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Autore: Adeia Di Elferas    10/04/2018    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina si versò da bere, ma poi, appena prima di portarsi il calice alle labbra, lo spinse verso il figlio, seduto dall'altro lato della scrivania.

La Contessa aveva scelto appositamente quella stanza, ultimamente usata dai costruttori del mastio per discutere il progetto, sia perché in un punto tranquillo della rocca, sia per via della presenza di quel tavolo. Voleva una barriera fisica, tra sé e Ottaviano.

La camera era tranquilla. Per via dell'aria un po' chiusa, dopo aver fatto sedere il figlio, la Tigre aveva aperto la finestra, lasciando entrare l'odore pungente del tardo pomeriggio estivo e il suono lontano delle cicale.

Ottaviano guardò il calice colmo di vino nero che gli era stato posto davanti e poi risollevò lo sguardo verso la madre.

Questa incrociò gli occhi castani del primogenito per appena un secondo, ma tanto bastò per agitarle nel petto un groviglio di emozioni spiacevoli che la indussero a cercare un bicchiere anche per sé. Avrebbe dovuto pensarci mentre erano ancora in cucina.

Per fortuna i capimastri non erano uomini troppo ordinati e così ne trovò uno discretamente pulito appoggiato sulla credenza. Ne passò il bordo con un lembo della manica e quando le parve passabile, prese la caraffa e si servì abbondantemente.

Sollevando il calice verso il figlio, lo invogliò a un brindisi, che, con riluttanza, Ottaviano ricambiò.

Caterina sentì con piacere il vino nero e forte scenderle nella gola, scaldandole lo stomaco e rinfrancandole i nervi. Da quando Ludovico non era più nella pancia, il suo gusto per il vino era tornato tutto di colpo.

Il giovane Riario non osava parlare. I gesti secchi e il silenzio protratto di sua madre, che da quando erano lì si era espressa con lui senza bisogno di parlare, lo mettevano in ansia.

Dal canto suo, invece, la Sforza si sentiva attanagliata dal rifiuto che provava verso quel figlio.

Avrebbe voluto parlargli della questione sollevata da Giovanni. Avrebbe voluto chiedergli se era vero che aveva messo incinta quella popolana e anche se avesse altri figli in giro. Avrebbe anche voluto pregarlo di smetterla una volta per tutte di comportarsi a quel modo con le donne, che fossero o meno di qualche bordello. Invece non riusciva a spillare parola.

Il ragazzo, curvo nelle spalle, mosse agitato le lunghe e secche gambe sotto al tavolo e bevve ancora un po' di vino.

Non gli piaceva. Però sperava che quel calice lo aiutasse a trovare un minimo di coraggio. Anche se sentiva la gola bruciare, un sorso dopo l'altro arrivò al fondo del bicchiere.

Prima che potesse riprendersi dal forte contraccolpo che quel vino scuro gli stava dando, sua madre già gli stava riempiendo di nuovo il boccale. Il giovane provò a rifiutare, ma la donna continuò a versare imperterrita, servendo anche a se stessa una seconda razione.

“Tra due giorni lascerai Forlì.” esordì Caterina, non sapendo in che altro modo cominciare.

Ottaviano spalancò involontariamente gli occhi, colto dal terrore che lo prendeva tutte le volte che si rendeva conto che la partenza per la guerra era ormai tanto vicina.

Quell'espressione di paura e viltà fece scattare i nervi della Tigre che, gettando alle ortiche tutti i buoni propositi che il vino le aveva suggerito, si alzò di scatto e batté un pugno sulla scrivania, gridando: “Sei come tuo padre! Quando doveva partire per la guerra contro i Colonna aveva la tua stessa faccia! Sei un uomo, Ottaviano! Comportati come tale!”

Il Riario, quasi tremando, aveva chinato il capo, impotente dinnanzi alla furia della madre.

Ansante, Caterina si lasciò ricadere sulla sedia con pesantezza. I suoi occhi verdi corsero al figlio e la rabbia lasciò per una frazione di secondo il posto alla commiserazione.

La pietà, però, svanì all'istante non appena la donna si ricordò di quello che suo figlio aveva fatto.

Non solo a quelle povere disgraziate che l'avevano incrociato sulla loro strada, ma anche e soprattutto a lei.

“Tu mi hai fatto troppo male.” disse, a voce molto bassa, bevendo ancora un po' e guardando verso la finestra aperta da cui spirava l'odore ancora un po' acerbo dell'estate.

Era simile a quello dell'estate morente, quello di fine agosto, quello che aveva accompagnato Giacomo alla morte senza che né lui né la sua Caterina potessero avvedersene per tempo.

“Non posso perdonarti.” sussurrò la Leonessa, premendosi con forza due dita sugli occhi: “Ci ho provato, ma non ci riesco.”

Il figlio deglutì rumorosamente, temendo che la madre fosse sul punto di emettere qualche sentenza nei suoi confronti. Forse, dopo anni di ripensamenti e dubbi, quella donna si era infine decisa a punirlo per tutte le sue colpe, vere o presunte che fossero.

“Speravo, davvero, di riuscire a perdonati, con il tempo...” riprese Caterina, dopo qualche altro sorso che le riarse il palato.

Da qualche sorso, passò a un paio di bicchieri colmi, senza nemmeno avvedersene e senza che il figlio cercasse in qualche modo di fermarla.

La sua mente, ormai disabituata a grandi quantità di vino, cominciava a essere impaniata, quasi confusa. La Contessa si rendeva conto che le sua labbra lasciavano uscire le parole prima che lei potesse porvi un veto, ma arrivata a quel punto non le importava più.

“Invece il tempo non è servito a nulla.” proseguì la Sforza, abbandonata contro lo schienale del suo scranno, gli occhi accesi che finalmente osavano fissarsi in modo accusatorio sul figlio: “Ogni volta che ti guardo – gli rivelò – l'unica cosa che vorrei fare sarebbe metterti le mani al collo e strozzarti.”

“Perché non lo fate, allora?” chiese a quel punto Ottaviano, la voce che riusciva a uscire dalla gola solo per merito del vino.

La Tigre, a quella domanda, rimase pietrificata. Nemmeno le sue dita, che prima si erano messe a picchiettare nervosamente sulla scrivania, si muovevano più.

“La cosa più nobile che potresti fare, sarebbe farti ammazzare in guerra.” sibilò Caterina, non appena si riebbe un minimo: “Laveresti nel sangue l'onta del cognome che porti.”

Il Riario mandò giù un po' di saliva e poi, convinto che si stesse giocando il tutto e per tutto, ribatté, con una certa decisione: “Anche Galeazzo è figlio di mio padre, eppure non lo odiate.”

“Perché non gli somiglia.” fu la risposta, tanto rapida, quanto spontanea, che scivolò fuori dai denti stretti della donna.

Il silenzio che ripiombò tra loro dopo quell'ammissione li portò a guardarsi di nuovo occhi negli occhi.

La connessione che Ottaviano aveva disperatamente cercato con la madre fin da quanto era nato, però, mancava ancora. Quando gli sembrava di scorgere qualcosa in più, in quelle iridi verdi, così diverse dalle sue, l'illusione svaniva all'istante e gli rimaneva solo un profondo senso di vuoto nel fondo dello stomaco.

Caterina, in quei momenti, stava cercando di forzare se stessa a soprassedere e parlare di quello che Giovanni le aveva riferito. Se aveva voluto vedere Ottaviano da sola era stato per discutere con lui del destino di quell'eventuale figlio che sarebbe nato dalla violenza che lo stesso giovane Riario aveva usato a una poveraccia di cui la Contessa nemmeno aveva saputo il nome.

E invece, appena provò a schiudere le labbra, un forte senso di nausea, che nulla aveva a che fare con il vino, le fece cambiare idea: “Non ce la faccio...” borbottò tra sé, confondendo non poco Ottaviano, che aggrottò la fronte perplesso.

Alzandosi rapidamente e aggirando la scrivania, in modo da trovarsi davanti il figlio, Caterina lo agguantò per il bavero del giacchetto. Lo sollevò di peso dalla sedia, sovrastandolo, benché lui fosse ormai molto più alto di lei e probabilmente abbastanza forte da poterle tenere testa.

Tenendo il proprio viso a pochi millimetri da quelli del giovane, la Tigre ringhiò: “Dovrei farti uccidere, per quello che fai alle donne. Sei una bestia, non un uomo. Mi vergogno, di avere un figlio come te. Sei un assassino della peggior razza. Hai ucciso l'uomo che amavo e non hai neanche avuto il coraggio di farlo di persona. Mi fai schifo. Ma non voglio sporcarmi le mani con il mio stesso sangue. Spero che lo facciano i veneziani al posto mio.”

Il rancore e la rabbia che le avevano estorto quelle frasi stavano rimescolando il sangue nelle sue vene in modo spiacevole. La Contessa si era ripromessa di non perdere il controllo, ma alla fine non era riuscita a dominarsi e aveva detto più di quello che avrebbe voluto.

Le era ormai chiaro che Giovanni la sopravvalutava e la credeva una donna di gran lunga migliore rispetto a quello che era. L'aveva creduta capace di affrontare serenamente quel confronto con Ottaviano e invece lei era riuscita, come sempre, a trasformare un'occasione di possibile confronto in una guerra.

Non voleva trovare giustificazioni per se stessa, e quindi le rodeva ancor di più vedersi così incapace di controllarsi. Aveva fatto per anni della sua maschera impassibile una corazza, ma con suo figlio non riusciva a portare avanti una recita. Le era già costato troppo non dar sfogo ai suoi istinti quando lui le aveva ucciso Giacomo.

Lasciò andare di colpo Ottaviano, che ricadde sulla sedia con un tonfo. Lo stava ancora tenendo sotto il suo sguardo pesante, quando il Riario, che stava sudando freddo, provò a dire qualcosa.

Ma la Leonessa non voleva sentire cosa avesse da dire. Che fosse scuse o accuse, erano entrambe cosa che la Sforza si rifiutava di accogliere.

Caricò il braccio e gli diede uno schiaffo tanto forte e inatteso da farlo vacillare e aggrappare alla scrivania: “Almeno abbi il buon senso di tacere!” lo riprese.

Mentre il figlio ancora si teneva la guancia con le mani, la donna recuperò la caraffa quasi vuota e, vergognandosi un po' per aver perso le staffe a quel modo, andò verso la porta, dicendo, appena prima di uscire: “Dovresti stare più attento, a mettere al mondo dei figli. Possono rovinarti la vita.”

 

Era ormai sera inoltrata e Ludovico Sforza stava guardando distratto verso l'orizzonte che si poteva rimirare dalla finestra della stanza che gli era stata concessa.

I suoi bagagli erano già pronti per il giorno dopo, ma il Moro non voleva lasciare Mantova. C'era qualcosa, nella corte del Gonzaga – soprattutto da che il Marchese era partito per il campo di battaglia, dando al Duca l'illusione di essere il padrone indiscusso del castello – che faceva sentire Ludovico completamente a casa.

Un paio di colpi alla porta lo fecero voltare di scatto. Si era ritirato, dopo la cena, da almeno un'ora.

Chi poteva cercarlo?

Andò lentamente all'uscio e chiese chi fosse, e quando sentì la voce di Isabella rispondergli, aprì all'istante.

“So che domattina partirete prima dell'alba...” fece la donna, sorridendogli e chiedendo implicitamente il permesso di entrare.

Lo Sforza allargò un braccio e le permise di sgusciare in camera, prima di richiudere la porta alle sue spalle: “Sì, preferisco.” spiegò l'uomo, annuendo e allacciandosi le mani dietro la schiena, mettendo involontariamente in risalto il ventre prominente: “Dopo fa troppo caldo... Preferisco sfruttare qualche ora fresca, dato che si può...”

L'Este fece un sospiro. Teneva in una mano una candela, che appoggiò alla cassapanca vicina al letto. Si aggirò un istante per la stanza come indecisa se dire qualcosa o meno. Il Moro la seguiva, in silenzio, domandandosi che cosa mai le frullasse in testa.

Ne rimirava i capelli, di un castano che volgeva al rosso, i lineamenti non convenzionali e il profilo, tutt'altro che leggero, che però veniva perfettamente reso armonico dall'abito prezioso che indossava.

“Mio marito si fida di voi.” disse alla fine Isabella, sperando che il Duca capisse, senza doversi mettere in ridicolo e implorarlo: “Mi auguro che la sua fiducia sia ben riposta.”

Ludovico si irrigidì un istante. La politica, aveva creduto, non c'entrava nulla con loro, quella sera... E invece Isabella era arrivato nelle sue stanze solo per assicurarsi che Milano non avrebbe voltato le spalle al Gonzaga, in caso di pericolo.

“Vostro marito sa scegliersi gli amici.” ribatté lo Sforza, con un giro di parole che convinse poco l'Este.

“Me lo auguro.” commentò la Marchesa, sollevando gli occhi verso il Duca e fissandolo con la stesse perentorietà che era stata propria anche di Beatrice.

Quel parallelismo, fece vibrare il cuore del milanese che, colto da uno slancio improvviso, colmò la distanza tra loro e le prese una mano tra le sue, baciandone il dorso con trasporto, lentamente, come se stesse assaporando qualcosa di prezioso.

Quando risollevò il viso, trovò quello dell'Este colto da un rossore feroce, ma lesse nei suoi occhi anche una bella dose di compiacimento.

Sperando di non spegnere troppo il sentimento che la donna sembrava accarezzare dopo quel bacio cortese, il Moro sussurrò: “Avete i suoi occhi.”

Isabella capì al volo il riferimento a Beatrice e fu con riluttanza, ma anche con un moto di orgoglio, che ritirò la mano da quelle dello Sforza: “Vi illudete di trovare in me mia sorella, ma non è così.”

“Io so che l'amavate, in fondo.” fece il Moro, accettando abbastanza di buon grado la ritrosia della mantovana: “Ho ancora alla mia corte, a Vigevano, la spinetta che le avevate regalato.”

L'Este contrasse i muscoli della mandibola e guardò altrove. Ricordava molto bene quel dono. Era stato un tentativo di riconciliazione, ma la realtà era che lei e Beatrice erano rimaste due estranee, legate dall'imposizione sociale di volersi bene a parole, ma profondamente distanti l'una dall'altra.

“Avete altro da dirmi?” chiese Ludovico, dopo un po', ormai convinto che Isabella fosse arrivata nella sua stanza a quella tarda ora solo per chiedere la sua intercessione a Venezia per il marito.

“No. Buon viaggio, Duca. Mi auguro che torniate sano e salvo a Milano.” concluse frettolosamente la Marchesa, tornando alla porta, tanto di corsa da dimenticare perfino la candela sulla cassapanca.

Quando la donna se ne fu andata, il Moro si sedette sul letto. Si sentiva stanco e solo. Nemmeno il pensiero che a Milano l'attendevano la bella Crivelli e le altre lo faceva sentire meglio.

Chiuse un momento gli occhi e poi, mordendosi il labbro inferiore con fin troppa forza, cercò di non pensare a Beatrice, almeno per quella notte, e si disse che era un bene che la partenza fosse fissata per l'indomani prima dell'alba: stare vicino a Isabella, per quanto fosse solo una copia sbiadita della sorella, gli stava facendo solo del male.

 

Dopo aver lasciato il figlio, Caterina aveva rifuggito la compagnia di chicchessia, eludendo facilmente il marito e tutti gli altri membri della famiglia.

Era uscita dalla rocca e si era messa a vagare per la città senza una meta. Si era fermata di quando in quando in qualche locanda – avendo cura di scegliere quelle peggio frequentate, in modo da non incontrare membri dei Consigli – a bere, mangiando solo quando il cibo le veniva apertamente offerto.

Quando aveva infine fatto buio, si era trovata combattuta. Da un lato voleva tornare alla rocca, ma dall'altro sentiva di dover fare ancora una cosa. Aveva lottato tutto il tempo con quel bisogno e adesso il vino la stava rendendo debole.

Pur sapendo che si sarebbe solo fatta del male, appena di trovò nella strada principale, virò con decisione verso la chiesa di San Girolamo.

Entrò in fretta, quasi a passo di marcia, felice di notare che non vi fosse nessun altro, a parte un frate che stava sistemando l'altare.

Andò alla cappella dei Feo. Non sapeva nemmeno che cosa stesse facendo lì, a quell'ora, e temeva che Giovanni fosse anche in pensiero per lei. Però c'era come una forza silenziosa che l'attirava in quel posto.

Sollevò lo sguardo verso i dipinti con cui la cappella era stata affrescata. Come l'anima in pena che era, spostò il peso da un piede all'altro varie volte. La vista era un po' offuscata, per colpa del vino, ma i suoi occhi riconoscevano ancora molto bene il viso di Giacomo ritratto in mezzo a quello dei suoi parenti. Quel dipinto, però, non gli rendeva giustizia.

Solo dopo un bel po' la donna ebbe lo spirito di guardare la lapide. Ogni volta, per lei, rivedere quel nome inciso nella pietra era rivedere il suo Giacomo cadere in terra straziato dai colpi di uomini che credevano amici.

Si avvicinò comunque al sepolcro, appoggiò una mano sulla superficie fredda e muta e poi, vinta dalla stanchezza e dai giorni passati a tormentarsi, scoppiò a piangere. Appoggiò la fronte alla lapide e continuò, senza nemmeno chiedersi se il frate l'avesse sentita.

Non era stato solo il deleterio confronto con Ottaviano a farla precipitare a quel modo. Erano stati tutti i momenti in cui si era trovata a ripensare a Giacomo, tutte le ore insonni trascorse nel ricordo dell'uomo che per primo era stato capace di farle scoprire l'amore. Era stata la consapevolezza di non poter dare a Giovanni tutto quello che avrebbe dato senza indugio a Giacomo.

“Anche la corda più forte alla fine si spezza. Sta a noi capire quando fermarci, prima che si rompa e ci faccia perdere la preda.” le aveva detto una volta suo padre, mentre erano a caccia, indicandole i cacciatori che erano con loro e che tentavano di trascinare un cinghiale enorme con una fune non abbastanza resistente: “E questo vale anche per le persone.”

Finalmente Caterina capiva cosa intendeva. Non si era mai sentita tanto logorata come quella sera.

Le sembrava di essere quella fune che, dopo aver trascinato per centinaia di metri il cinghiale, alla fine, un cavetto per volta, aveva ceduto e si era tranciata in due.

Le girava la testa e aveva una forte nausea. Aveva bevuto troppo, lo sapeva e se n'era resa conto mentre lo faceva. Era stato come quando Giacomo era morto da poco. Aveva cercato soccorso nell'oblio, ma non l'aveva trovato.

Bernardi, tempo addietro, riferendole ciò che si era detto su di lei dopo la morte del suo secondo marito, le aveva detto che in molti sostenevano che lei fosse 'impazzita di dolore'. Quella volte, come tante altre prima di quella sera, la Tigre si disse che sarebbe stato bello, se fosse stato vero.

Se fosse stata pazza, almeno, avrebbe perso la ragione e con la ragione la coscienza e quindi al senso di vuoto non si sarebbero legati tanto strettamente il senso di colpa e la consapevolezza di aver partorito e cresciuto gli assassini di Giacomo.

Preda della rabbia e della confusione, la Sforza diede un pugno alla lapide, pentendosene subito e sperando che il frate non accorresse per vedere che fosse successo. Quel suono improvviso e violento le rimbombava ancora nelle orecchie.

“Se solo non ti avessi mai conosciuto...” soffiò, guardando il nome del suo grande amore inciso nella pietra.

La voce non le permise di continuare dicendo 'forse saresti ancora vivo', ma la sua mente non le risparmiò quell'ipotesi.

Con difficoltà, a passo lento e un po' ciondolante, la donna lasciò la chiesa e tornò verso Ravaldino.

Tentò di darsi un contegno, nel camminare accanto alle guardie, ma l'odore vinoso che si levava al suo passaggio fece scambiare un'occhiata preoccupata ai due uomini che, tuttavia, non osarono commentare nemmeno quando furono di nuovo soli.

 

Giovanni cominciava a essere teso. Quando aveva visto Ottaviano, ma non Caterina a cena, si era preoccupato, ma fino a un certo punto.

Aveva trovato il giovane Riario molto più taciturno e schivo del solito, e gli era anche parso che su una delle guance avesse il segno di una recente percossa, ma poi si era lasciato in fretta distrarre prima da Bianca – che gli spiegava di come avessero cucinato i conigli che avevano nel piatto di portata – e poi da Bernardino che, in perenne ricerca di una figura paterna, se l'era accaparrato per raccontargli la sua giornata.

Il Medici era poi tornato in camera. Aveva iniziato ad aspettare, chiedendosi se fosse il caso di indagare meglio su dove fosse sua moglie. Temeva che magari avesse deciso di uscire a caccia, benché fosse ormai quasi notte.

Era andato in fretta nelle stalle e nella sala delle armi per scoprire che non mancava nulla, né cavalli né archi o spade o lance e dunque Caterina non aveva cercato ristoro nel bosco.

Magra consolazione, visto che così non aveva idea di dove fosse. In realtà tante ipotesi gli balenavano in testa, ma le scartava una dopo l'altra e alla fine si era deciso di non farsi altre domande e armarsi di pazienza.

Aveva riveduto la corrispondenza, per poi rendersi conto di non avere la testa per scrivere le risposte a tutte quelle missive.

Il dolore sordo e costante che aveva a piedi e gambe, poi, gli impedivano anche di misurare ad ampi passi la camera per calmarsi. Quella costatazione gli permise di occupare almeno mezz'ora con rancorosi pensieri riguardo la propria salute, finendo per immaginarsi seduto su una portantina da gottosi, come un vecchio rottame.

Quando finalmente la porta si aprì, il Popolano scattò in piedi e andò verso la moglie. La zaffata di osteria che la seguiva la diceva lunga su come avesse passato quelle ore.

“Caterina...” disse Giovanni, accogliendola tra le sue braccia, visto che la donna gli si era praticamente buttata addosso: “Dove sei stata? Che hai fatto?”

La Tigre pareva intenzionata a non rispondere. Alle domande del marito, che erano in fretta passate a chiedere conto dell'incontro con Ottaviano, la Contessa rispondeva con gesti rallentati dal vino, ma abbastanza chiari.

Il fiorentino aveva capito benissimo che, con quei goffi gesti da ubriaca, la Sforza stava cercando di slacciargli le brache con una mano e di sollevargli la camicia con l'altra. Con un sospiro dolente, le prese con delicatezza i polsi, ma lei non si fermò. Così strinse più forte, facendosi male lui per primo, per colpa delle sue dita storte e gonfie.

“Hai parlato con Ottaviano?” le chiese di nuovo, approfittando della momentanea sosta che le aveva imposto: “Gli hai detto quello che dovevi..? Gli hai parlato di quella ragazza? Hai scoperto chi è?”

“Non ce l'ho fatta.” disse Caterina, la voce impastata, sollevando gli occhi verdi verso quelli chiarissimi del marito.

Giovanni ricambiò lo sguardo e trovò le iridi della moglie lucide e la sclera arrossata. Doveva aver pianto e anche parecchio.

Come se quell'ammissione avesse archiviato in un colpo la questione, la Leonessa riprese a cercare di spogliare il marito. Il Medici avrebbe voluto opporsi con fermezza fin da subito, ma la moglie lo trovava debole in quel campo.

Era arrivato al punto di farsi cavare il camicione, quando finalmente riuscì a recuperare il buon senso. Così come quando lei si era presentata da lui ubriaca, la sera in cui si erano baciati per la prima volta, anche quella sera Giovanni voleva evitare un grosso errore a entrambi.

“No.” le disse, con gentilezza, ma con decisione, facendo un passo indietro.

Siccome la donna gli si riavvicinò all'istante, dandogli un paio di baci che sapevano di vino e lacrime, il Popolano si impose di fare il cuore duro e la scansò con decisione.

“Non ti voglio così.” dichiarò: “Non sarebbe giusto. Per nessuno di noi due.”

“Lascia perdere quello che sarebbe giusto...” ribatté la moglie, quasi con rabbia: “Ti voglio e basta.”

“Ho detto di no.” decretò con voce tonante il Popolano, spostando con un colpo dell'avambraccio la mano della moglie che stava correndo ai suoi riccioli castani.

“Va bene.” si irritò Caterina, ricambiando il colpo con uno spintone: “Allora vado a cercarmi qualcuno che si faccia meno problemi di quelli ti fai tu.”

Mentre la Contessa già andava alla porta, Giovanni provò a fermarla: “No, non lo faresti mai... Tu non mi tradiresti...”

“Mi credi una donna migliore di quella che sono.” fece la Tigre, dando voce a una delle croci che sentiva di portare sulle spalle.

“E allora va...” si arrese il Popolano, voltandosi e incrociando le braccia sul petto nudo: “Sei libera di fare come vuoi. Se a te non interessa, non so che altro fare per fermarti.”

Una mano sulla maniglia, Caterina si sentì una vigliacca. Non aveva pensato nemmeno per un istante a far seguire dei fatti alle minacce. Si era aspettata, dicendo così, di vedere il marito cedere alle sue richieste, pur di impedirle di fare qualche avventatezza.

Lasciò scivolare via le dita una per una dal legno e poi, con un sospiro, mentre il vino che aveva in corpo le dava la sensazione che tutta la stanza attorno a lei navigasse in un mare in burrasca, si spogliò, facendo scivolare le vesti in terra.

Nuda e indifesa, passando davanti a Giovanni ostentando per lui disinteresse, andò a coricarsi sotto il lenzuolo, avendo cura di coprirsi fino al mento e mettendosi sul fianco.

Siccome la moglie fingeva di essere già addormentata, il Medici, stanco e rassegnato a non poterla capire fino in fondo, spense le candele di tutta la camera e poi, con movimenti lenti e silenziosi, si mise accanto a lei.

Avvertiva il suo calore sotto la coperta e, appena si azzardava ad allungare un po' la mano, sentiva la sua pelle liscia contro la punta delle dita.

Chiuse gli occhi, ricacciando in fondo all'anima il desiderio, la forza più stringente che lo legava a sua moglie, e, sperando di non scatenare altri pandemoni, si sistemò vicino a lei, cingendola con le braccia, il petto contro la sua schiena liscia.

Caterina accolse quel calore quasi con commozione. Sapeva di aver sbagliato tutto, quel giorno, e di aver commesso molti errori anche prima. La dolcezza e la tenerezza che suo marito le stava offrendo erano per lei un unguento lenitivo che andava a smorzare il bruciore di tutte le sue ferite.

“Perché fai così?” chiese Giovanni, dopo aver lasciato passare un bel po' di tempo, sperando che fosse bastato alla moglie per riprendersi il minimo indispensabile per rispondergli in modo coerente.

“Perchè mi manca Giacomo.” rispose la donna, senza porsi veti.

Avvertì una spiacevole e involontaria contrazione nelle braccia del Medici, che però l'uomo mascherò stringendola a sé con più forza.

“Lo so.” le sussurrò nell'orecchio e poi, forse perso nei suoi pensieri, o forse vinto dalla stanchezza, non le disse più niente e anche la Leonessa trovò la pace, abbandonandosi a un sonno che per una volta fu completamente sordo e privo di sogni.

   
 
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