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Autore: Adeia Di Elferas    13/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Arrivato il mattino, Caterina si era svegliata con un forte mal di testa e la pelle intirizzita. Benché fosse giugno, faceva abbastanza fresco e lei era rimasta scoperta, la pelle nuda che non poteva beneficiare nemmeno del contatto con quella del marito, visto che Giovanni non c'era.

La Contessa aveva ricordi confusi del giorno addietro e l'unica cosa di cui era certa era di aver detto e fatto cose che avrebbe fatto meglio ad evitare.

Chiedendosi con una certa angoscia se il fiorentino non avesse lasciato la loro stanza proprio per colpa di qualcuna di quelle cose, la donna si vestì in fretta, sforzandosi di ignorare il pulsante picchio che aveva nel cervello, e lo cercò.

Tirò un sospiro di sollievo quando lo trovò, nella luce tenue del mattino, nella camera di Ludovico, con il loro piccolo in braccio.

Giovanni la guardò entrare e, dopo un solo istante di esitazione, le riservò un ampio sorriso e le disse: “Guarda com'è bello nostro figlio...”

La Tigre, rincuorata dalla pacatezza con cui il marito le aveva parlato, si sistemò sulla poltrona, vicino a lui e a Ludovico, e attese in loro compagnia che le passasse il dolore alla testa e anche il bruciore alla bocca dello stomaco.

Vedere il marito tanto affettuoso con Ludovico le scaldava il cuore più di qualunque altra cosa. Era una vera gioia, saperlo così innamorato del piccolo e la certezza che il bambino potesse contare su una figura paterna tanto positiva riusciva a tacitare in parte le ansie della Tigre.

“Tienilo un po' tu...” le disse a un certo punto Giovanni, facendole segno di prendere Ludovico.

La Sforza fece come le era stato chiesto, ma una piccola spina le si rigirò nel cuore, quando capì che la richiesta del marito era arrivata soprattutto per la sua difficoltà fisica nel tenere quella posizione fissa.

“Stai bene?” gli chiese, mentre l'uomo si alzava e cercava di risvegliare un po' le sue articolazioni doloranti.

Il fiorentino non aveva risposto subito. Mentre Ludovico attirava l'attenzione della madre appoggiandole le piccole dita sul volto, il Medici prendeva tempo, per evitare che dalle labbra gli uscisse un tono troppo amaro.

“Quando sto con voi, sto bene.” sussurrò alla fine, ritornando verso la moglie e il figlio e aprendosi in un sorriso che, però, aveva solo l'ombra dell'allegria innata che aveva solo qualche mese addietro

Fino a sera, pur restando insieme per tutto il tempo, né la Sforza né il Medici fecero accenno a quello che era successo il giorno prima.

Nemmeno dopo aver incontrato Ottaviano in uno dei corridoi, mentre loro due erano su una della panche a leggere assieme un libro, avevano osato ripercorrere la mezza discussione che aveva rischiato di far fare a entrambi dei grossi errori.

Tanto la Contessa quanto il Popolano avevano sollevato lo sguardo verso il giovane Riario. Questi era parso incerto se fare un cenno di saluto o meno e, dopo quella brevissima parentesi di imbarazzo, aveva riabbassato la testa ed era andato dritto per la sua strada senza nemmeno provare a parlare.

Solo dopo cena, quando si trovarono di nuovo da soli e al sicuro della loro camera, Caterina provò a tastare il terreno per vedere se fosse cedevole o meno.

Dopo la giornata passata, fondamentalmente, a riprendersi dagli eccessi del dì precedente, la donna si sentiva molto meglio e, passato anche il cerchio alla testa, si sentiva pronta ad affrontare anche un altro strascico della sera prima.

Si propose al marito, ma senza aggressività o fretta. Quando lui la guardò in un modo che alla donna piacque poco – quasi con sospetto – capì che quello che gli aveva detto la sera prima doveva averlo ferito più di quanto non volesse mostrare.

“Adesso sono sobria.” gli sussurrò, sperando che bastasse a farlo capitolare: “Non mi va bene uno qualsiasi, io voglio te.”

La chiara allusione alla minaccia fatta la sera prima dalla Leonessa – ovvero di andarsi a cercare un uomo più disponibile del marito – mise addosso una strana irrequietezza a Giovanni.

Siccome la donna non sembrava intenzionata a desistere, il fiorentino sospirò e, vinto più dal proprio desiderio che dalle parole della moglie, preferì fare quello che lei voleva, cercando, comunque, di tenerla sempre presenta a se stessa e a loro due.

“Però stasera – le disse, cercandone le iridi accese che rilucevano alle fiammelle delle candele, mentre Caterina, felice per quella vittoria, gli passava trionfale una mano sul petto – ci siamo solo noi due. Giacomo lascialo fuori da questa stanza. Ti prego.”

A quella richiesta, tanto accorata quanto visibilmente sofferta, la Contessa chiuse un momento gli occhi e poi, mordendosi un labbro, annuì: “Ci siamo solo noi. Te lo prometto.” e fece seguire alla dichiarazione un bacio che al Medici bastò come garanzia di buon proposito.

Tuttavia, mentre, spogliandola, la faceva avvicinare al letto, ribadì ancora una volta, non temendo di eccedere con la chiarezza: “Solo noi due. Sono io, tuo marito.”

Caterina non diede mostra di essere infastidita dalla perentorietà con cui, senza volerlo davvero, Giovanni si era espresso.

Giacomo era ovunque, e il Medici se ne struggeva molto più di quanto volesse farle credere. Non appena si usciva da quella stanza, lo spettro del Barone Feo era dappertutto. Giovanni non poteva sperare di vincere. Bastava guardarsi attorno e l'essenza del Governatore Generale, dell'uomo che era stato capace di far perdere la lucidità – e per poco anche lo Stato – alla Contessa era veramente dappertutto. C'era la sua stata, davanti alla rocca. C'era il Paradiso, dalle porte chiuse, ma era comunque lì a ricordare al Popolano un passato che conosceva solo per sentito dire. E poi c'era Bernardino.

Così l'uomo, che non voleva che Giacomo si mettesse di nuovo tra loro, almeno quando erano nel loro nido, fece del suo meglio, malgrado tutto, per aiutare la sua amata Caterina a dimenticare il suo grande amore e pensare solo ed esclusivamente a lui almeno per qualche ora.

 

Antonio Maria Ordelaffi guardò il suo informatore con espressione grave. Venezia gli stava mettendo fretta, ma lui voleva fare le cose al meglio.

Dopo che il suo appoggio a Forlì era stato scoperto quasi all'istante e messo a morte, l'esule temeva che la Tigre e suo figlio fossero al corrente di ogni sua mossa. Non si sarebbe, dunque, azzardato a raggiungere Ravenna fino a che non fosse stato certo che Ottaviano Riario aveva lasciato Forlì.

Anche se tutti dicevano che era solo sua madre, a reggere le sorti dello Stato, all'Ordelaffi pareva chiaro che non fosse così.

Aveva conosciuto la Sforza e se quella donna si fidava a lasciare andare il primogenito in Toscana con al seguito buona parte dell'esercito, significava che ormai anche l'erede di Girolamo aveva un certo spessore politico.

Almeno, con lui lontano, avrebbe dovuto guardarsi le spalle da una vipera sola.

“Domani...” disse tra sé l'uomo, valutando come l'indomani sarebbe già stato il 21 giugno: “Se l'è presa comoda.”

Il suo informatore non commentò e attese di essere congedato. Quando decise di non aver altro da chiedergli, il suo padrone lo fece allontanare con un cenno della mano e si recò dal suo luogotenente.

L'appannaggio che Venezia gli aveva concesso era ridicolo. Poteva contare – gli avevano assicurato alla corte del Doge – sull'appoggio pressoché incondizionato di Pandolfo Malatesta, ma nessuno si era preso il disturbo di dirgli per tempo che il signore di Rimini era ancora al nord, a trafficare chissà cosa con Guidobaldo da Montefeltro.

Antonio Maria, arrivato dal luogotenente, ostentò una sicurezza che non aveva, nel dire: “Fate preparare a dovere la mia armatura. Ci mettiamo in marcia domattina e entro sera entreremo a Ravenna come liberatori.”

“E da lì partiremo alla conquista di Forlì?” chiese l'altro, dal forte accento veneziano, ormai stufo marcio di quel pomposo romagnolo che Barbarigo gli aveva ordinato di tenere d'occhio.

L'Ordelaffi deglutì, si sistemò una ciocca di capelli che gli erano scivolati sul viso e poi, con la bocca un po' secca assicurò: “Certamente.”

Il luogotenente parve soddisfatto e lasciò subito il suo comandante per andare a riferire agli altri.

Rimasto solo, Antonio Maria guardò il piccolo campo che avevano montato per la sosta. Non si sentiva un uomo adatto a quel genere di vita.

'Quella stupida donna – pensò, mentre a passi stentati tornava al suo padiglione, stando attento a non pestare lo sporco dei cavalli che pareva essere ovunque – se mi avesse sposato quando era ora, adesso io non sarei qui e lei non starebbe per perdere tutto...'

 

La colonna di soldati che avrebbe scortato Ottaviano fino a Firenze e da lì a Pisa si stava preparando.

L'intera città era pronta ad accorrere, per vedere il figlio della Contessa partire per la guerra. Non era stati pochi, gli scettici, fino a quel momento. Sapere che alla fine il Riario sarebbe davvero partito aveva sorpreso un bel numero di persone.

Giovanni aveva deciso di partecipare al corteo in abiti civili, senza portare addosso armi, a parte una spada. Caterina, invece, anche su consiglio di Luffo Numai, aveva preferito indossare l'armatura da parata, con tanto di elmo. Voleva essere certa che, tanto nelle cronache, quanto sulla bocca dei suoi sudditi, si dicesse che era lei a mandare il figlio e a volerlo in guerra e nessun altro.

Per alcun motivo si doveva pensare che la partecipazione di Ottaviano al conflitto fosse frutto dell'imposizione di qualcun altro che non fosse lei.

Si trattava di una sottigliezza, almeno secondo il Capitano Mongardini e qualche altro uomo di fiducia della Tigre, ma per la Sforza assumeva un'importanza capitale.

Mancava poco all'inizio della cerimonia – perché come tale era stata preparata – ma il Medici, che aveva aiutato la moglie a iniziare a vestirsi, dando man forte al maestro d'armi e a un paio di scudieri, si era reso conto che di Ottaviano non si vedeva nemmeno l'ombra.

Con discrezione, approfittando di un momento di distrazione di Caterina, Giovanni era andato a cercarlo, per trovarlo poco lontano dal cortile di addestramento, nel vano delle scale.

Era già pronto, con addosso l'armatura leggera e le armi si fianchi, tuttavia il suo volto era intontito, spento, come se non sapesse gestire quello che gli stava capitando.

“Vi stanno aspettando.” gli disse il Medici, provando una grande pena per quel giovane uomo.

Avrebbe avuto un fisico invidiabile: era alto, longilineo e si vedeva che i suoi muscoli, ben addestrati, avrebbero potuto diventare molto forti.

E invece era ingobbito, flaccido, senza alcun tratto che ricordasse la fierezza della madre.

Il Medici, che pur rifuggiva sempre e con tutto se stesso sentimenti di rancore e invidia, non poteva non sentire un crampo allo stomaco, nel pensare a che spreco fosse, un corpo del genere, capace, se ben seguito, di essere un portento della natura, donato a uno come Ottaviano Riario, che sembrava non avere altro scopo se non distruggersi.

Giovanni era cosciente come non mai del dolore continuo e oppressivo che le sue articolazioni usavano per torturarlo, si rendeva conto che la sua postura non era più quella di una volta, e non c'era attimo in cui non temesse di perdere del tutto ogni autonomia.

Fare il paragone tra sé e il giovane figliastro era una crudeltà.

Quasi per ripicca, avrebbe voluto mettersi a sgridarlo per quello che combinava, per i figli – uno almeno quasi per certo – che aveva senza nemmeno curarsene, per i dolori che aveva inflitto a Caterina, ma poi, chiudendo un istante gli occhi, si impose di lasciar voce al buon senso.

Il Riario non diceva nulla, guardando vuotamente il suo interlocutore e aspettando. Il Popolano, che voleva evitare a tutti i costi qualche incidente tra Ottaviano e la madre, si sforzò si spostarlo di peso.

Con le mani guantate e indolenzite, lo prese per le spalle e provò a portarlo all'esterno, ma senza successo.

“Lo so che avete paura.” provò allora a dire il fiorentino, temendo che da un momento all'altro qualcun altro si sarebbe accorto dell'assenza del Riario e sarebbe andato a cercarlo: “Ma è normale, averne. Però voi sarete protetto. Vostra madre fa partire assieme a voi una schiera di soldati che ha scelto personalmente perché validi e capaci di guardarvi le spalle e...”

“Mia madre vorrebbe che io ci morissi, in guerra.” disse con un filo di voce Ottaviano, gli occhi un po' accecati dal sole cocente che filtrava fino a lì dall'ultima finestra.

“Non lo sa nemmeno lei, cosa vorrebbe.” tagliò corto l'ambasciatore, tentando di imporsi di più sul figliastro: “Avanti, cammina. Non puoi tirarti indietro. Hai l'occasione per dimostrarle che vali qualcosa.”

Il giovane, a cui non era sfuggito il passaggio dal 'voi' al 'tu', come sconfitto, si lasciò infine spintonare fin fuori e seguì il fiorentino senza fare altre storie.

“E se dovessi avere dei problemi – precisò Giovanni, mentre già poteva vedere la moglie in lontananza, bardata di tutto punto e con l'elmo sotto al braccio – sappi che il mio nome a Firenze vale ancora qualcosa. Se avrai bisogno, io non ti volterò le spalle.”

Gli occhi castani del ragazzo saettarono verso il viso del fiorentino che, a conferma di quanto detto, ricambiò con uno sguardo sicuro e deciso.

Il Riario avrebbe voluto ringraziarlo, perché quella mano tesa per lui in quel momento significava tutto, ma sua madre li aveva visti e gli stava andando incontro.

“Mi raccomando – concluse il Medici, in un rapido bisbiglio – non farti ammazzare.”

La Sforza guardava con un'espressione difficile da interpretare il marito e il figlio che avanzavano verso di lei. Le sue labbra erano chiuse a formare una linea sottile e Giovanni era quasi certo che fosse sul punto di dire qualcosa di cui si sarebbe pentita.

Come cogliendo la sua silente richiesta di moderarsi, Caterina si indirizzò a lui: “Dov'eravate? Oh, non importa.” la voce era piatta, ma lasciava intravedere un velo di inquietudine, soprattutto quando si rivolse al figlio: “Avanti. Prendi il tuo cavallo. Tra poco ci mettiamo in marcia. Facciamo iniziare questa farsa.”

Mentre Ottaviano andava verso le scuderie e Giovanni prendeva le redini dell'arabo, animale meraviglioso e dalla criniera lucente, che gli era stato scelto dalla moglie per quell'evento, la Tigre si rivolse a uno dei Capitani che stavano per partire con il figlio: “Mi raccomando, non fate nulla senza il mio espresso consenso. Se non ci fosse tempo di chiedere a me, domandate a Lorenzo Medici. Altrimenti, do a voi l'autorità di campo, se si dovesse trattare di questioni immediate. Non lasciate che Ottaviano decida nulla da solo.”

Il Medici aveva sentito, ma fece finta di nulla, ringraziando lo scudiero e montando in sella.

Quando il corteo uscì da Ravaldino, sotto il sole accecante di quel 21 giugno, la Contessa era in testa ai suoi soldati. La sua armatura intarsiata splendeva sotto il cielo terso e i suoi occhi guardavano l'orizzonte con decisione.

La seguivano, appaiati, Giovanni, che cercava di quando in quando lo sguardo della folla, mostrando il viso disteso, ma senza troppi sorrisi – come si conveniva all'occasione – e Ottaviano, armato e bardato di tutto punto, ma pallido in viso come se fosse stato un condannato portato al patibolo.

I tamburi da guerra accompagnavano la sfilata e altrettanto facevano le urla e gli applausi della folla che, malgrado fosse il giovane Riario il vero protagonista dell'azione, non smetteva un momento di invocare con veemenza il nome della Sforza, alternando il grido con un ritmato e sonoro: “Tigre! Tigre! Tigre!”.

Quando gli armigeri passarono davanti alla barberia del Novacula, l'uomo si passò una mano sulla fronte, fermandola poi a coppa sugli occhi, per ripararsi dal sole e vedere meglio. Non voleva perdersi un momento di quell'evento che avrebbe dovuto riportare nelle sue cronache.

Notò, prima di tutto, gli stemmi portati dagli alfieri. Due personali della Leonessa, con la vipera, uno degli Sforza Riario e anche uno, più piccolo e defilato, con le palle medicee.

I suoi occhi allora corsero proprio al Medici che, in quel momento, stava facendo un cenno del capo ad alcuni forlivesi appostati dall'altra parte della strada, in segno di saluto. Bernardi, per quanto non si volesse sentire malfidente, non riusciva a togliersi dalla testa che se la sua signora si stava buttando a capofitto in quella guerra, era solo per colpa del fiorentino.

Era quell'uomo, nascosto da sorriso e parole ben ponderate, che le faceva fare quel che voleva. Era senz'ombra di dubbio così. Altrimenti la Tigre non sarebbe mai stata disposta a ingaggiare a quel modo uno scontro con Venezia, non dopo aver invocato la pace per così tanto tempo e con così tanta fatica.

Per un istante appena, poco prima che arrivasse a dargli le spalle, passando oltre nella via, la Contessa incrociò lo sguardo del barbiere, per distoglierlo immediatamente.

Malgrado il maestoso incedere di tutti quei cavalli da guerra e il roboante accompagnamento dei tamburi, secondo il Novacula gli occhi della sua signora, quasi coperti dal bordo dell'elmo, lasciavano trasparire solo una grande e profonda incertezza.

La stessa paura e confusione che, celate peggio, stavano distorcendo anche il volto di Ottaviano Riario che, giusto alle spalle della madre, dava più l'impressione di essere sul punto di dare di stomaco, piuttosto che di partire per una vittoriosa campagna militare.

 

“E così il mio figlioccio è partito davvero...” disse piano Alessandro VI, la voce tanto bassa che il figlio Cesare fece quasi fatica a sentirlo.

Il papa aveva voluto vederlo per discutere di alcuni affari 'di famiglia', ma di fatto fino a quel momento non aveva detto altro che chiacchiere insulse, facendogli solo perdere tempo.

“Appunto – prese la palla al balzo il Borja più giovane, sperando a quel modo di sbloccare la situazione e capire perché mai suo padre lo avesse voluto in quello studiolo a quell'ora di sera – è partito assieme a una buona parte dei più esperti soldati della madre. È il momento di attaccare Forlì!”

“Ma cosa vuoi attaccare, tu!” sbottò il Santo Padre, alzando entrambe la mani aperte, in segno di insofferenza.

Lui per primo non capiva perché ci stava mettendo tanto a toccare l'argomento che l'aveva portato a chiedere così improvvisamente la presenza del figlio. Però, più guardava il profilo di Cesare, reso un po' irregolare dai segni del francese, il modo irruento e senza posa con cui continuava a spostarsi da un angolo all'altro della stanza, l'ansia che permeava da ogni suo poro, più si frenava.

Si rivedeva in suo figlio più di quanto non volesse. Anche lui, alla sua età, sentiva in corpo tanta voracità da poter mangiare il mondo intero. Però aveva saputo incanalare la sua smania di vivere e la sua sconfinata ambizione in una precisa direzione. Cesare, invece, sembrava un cane sciolto, capace di lasciarsi andare a qualsiasi cosa, pur di placarsi per qualche istante.

Il papa, invece, cominciava a sentirsi stanco. Pieno di idee e di coraggio, quello sempre, un toro, come lo stemma della sua famiglia prometteva, ma un toro ormai di una certa età. Avrebbe volentieri assecondato la volontà sanguinaria del figlio, se solo avesse avuto qualche anno in meno, ma ormai aveva capito che il potere si tiene tanto con la spada, tanto con le parole e che prima è meglio provare con queste ultima che con la prima.

Mentre cercava di calmarsi giocherellando con un tagliacarte che aveva sulla scrivania, Rodrigo si distrasse, pensando a un piccolo soprammobile che aveva avuto lì fino al giorno prima, ma che adesso non c'era più: “Ma dove l'avrò appoggiato...” borbottò tra sé, rammaricandosi per i piccoli vuoti di memoria che ormai lo perseguitavano.

“Vi prego, padre – disse alla fine Cesare, che, in piedi e con una mano appoggiata al fianco, non la smetteva un momento di misurare a grandi passi lo studiolo – ditemi che volete. Ho degli impegni, stasera.”

Alessandro VI sollevò gli occhi rapaci verso di lui, il grande naso che vibrava: “Impegni. È così che si chiama, adesso, l'andare per bordelli?!”

Il giovane Borja, avvertendo di nuovo il polso fermo che il padre aveva sempre avuto nei suoi confronti, si zittì e abbassò un po' il capo.

“Giovanni...” soffiò alla fine il Santo Padre, capendo che non poteva più rimandare oltre, se non voleva finire a litigare con il figlio per qualche inezia: “Va protetto. Non potrà restare dalle suore per tutta la vita. Qualcuno deve riconoscerlo e dargli la protezione di un cognome importante.”

Cesare sudò freddo. Incrociò le braccia sul petto e prese fiato. Nella gola, il pomo d'Adamo saliva e scendeva a ogni tentativo di parlare, ma alla fine restò in silenzio.

“Possiamo forse aspettare ancora un po', ma...” riprese Rodrigo, levandosi la papalina con un gesto demotivato: “Non possiamo nemmeno pretendere che Lucrecia lo porti con sé e chieda al nuovo marito di riconoscerlo... E poi ci sarebbe la storia del processo e qualcuno potrebbe avere qualcosa da ridire sulla veridicità delle accuse fatte allo Sforza...”

“Comunque, sia chiaro che io non sono d'accordo sulla scelta di Alfonso d'Aragona come marito per mia sorella.” fece debolmente Cesare, tanto per non darla del tutto vinta al padre.

“Non sei d'accordo...” scosse il capo l'altro: “Come se avessimo molta scelta. Ringrazia che Alfonso è il fratello di Sancha e che porta sangue reale in famiglia!”

In effetti, dopo il prevedibile fallimento dei piani di matrimonio con Ottaviano Riario, la scelta era stata abbastanza obbligata ed era ricaduta sul figlio maschio di Alfonso II di Napoli e Trogia Gazzella, fratello a tutti gli effetti di Sancha d'Aragona.

“Appunto perchè è il fratello di mia cognata che non...” prese a dire Cesare, ma il papa era seriamente stanco delle sue recriminazioni.

Alzando perentorio la mano su cui spiccava l'anello piscatorio, il papa lo zittì: “Solo perché Sancha passava dal letto di tuo fratello al tuo – si guardò bene dal citare anche solo di sfuggita Juan e i suoi ben noti trascorsi con la cognata – non significa che Alfonso non possa essere un buon marito per Lucrecia. E poi ci serve disperatamente qualcuno che la possa proteggere...”

Il Borja più giovane fece un sospiro profondo, per evitarsi di ribattere a tono. Voleva dire al padre che a proteggere Lucrecia bastava e avanzava lui e che, se gli avesse dato un esercito, sarebbe partito subito e sarebbe riuscito laddove Juan aveva fallito.

Invece, ciò che il padre gli disse poco dopo, spense in lui ogni velleità, almeno per quella sera: “Ma adesso non pensiamo a questo... Pensiamo al figlio di Lucrecia. O tu o io. Uno di noi due alla fine dovrà prendersi questa immensa responsabilità sulle spalle e compromettersi. Non possiamo accettare che il sangue del nostro sangue sia in pericolo solo per evitare uno scandalo. Sia come sia, è un Borja, e come tale noi Borja dobbiamo proteggerlo. Lucrecia non può farlo da sola, dunque spetta a noi. Pensaci. E fammi sapere al più presto cos'hai deciso.” e con quell'ultima lapidaria frase, il pontefice indicò la porta al figlio.

Cesare, sopraffatto da quell'eventualità e dall'ennesima ondata di scandalo e scalpore che li avrebbe travolti, andò verso l'uscita, ma, appena prima di abbassare la maniglia, trovò il coraggio di chiedere: “Quanto possiamo aspettare..?”

Rodrigo parve pensarci e rispose: “Le suore lo terranno con loro per certo non più di due o tre anni, ma per allora la bolla di riconoscimento dovrà essere già pronta. Non possiamo rischiare.”

   
 
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