluttanza e riuscire a sedersi sulle sue gambe, un braccio attorno alla schiena e una mano ancora sulla sua guancia scavata: “Ha tredici anni... Lo sai che è un'età difficile. Pende dalle tue labbra e ha un disperato bisogno di averti vicino.”

Lorenzo guardava negli occhi la moglie. La sicurezza e la fermezza che illuminavano le sue iridi erano come acqua fresca, per lui. Non se la ricordava tanto bella.

Il peso del suo corpo sulle ginocchia gli faceva ricordare che quella che ora stringeva tra le braccia era una donna vera, non solo la madre dei suoi figli o l'abile amministratrice di parte dei loro beni.

Da troppo tempo la rifuggiva e la rifiutava. Non sapeva nemmeno più lui perché. Era stato per via della testa troppo ingombra, forse, oppure per la paura di essere talmente altrove da non sentirla davvero vicina.

“Hai ragione...” sussurrò Lorenzo, lo sguardo cupo che per un istante tornava quello malinconico di un tempo: “Tredici anni non è un'età facile.”

Semiramide sapeva bene che per il marito quello era un nervo scoperto. A tredici anni aveva perso il padre, l'unico appiglio stabile che era rimasto nella sua vita.

Morto lui, il Magnifico e Giuliano avevano preso Lorenzo e Giovanni sotto la loro ala, ingannando in parte la loro nonna, e così i due figli di Pierfrancesco Medici si erano trovati soli e in un mondo che conoscevano poco. Lorenzo, essendo il maggiore, seppur solo di quattro anni, da quel momento era diventato come un padre per il fratello e si era precluso ogni spiraglio di leggerezza o giovinezza.

A tredici anni, il Popolano maggiore era diventato un uomo.

“Vieni a tavola, dai...” ribadì la donna.

Lorenzo annuì e, lasciandola con riluttanza, le permise di alzarsi e la seguì fino nella sala da pranzo.

Per tutta la cena l'uomo ascoltò con attenzione le parole del figlio anche se, più Pierfrancesco parlava e si esaltava nell'enumerare tutte le nozioni teoriche di commercio e contabilità che aveva imparato, più Lorenzo si distraeva, guardando di continuo la moglie.

Semiramide quella sera si era vestita meglio del solito. Aveva i capelli acconciati in modo particolare. Era come se essere tornata in città le avesse tolto uno strato rustico che, con gli anni passati a Cafaggiolo, pareva essersi connaturato con lei.

Quando finalmente arrivarono all'ultima portata e si separarono dal figlio maggiore per andarsi a ritirare, il Medici seguì la moglie fin davanti alla sua stanza e, quasi temendo di essere respinto, le chiese, con un filo di voce: “Posso restare con te, stanotte?”

Le labbra armoniose della donna si aprirono subito in un sorriso, mentre gli occhi le si riaccendevano. Gli gettò le braccia al collo e lo baciò, dapprima con dolcezza e poi con un entusiasmo molto più marcato.

Lo slancio che si era data era stato tale che, per poco, il Popolano non aveva perso la presa sulla candela che portava alta per illuminare a entrambi la via.

“Non vedevo l'ora che me lo chiedessi...” gli bisbigliò all'orecchio e poi, intrecciando le dita a quelle tozze e forti del marito, lo condusse nella sua stanza, sperando che quello fosse solo la prima di una serie di notti positive.

Dio solo sapeva quanto le era mancato suo marito e, anche se ci fosse voluto tempo per riavere l'uomo che aveva conosciuto quando si erano sposati, l'Appiani avrebbe fatto del suo meglio per recuperarlo e far cadere quella maschera di vetro che Lorenzo sembrava aver indossato dal giorno in cui suo fratello era partito da Firenze.

 

“Avanti! Al tre! Uno, due...” stava dicendo Caterina, afferrando lei stessa la corda a cui era stato appeso il corpo del traditore: “Tre!”

Con uno strappo improvviso, la Contessa e gli uomini che la stavano aiutando – tra cui c'era il Capitano Mongardini – riuscirono a tirar su il cadavere, fino a issarlo oltre il bordo della merlatura.

Il morto ricadde con un suono sordo e un po' viscido ai loro piedi, e il tanfo che già si sprigionava dalle carni imputridite in fretta per colpa del caldo e dei parassiti fece storcere il naso a molti.

L'aria su Forlì era tranquilla. Dalla città arrivavano gli ultimi suoni del giorno e le luci nelle case cominciavano a punteggiare l'orizzonte di piccole macchie chiare.

La Tigre aveva aspettato che fosse sera per evitare spettacolo. Sapeva che anche un'azione come quella poteva attirare decine e decine di curiosi e lei preferiva chiudere quello spiacevole capitolo in fretta e senza troppa pubblicità.

Con un respiro pesante, la donna guardò un momento il cadavere. Rivedere le ferite che lo aveva sfigurato gli fece torcere lo stomaco. Non tanto per la bruttura della visione, quanto per il ricordo che suscitavano. Indugiò un istante di più su una delle due arcate sopraccigliari, il cui osso s'era quasi del tutto sfatto.

La pelle e la carne sottostante erano state mangiucchiate da qualche uccello o da un ratto, di sicuro, ma la violenza del colpo con cui lei stessa aveva rotto quell'osso la sentiva ancora nelle mani.

Chiuse gli occhi, con forza, avvertendo una nausea terribile risalirle fino alla gola, ma quando sentì la voce di Mongardini chiamarla, ricacciò tutto in fondo all'anima e lo guardò: “Ditemi.”

“Che ne facciamo adesso di questa feccia?” chiese il Capitano, dando un calcetto al corpo senza vita del traditore: “Lo gettiamo in una delle vecchie fosse comuni? Una di quelle che usiamo nelle epidemie..?”

La Tigre trattenne un momento il fiato, ricordando come probabilmente anche suo figlio Livio era in una di quelle fosse senza nome. Non aveva mai voluto sapere in quale di preciso.

“No... No...” fece, scuotendo il capo: “Datelo ai Battuti Neri. Sapranno loro che farne. Ma dite loro in modo chiaro che va sepolto lontano da qui.”

Mongardini annuì e, mentre la Contessa si allontanava a passo svelto, iniziò a vociare con gli altri soldati, spiegando che qualcuno doveva andare a chiamare i Battuti Neri, affinché facessero quello che erano chiamati a fare per vocazione: occuparsi della sepoltura degli stranieri e dei delinquenti di cui nessuno reclamava il corpo.

 

Giovanni stava aspettando ad andare a mangiare. Aveva saputo che sua moglie e alcuni dei suoi uomini erano sui camminamenti a occuparsi del cadavere del traditore, dunque era probabile che Caterina non sarebbe andate a cenare per un bel po'.

Ormai la conosceva troppo bene per sapere che dopo quell'incombenza, a cui aveva voluto provvedere di persona, non sarebbe stata dell'umore giusto per andare a mangiare subito.

In più, in cuor suo, il Medici si augurava che la Tigre fosse pronta a ritrarre gli artigli almeno per qualche istante e andare da Bernardino per dirgli qualcosa o almeno provare a rasserenarlo un po'.

Così, per perdere tempo, il fiorentino si era messo a vagare ed era arrivato alla sala delle armi. Il maestro d'armi non c'era, ne era sicuro perché l'aveva visto poco prima andare verso i baraccamenti.

Tuttavia, quando si avvicinò all'ingresso, si rese subito conto di non essere solo. Appena qualche fruscio e ogni tanto un respiro più rumoroso del solito denunciavano la presenza di qualcuno nella sala delle armi.

Con discrezione, il Popolano guardò oltre l'uscio e intravide la figura inconfondibile di Ottaviano.

Teneva in mano una spada e cercava di mulinarla in aria con gesti fluidi, ma era evidente la sua difficoltà.

Giovanni rimase a fissarlo per qualche minuto, fino a che il figlio della Contessa non avvertì la sua presenza. Si voltò di scatto verso di lui, nella penombra della sala, e smise all'istante di agitare la spada.

I due si guardarono per un lungo istante e poi, con un rossore fastidioso che gli saliva su per il collo, Ottaviano gli voltò di nuovo le spalle, ostinato, e riprese i suoi esercizi.

Il Medici non praticava le armi da tempo. L'ultima volta che aveva davvero provato a duellare era stato con Caterina, più o meno un anno addietro. Tuttavia si sentì in dovere di non tirarsi indietro.

Masticando un po' l'aria, prima di trovare le parole, si mosse verso il giovane Riario e gli propose, sperando di non sentirsi rispondere male: “Se posso... Con la spada non me la cavavo troppo male, alla vostra età...”

L'altro evitò il suo sguardo per un po', ma quando il fiorentino si dichiarò disposto ad aiutarlo, se lui era disposto ad accettare l'aiuto, Ottaviano fece un cenno secco con il capo e concesse: “Se potrà evitarmi di essere sgozzato in battaglia, accetto volentieri anche il vostro aiuto.”

Giovanni non sottilizzò troppo sulla scelta del termini fatta dal giovane e, felice di poter fare la sua parte, con pazienza e calma iniziò a dargli qualche consiglio, sperando che almeno un paio restassero nella testa coperta di riccioli inanellati del figlio di Girolamo Riario.

“E quei capelli...” fece a un certo punto il Popolano, concentrandosi proprio sull'acconciatura mondana del giovane: “Dovreste tagliarli. I capelli lunghi sono solo un comodo rifugio per i pidocchi e un più facile appiglio per i nemici.”

 

Caterina non aveva dimenticato la richiesta del marito. Appena lasciati i camminamenti aveva subito deciso di disertare la sala dei banchetti per cercare Bernardino.

L'aveva trovato da solo, nella stanza dei giochi, imbronciato e pensieroso. Non era comune, trovarlo tanto concentrato su se stesso.

Senza dire nulla, la Contessa si accovacciò accanto a lui che, seduto per terra, giocherellava distratto con un soldatino di legno. Allungò una mano per accarezzargli la fronte e i capelli – della stessa tonalità di castano di quelli di Giacomo e con le stesse dolci onde – ma il bambino si ritrasse con decisione.

Abbattuta, la donna si sistemò meglio accanto a lui e, cercando di intercettarne la mano mentre faceva muovere il figurino di legno, gli sussurrò: “Ho dovuto farlo. Quell'uomo era un traditore.”

Bernardino restava in silenzio, senza guardarla, ma se non altro aveva accettato il suo tocco sulle dita.

“Avere potere, essere alla guida di uno Stato, comporta anche questo.” continuò la Contessa, a voce molto bassa: “La giustizia va amministrata in modo deciso, altrimenti si rischia di essere rovesciati o uccisi.”

“Com'è successo a mio padre?” chiese il bambino, la voce un po' arrochita dal lungo silenzio e gli occhi che si inumidivano.

“No, tuo padre è stato ucciso perché...” iniziò a rispondere Caterina, senza ragionare.

Quando si accorse che i grandi occhi del figlio la stavano fissando, in attesa e confusi, come erano stati tante volte quelli di Giacomo, la donna non resistette più.

Per non vederlo, tirò a sé il figlio, premendogli il viso contro la propria spalla e, a fatica, gli confessò: “Tuo padre è stato ucciso solo perché mi amava. L'hanno ucciso solo per fare del male a me.”

Bernardino, che non capiva appena il senso di quelle parole, chiese: “Allora uccideranno anche me?”

“No.” assicurò subito Caterina: “Non lo permetterei mai.”

“Ma avete permesso che uccidessero mio padre...” sussurrò il piccolo, confuso.

“Perché non avevo capito che correva un pericolo così grande.” spiegò la Contessa, addolorata nel non poter dire altro: “Fosse adesso, forse capirei prima.”

“Ma è vero che sono stati i miei fratelli a ucciderlo?” domandò il bambino, staccandosi con forza da lei per poterla vedere in viso.

“Chi te l'ha detto?” ribatté la Tigre, seria.

“Me l'hanno detto in tanti...” ammise Bernardino, tirando su col naso: “Dicono che sono stati Ottaviano e Cesare... Io non ci credo, ma...”

“Non devi pensarci.” lo zittì la Contessa, tornando ad abbracciarlo con forza, baciandogli la testa e tenendolo a sé come se avesse paura di vederlo scappare: “L'unico modo per non impazzire è non pensarci. Provare a non pensarci...”

Caterina rimase così ancora un po' con il figlio tra le braccia e poi, quando lei per prima non riuscì più a tollerare la vicinanza del frutto dell'amore per Giacomo, che l'aveva consumata tanto da farla davvero impazzire di dolore, quando lui era morto, si rialzò e lo salutò dicendo solo: “Vai a mangiare qualcosa. Sei pallido... Devi tenerti in forze, se vuoi diventare anche tu un bravo soldato come tuo fratello Galeazzo.”

“E come mio padre?” chiese il bambino, in cerca di conferma.

La Contessa fece un sorriso triste, ma non gli rispose, uscendo dalla stanza ancora più mesta di quando non fosse quando ne era entrata.

Rimasto solo, il piccolo riprese in mano il suo giocattolo e lo guardò a lungo, pensoso. Non era solo triste. Dentro di lui c'era un sentimento strano che non sapeva come chiamare. Si sentiva irrequieto ed era come se qualcosa stesse bollendo dentro di lui.

Non ne era certo, ma forse era quella, la rabbia di cui sentiva spesso parlare suo fratello Galeazzo, quando capitava di discutere della loro madre.

“È qualcosa che la divora – aveva detto una volta Galeazzo, riluttante – non possiamo biasimarla, se è così. È come se avesse un demone nell'anima che ogni tanto inizia a mangiarla. Nemmeno lei può farci nulla.”

Chiedendosi, con l'ingenuità di un bambino di nemmeno otto anni, se anche lui avesse il demone di sua madre nell'anima, Bernardino finalmente si alzò e, seguendo il consiglio della Tigre che lo aveva messo al mondo, si diresse verso la sala dei banchetti per mettere qualcosa nello stomaco.

   
 
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