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Autore: Adeia Di Elferas    08/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni stava aspettando con pazienza il proprio turno. Aveva deciso di andare dal barbiere in piena mattina solo perché a quell'ora sapeva che Caterina era impegnata con affari di Stato in cui non richiedeva il suo aiuto, e Ludovico in quelle ore era affidato alle balie, che dovevano lavarlo accuratamente e occuparsi di lui.

Il Medici, che pure aveva visto crescere i suoi nipoti sotto la cura attenta e protettiva di sua cognata Semiramide, si era fin da subito riproposto di non mettere parola sui metodi della moglie. Anche se si riteneva un padre premuroso e attento al figlio, pensava che una donna che era riuscita a far sopravvivere già sette figli, fosse meritevole di fiducia.

“Un minuto e sono da voi...” fece il Novacula, ripulendosi il rasoio nel grembiule e passando una mano sulla guancia del cliente che aveva appena finito di sbarbare, in modo da assicurarsi di aver fatto un buon lavoro.

“Non ho fretta.” disse piano il Popolano, una mano che lisciava un po' nervosamente la stoffa delle brache e gli occhi che continuavano a saettare verso la porta.

Lo stato di lieve agitazione che provava era legato più che altro al suo stato di salute. Quel giorno, o meglio, quella notte, si era svegliato all'improvviso, sentendosi strano. Era stanco. Non di una stanchezza normale... Era come se ogni fibra del suo corpo gli chiedesse di stare fermo. E poi era cominciato il dolore.

Un dolore fisso e sordo, tanto alle gambe, quanto alle mani. Non aveva nulla a che fare con il tormento atroce di un attacco acuto, ma era altrettanto angosciante.

Conscio della condizione in cui si trovava, il Medici era rimasto con gli occhi sgranati fissi al soffitto buio. Aveva avuto la possibilità di distrarsi un po' quando la moglie si era agitata per i suoi soliti incubi. L'aveva svegliata non appena l'aveva sentita invocare il nome di Ludovico Marcobelli.

Un po' cominciava a fargli impressione, il fatto che il loro bambino portasse il nome di un simile fardello per Caterina. Aveva perfino cominciato a chiedersi se la Tigre non avesse scelto quel nome più per espiare una colpa che le premeva sul cuore, che non per accattivarsi il Duca di Milano.

“Prego...” fece Bernardi, indicandogli la sedia lasciata libera e sorridendogli con un po' di affettazione.

Giovanni ringraziò e, rilassandosi un po' nel notare come nella barberia non ci fosse nessuno a parte loro, si sistemò.

“La solita spuntata ai capelli?” chiese Bernardi, che non trovava mai la soddisfazione di veder crescere i bei capelli del fiorentino.

Il Popolano annuì e poi si chiuse in un mutismo difficile da interpretare. Il Novacula, istintivamente, pensò che fosse solo ostilità.

Invece la mente del Medici era ancora ingabbiata nel ricordo di quella notte. Stava ripensando a quello che era successo poco prima che si risvegliasse per scoprirsi peggiorato di colpo.

Lui e Caterina si erano stesi, avevano letto assieme un paio di novelle di Boccaccio, una triste, che li aveva quasi commossi, e una tanto divertente da farli ridere tanto da piangere, benché la sapessero già quasi a memoria.

Finita la lettura, avevano spento le candele e si erano amati. Come non capitava da un po', mentre la Tigre era sopra di lui, c'era stato un momento in cui gli era parsa distante.

Quell'attimo di estraneità era durato più del solito. Quella sensazione tanto strana da non capire quanto fosse dolorosa, aveva portato il fiorentino a domandarsi se Caterina fosse anche solo vagamente cosciente che sotto di lei c'era lui e non Giacomo.

Solo quando Giovanni si era deciso a posarle con decisione una mano sul collo, inducendola ad abbassare lo sguardo verso di lui, la donna si era realmente tradita, confermando i suoi dubbi.

Con un sospiro, si era abbassata su di lui, baciandolo con lentezza, ma senza fermarsi del tutto, e gli aveva sussurrato: “Perdonami.” per poi andare avanti come nulla fosse.

Giovanni ci aveva messo poco a perdonarla. Facendo finta di non aver nemmeno capito a cosa la moglie si riferisse, aveva spostato la mano dal suo collo al suo seno e infine al suo fianco e l'aveva seguita nei suoi movimenti fino a che non era rimasta soddisfatta e stremata.

Sfinito e appagato quanto lei, le si era messo vicino, sotto il sottile lenzuolo che Caterina aveva tirato su per coprire entrambi, e si era addormentato quasi subito.

E poi, quando aveva riaperto gli occhi non molto tempo dopo, quando ancora sentiva su di sé il peso e il calore della moglie, come un'aura rarefatta che non voleva lasciarlo, ecco, mentre ancora era benedetto da quelle sensazioni meravigliose, era cominciato il dolore.

“Vi sentite bene?” chiese Bernardi, mentre tagliava con mano esperta i riccioli troppo lunghi del Popolano.

Giovanni, istintivamente, disse subito di sì. Non poteva immaginare quanto l'espressione del suo volto dicesse il contrario. Era pallido, fin troppo asciutto, e i suoi occhi dalle iridi quasi trasparenti non avevano un attimo di requie.

Anche se era a Forlì solo da un paio d'anni, tutti avevano imparato a conoscerne il viso sempre disteso e le labbra un po' incurvate verso l'alto, come in una specie di eterno placido sorriso. Tutto ciò non aveva nulla a che vedere con il volto teso e preoccupato che il Novacula si trovava davanti.

“Non sarà mica per quella storia del Conte..?” chiese vago il barbiere, non sapendo quando il marito della Tigre si importasse delle sorti dei giovani Riario.

“Che storia?” domandò il fiorentino, approfittandone anche per distrarsi dall'angoscia che stava rimontando in lui.

Andrea si passò un momento le forbici da una mano all'altra, quasi in imbarazzo. Il tono con cui l'altro gli aveva posto quella domanda lo aveva messo in difficoltà.

“Di quella ragazza...” fece il barbiere, tossicchiando un po' e ricominciando a lavorare: “Ma non si sa nemmeno se...”

“Parlate chiaro.” lo invogliò Giovanni, voltandosi verso di lui tanto repentinamente che per poco il Novacula non lo ferì con le lame della forbice.

“Niente, niente...” borbottò lo storiografo, pentito di aver citato quella faccenda: “Una figli di poveracci che vivono fuori dalle mura...”

Il Popolano immaginava, più o meno, come sarebbe andata avanti la narrazione, ma non lasciò Bernardi libero di lasciar cadere l'argomento: “E che le avrebbe fatto?”

“Ecco... Dicono che le abbia usato violenza e che lei adesso aspetti un figlio... Ma non si è sicuri né dell'una né dell'altra cosa.” precisò con fermezza il barbiere, tenendo ferma la testa del Medici con due dita e dando gli ultimi tagli.

“Come si chiama?” si informò l'ambasciatore, la fronte corrugata e gli occhi severi.

“Ah, questo non lo so...” confessò il Novacula: “Chiacchiere, nulla di più.”

E da quel momento nessuno dei due parlì più, fino a che Giovanni non prese la scarsella e lasciò qualche moneta al Bernardi, dicendo: “Vedete che potete sapere di più.”

 

Ottaviano Manfredi non era stato ricevuto subito da Gaspare Sanseverino, ma poco gli importava.

Si rendeva conto benissimo che lui, con le sue venticinque lance e i suoi dieci cavalleggeri non era nulla, per uno come Fracassa, che si portava appresso un esempio fulgido – e numeroso – di soldataglia milanese.

Nel suo padiglione, uno dei più piccoli del campo, Ottaviano si sentiva un re, ma appena ne usciva, si accorgeva di quanto invece non valesse nulla.

Anche quella condotta fiorentina era poco più che una presa in giro. Di certo, lui e la sua manciata di uomini, non avrebbero potuto cambiare le sorti della guerra. Servivano solo a fare un po' di confusione.

“Dicono che Firenze stia negoziando per uno scambio di prigionieri.” stava dicendo uno dei Capitani, vicino al fuoco.

Anche il comandante generale, Paolo Vitelli, era tra quelli che si erano radunati attorno al fuoco, ma sembrava disinteressato a quei dettagli.

“Dicono che la Sforza aspetti a mandare il figlio perché prima vuole che la Signoria faccia liberare il suo Tiberti.” disse un altro, insinuante.

“Sarebbe il suo amante?” chiese a quel punto Manfredi, udendo un nome che non gli era nuovo.

“Uno dei.” lo corresse quello che aveva parlato.

Ottaviano fece un sorrisetto, in risposta a quello del suo interlocutore, ma poi si chiuse in un mutismo sordo ai commenti che seguirono.

Sapeva poco, di com'era diventato la Stato della Sforza dall'ultima volta che ci aveva avuto a che fare, durante il suo tragico tentativo di assalto a Faenza. Però credeva strano che una donna del genere stesse aspettando che altri si occupassero di liberare uno dei suoi, se questi era davvero un suo amante.

Era probabile, pensava, che stesse tergiversando, prima di mandare il figlio nel pisano, per altri motivi.

“Meglio ritirarsi.” disse con durezza Paolo Vitelli, alzandosi e fissando gli altri con uno sguardo quasi disgustato: “Siamo qui per combattere una guerra, non per fare pettegolezzi da cortigiane. Se volevate sparlare degli amanti della Tigre di Forlì, dovevate starvene nei salotti dei vostri palazzi...”

Siccome era il più alto in carica e siccome in fondo tutti lo temevano, senza obiettare, i graduati si alzarono uno dopo l'altro, abbandonando il fuoco e tornando ognuno al proprio padiglione.

Anche Manfredi fece altrettanto e, quando fu sa solo nella sua tenda, si buttò sulla branda e guardò verso l'alto, chiedendosi se mai avrebbe incontrato quella strana donna che sembrava capace di fare guerra a tutti senza mai soccombere davvero.

 

Il Medici stava aspettando in silenzio, un libro aperto tra le mani e lo sguardo rivolto alla finestra, guardando il giorno che digradava in sera.

Benché avesse davanti uno dei libri che preferiva, la mente continuava a correre, tanto alla questione di Ottaviano, quanto al dolore sordo alle articolazioni che non l'aveva abbandonato nemmeno per un secondo.

Si guardò un momento le dita, trovando soprattutto le ultime un po' storte e rigonfie. C'erano momenti in cui si chiedeva come una bella donna come sua moglie sopportasse di sentirsi addosso quegli sgorbi.

Era stata la stessa Caterina, una volta, a rivelargli come la bellezza delle sue mani fosse stata una delle cose che più l'aveva attratta, quando si erano conosciuti. Adesso che erano delle orrende creature spigolose e piene di tofi, Giovanni si chiedeva come potesse sua moglie accettarle ancora.

Una volta Semiramide gli aveva detto: “Tuo fratello non è bello, ma l'amore è tanto cieco che io, quando siamo soli, lo trovo l'uomo più desiderabile del mondo.”

All'epoca il Popolano aveva preso quell'affermazione con un sorriso e non ci aveva pensato più, ma adesso che si trovava in difficoltà, quando la Sforza lo cercava con la stessa energia e desiderio di quando lo voleva le prime volte, si stava convincendo che forse era vero: quando si ama non si vede quel che c'è.

Quando ancora il Medici era impelagato nei suoi pensieri, la porta della stanza si aprì e l'immobile aria serale, resa profumata dalla finestra aperta che rimandava l'odore estivo dei campi, venne momentaneamente agitata dall'arrivo della Tigre.

La donna, mentre si cambiava per la notte, gli riassunse in breve quello che aveva fatto quel giorno, più per ripercorrere lei stessa gli impegni del quotidiano che non per metterlo realmente al corrente, e poi gli si sistemò accanto.

Giovanni, messo da parte il libro che stava facendo finta di leggere, guardò la moglie per un po'.

Tutto quello che avrebbe voluto fare in quel momento, sarebbe stato seppellire tutte le sue ansie per il futuro nel calore del suo corpo, ma si riscosse in fretta, facendo forza e decidendo di affrontare prima una conversazione che sapeva si sarebbe rivelata spinosa.

“Caterina...” prese a dire il fiorentino, mentre la donna occhieggiava verso il volume che aveva tra le mani, per capire che stesse leggendo.

“Sì?” chiese la donna, cogliendo una nota stonata nella voce del marito.

Il Popolano, dopo un lungo sospiro, si fece forza e le riferì quello che il Novacula gli aveva detto quel giorno.

“Non mi interessa.” fece la donna, ostinata, una volta che ebbe assorbito il colpo di quella rivelazione.

“Stai mentendo.” ribatté il marito, con un tono abbastanza perentorio.

“Come fai a dirlo?” chiese allora lei, facendo più fatica a mascherare la propria agitazione, tanto che dovette rimettersi in piedi, perché incapace di stare ferma: “Di quello che fa Ottaviano ormai non me ne importa più nulla. Che faccia tutti i figli che vuole, mi spiace solo per quella poveraccia che ha dovuto...”

“Io lo so che invece ti importa.” si ostinò Giovanni, senza muoversi dal letto, ma seguendola con lo sguardo nel suo peregrinare per la camera.

“Tu non sai proprio nulla...” insistette la donna, cercando di calmarsi, ma finendo per agitarsi sempre di più.

Anche se aveva il sospetto che prima o poi Ottaviano avrebbe avuto qualche figlio illegittimo, anzi, spesso si chiedeva se tra i bambini che popolavano i bordelli ce ne fosse già qualcuno, quella voce l'aveva atterrita. Sentire una cosa del genere, rendeva i dubbi più concreti e la metteva dinnanzi a un dilemma etico che nemmeno lei sapeva come gestire.

“Scipione Riario.” disse solo il Medici, atono.

“Come..?” chiese la Tigre, cadendo dalle nuvole nel sentire pronunciare quel nome.

“Mi hai dato tu l'accesso al tuo bilancio privato. Credevi che non avrei notato che sborsi un vitalizio per questo Scipione Riario che viva qui a Forlì?” soffiò Giovanni, sentendo l'amaro in bocca nel dover scoprire a quel modo le sue carte per far ragionare Caterina: “Ora, ho fatto qualche indagine, in modo discreto e ho scoperto che è un figlio del tuo primo marito, avuto con una popolana. Ora, se tu ti prendi il disturbo da anni di assicurare a questo Scipione, malgrado il tuo odio per Girolamo, mi rifiuto di credere che non ti interessi nulla di un figlio di Ottaviano.”

A quelle parole, la Sforza si fermò un momento. Era davanti al camino spento. Sentiva la schiena bagnata di sudore freddo e l'aria fragrante e ancora calda che entrava dalla finestra le incollava spiacevolmente la stoffa alla pelle.

“Mio marito Girolamo ha disseminato l'Italia di figli illegittimi.” iniziò a die, gli occhi chiusi e la mente che ritornava nella gabbia d'oro che era stata la sua vita a Roma, città in cui suo marito non si era lasciato sfuggire nemmeno un'occasione per tradirla, non che a lei dispiacesse, vederlo sfogare le proprie voglie con donne che non fossero lei: “L'unico che conosco per certo, però, e che vive in questa città, è questo Scipione di cui parli tu. Gli ho accordato un vitalizio, minimo, come avrai visto, ma che continua a percepire, affinché possa sopravvivere e trovare la sua strada, malgrado l'identità di suo padre. Non è giusto che sia condannato solo perché è stato messo al mondo da un mostro.”

Il Medici l'ascoltava senza dire nulla, benché avesse mille commenti che gli frullavano per la testa.

Il fatto che, almeno in apparenza, Caterina apparisse più misericordiosa e comprensiva per un figlio del Riario, ma non suo, quando invece con i suoi primi sei figli fosse sempre stata tanto intransigente, faceva pizzicare spiacevolmente il collo del fiorentino. Le contraddizioni insite in sua moglie, a volte, lo spaventavano.

“Ottaviano...” sospirò la Leonessa, scuotendo piano il capo: “È già come suo padre. Se metterà al mondo degli altri infelici, non è affar mio. Non posso passare la vita a riparare gli errori di tutti i Riario che infestano questa casa.”

Il silenzio che seguì, lungo e pesante, vide marito e moglie lontani. Anche se tra loro c'erano appena un paio di metri di distanza, le loro anime in quel frangente erano agli antipodi.

Conciliante come sempre, il Medici si fece forza e, ingoiando tutto quello che avrebbe voluto dire, si limitò a sussurrare: “Almeno prova a parlarci. Tra pochi giorni partirà... Non lasciarlo andare in Toscana senza aver almeno provato a fargli prendere le sue responsabilità.”

La donna si passò una mano sulla bocca. La sola idea di confrontarsi con suo figlio le metteva la nausea. Razionalmente sapeva che Giovanni aveva ragione. Ma aveva da tempo capito anche che il fiorentino era una persona decisamente migliore di lei.

“Farò quello che posso.” concesse alla fine, tornando a letto, ma chiudendo definitivamente il discorso con un lapidario: “Di questo genere di argomenti, però, non ne voglio parlare mai più.”

 

La lettera di Guidobaldo da Montefeltro era ancora sul tavolino da campo, sollevata appena da qualche refolo di vento caldo.

Francesco Gonzaga aveva messo una pietra sul foglio, per fare che non volasse via, ma avrebbe tanto voluto che quel messaggio venisse portato via, anche solo per non doverlo vedere più e avere una scusa per non rispondere.

Grattandosi la barba incolta, il Marchese fece un profondo sospiro e alla fine si decise a rispondere.

Era vero che Guidobaldo era suo cognato, che erano vincolati, almeno formalmente, da un'amicizia di vecchia data. Però la sua richiesta di quaranta uomini e sessanta cavalleggeri secondo lui era eccessiva.

Il Gonzaga già si trovava a Carpi, in soccorso di Giberto Pio e Antonio della Mirandola, e trovava quell'ingaggio un inutile teatrino. Non avrebbe sopportato di prestare i suoi uomini, ai suoi stipendi grazie a indicibili sacrifici personali, a uno come Guidobaldo, che li avrebbe usati solo per i suoi fini e per brigare in favore di Piero dei Medici, su imbeccata del papa, che voleva spazzare via i Popolani da Firenze per mettere un fantoccio di suo gradimento a capo della Signoria.

Con un altro sospiro pesante, Francesco prese il necessario per scrivere e redasse un rifiuto molto conciso e abbastanza elegante, sperando che il suo parente non se ne avesse a male.

Quando chiuse il messaggio, ormai a sera fatta, lo consegnò a una staffetta che lo consegnasse il prima possibile a Ferrara, dove il cognato l'aveva cercato. Era là, da Ercole Este, assieme a Pandolfo Malatesta. Due sanguinari che aspettavano gli uomini di Francesco per dare inizio alla loro guerra privata...

Ritornato al suo padiglione, dopo aver dato disposizioni per l'indomani, sicuro che si sarebbe ingaggiato di primo mattino con il nemico, magari riuscendo una volta per tutte e risolvere il problema dei della Mirandola, il Gonzaga si mise in branda.

Ancora vestito, gli occhi sgranati, tutto quello a cui riusciva a pensare non erano più né gli intrighi di Malatesta e del Montefeltro, né la guerricciola che stava portando avanti a Carpi.

L'unica cosa a cui riusciva a pensare era che Ludovico Sforza era ancora a Mantova. Da solo con la sua Isabella.

 

Caterina aveva riflettuto a lungo su quello che Giovanni le aveva detto. Quei giorni le erano scivolati addosso come acqua fredda.

Aveva avuto la febbre, un paio di sere, e non era stata molto bene. Aveva anche capito di non essere più in grado di allattare. Passava quasi tutto il suo tempo o con il figlio Ludovico, o con il marito, dedicando solo il minor tempo necessario agli affari di Stato, trincerandosi, per la prima volta dopo anni, dietro le difficoltà della salute per scansare impegni che vedeva solo come perdite di tempo.

Mancavano due giorni alla partenza di Ottaviano. Era stato tutto predisposto affinché raggiungesse Firenze e da lì prendesse ordini per unirsi agli altri nel pisano.

La Contessa aveva cercato di istruire ad hoc i Capitani che lo avrebbero seguito, pregandoli di proteggerlo, ma di impedirgli di fare la figura del vigliacco.

“Che vada sul campo – aveva detto, per far capire esattamente come avrebbero dovuto gestirlo – e che lo vedano tutti combattere. Se le cose si mettessero male, cercate di fare quadrato su di lui e di portarlo vivo a fine giornata.”

Il caldo aveva acceso qualche piccolo focolaio di febbri, nelle campagne, ma per il momento entrambe le città della Sforza erano apparentemente salve.

La Tigre temeva soprattutto per il suo figlio più piccolo e così aveva istituito controlli serrati alle porte, lasciando entrare solo quelli che venivano ritenuti in buona salute. Anche se secondo il Consiglio cittadino quella misura era eccessiva, la donna era certa che non si poteva peccare di eccesso di prudenza, almeno non in quel caso.

Ricordava anche troppo bene di come sua madre e Livio fossero morti proprio per un'epidemia di febbri. Era stata una cosa apparentemente più leggera del solito, aveva colpito quasi solo i vecchi e i malmessi, ma lei ne era rimasta tanto scottata, da non voler più rischiare di bruciarsi.

Quel pomeriggio, finite le questue – poche, per fortuna, e non complesse – la donna decise di affrontare il peso che portava sullo stomaco e così, passando dal cortile d'addestramento, additò il primogenito, che si stava arrabattando nel caricare una colubrina, e gli disse: “Vieni con me, ti devo parlare.”

Senza osare rimbeccare, e in fondo felice di poter interrompere l'esercitazione, il giovane si ripulì le mani nelle brache da lavoro – così diverse da quelle eleganti che portava nei momenti liberi – e la seguì nelle viscere della rocca.

Prima di cercare una stanza in cui chiudersi per poter parlare con il figlio senza rischio di essere interrotta, la donna decise di passare dalle cucine.

Assieme a un paio di sguattere e alle cuoche, trovò Bianca, che stava spellando un paio di conigli, aiutando così le serve nella preparazione della cena. La donna guardò la figlia di sfuggita, quasi non l'avesse vista, ma nel profondo sollevata di vederla tanto impegnata in qualcosa di costruttivo.

“Una brocca di vino.” ordinò, senza riferirsi a nessuno in particolare: “Il più forte... Quello nero.”

Siccome nessuno ebbe la prontezza di eseguire, fu proprio Bianca ad alzarsi. Si ripulì in fretta le mani e poi, con solerzia, esaudì la richiesta.

I suoi occhi blu corsero dalla madre al fratello – che attendeva sulla soglia, il viso pallido e le labbra contratte per l'agitazione – e non le fu difficile capire il perché della richiesta.

Qualsiasi cosa la Contessa dovesse dire al figlio che stava per partire verso il fronte, era chiaro che avesse bisogno di qualcosa che la sostenesse.

Bianca, nel porgerle la brocca colma e un calice, sperò solo che nessuno dei due fosse tanto sciocco da passare il segno. Bastava un po' di pazienza, pensava lei, e sarebbero stati separati. La guerra poteva durare anche mesi. Dovevano solo resistere ancora un paio di giorni.

Forse, si diceva – per quanto l'idea la facesse sentire strana – Ottaviano non sarebbe nemmeno tornato.

Mentre la Tigre e il giovane Riario lasciavano le cucine in silenzio, la ragazza si rimise a sedere e, prendendo i nuovo il coltello per continuare a scuoiare i conigli, si chiese se non fosse proprio per quello, ovvero per il rischio di non vederlo tornare più, che sua madre volesse confrontarsi con Ottaviano...

“Che faccia, aveva...” soffiò la cuoca anziana, gonfiando le guance e sollevando le sopracciglia.

“Il Conte?” domandò una delle sguattere, mentre l'altra faceva una smorfia, memore delle insidie che proprio Ottaviano le aveva mosso qualche tempo addietro, avendo l'unica accortezza di pagarla per il disturbo.

“No...” fece la cuoca, scuotendo con forza il capo e buttando un po' di verdure nel pentolone: “La Contessa. Pareva avesse negli occhi l'inferno...”

   
 
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