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Autore: Adeia Di Elferas    14/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il carceriere diede uno strattone ad Achille che, impostosi ormai da tempo di non attaccar briga con i nemici che lo tenevano prigioniero, subì in silenzio.

I veneziani si stavano dimostrando guardie molto più attente e inflessibili di quello che avrebbe creduto. Quando erano stati catturati, lui e gli altri, dopo la battaglia, Ludovico da Marciano gli aveva detto, con tono troppo ottimistico, che essendo loro ostaggi illustri, sarebbero stati trattati come ospiti e non come carcerati.

Peccato che si stesse sbagliando di grosso.

“E la tua signora non muove un dito per liberarti – insistette la guardia, richiudendo la porta della cella e parlando attraverso la piccola feritoia, unico spiraglio di comunicazione con l'esterno – ci farai la muffa, qui dentro.”

Tiberti avvertì un silenzio tombale, tra i suoi compagni di sventure. Erano una decina, stipati in un'unica stanzetta angusta e umida e a volte facevano anche fatica a dormire, per quanto erano accalcati. Spesso si trovavano costretti a fare i turni per decidere chi si poteva coricare e chi doveva starsene in piedi.

“Taci!” ribatté Achille, anche a costo di prendersi qualche botta: “Non sai di che parli! La Tigre di Forlì sta preparando l'esercito e vi ammazzerà tutti! Uno a uno!”

La risata che accolse la sua invettiva fece scendere un blocco di ghiaccio nel petto del Capitano Tiberti. In fondo, anche lui ormai si era convinto che la Sforza non stesse minimamente cercando di trattare la sua liberazione.

C'erano altri, tra quelli presi con lui, come Ceccotto Orlandi o Chiriaco della Vecchia che erano riusciti anche a sapere che Firenze stava trattando per la loro liberazione. Gente come Chiriaco dal Borgo, poi, era riuscita a liberarsi già al momento della cattura.

Solo per Achille nessuno pareva intenzionato a fare nulla. Forse, si diceva, quando scendeva la sera e il suo cuore si riempiva di oscurità, la Tigre aveva infine deciso di fargli pagare definitivamente il suo debito immolandolo a quel modo. Almeno, nella spietata logica della politica, anche lei avrebbe avuto un morto importante da poter far pesare sul tavolo della pace.

“Avanti Tiberti...” lo consolò Giannotto Francese, dandogli un colpetto tra le scapole: “Siamo tutti nelle stesse condizioni, ci vuole pazienza e restare vivi. Che il resto verrà da sé.”

Gli altri prigionieri, stanchi e affamati come sempre, non commentarono, dandogli tacitamente ragione.

Tuttavia, appena l'animo di Achille cominciava ad adagiarsi su quell'idea di speranza, un paio di soldati arrivarono alla porta della cella e uno di loro gridò: “Francese! Francese!”

Questi, facendosi largo nell'oscurità della cella, arrivò all'uscio e chiese: “Sì?”

“Sei libero.” piegò una delle guardie, aprendo e facendo uscire solo Giannotto, respingendo quelli che, malgrado l'inutilità del gesto, premevano nella speranza di riuscire a sgattaiolare fuori: “Hanno pagato il tuo riscatto. C'è un emissario di Firenze che ti aspetta.”

Veder andar via anche quel commilitone fece scendere in quelli rimasti un'angoscia difficile da domare. Se da un lato quello stillicidio faceva sperare a tanti di essere il prossimo a lasciare quella prigione, per altri, come Achille, era solo la consapevolezza di vedere gli altri tornare in salvo e restare pian piano da soli ad affrontare un triste destino.

 

Bianca passò una mano sulla stoffa che il mercante le aveva appena srotolato davanti. Ne cercava una abbastanza bella, ma anche economica.

Avrebbe potuto benissimo chiedere alla madre di comprarle dei tessuti tramite il sarto di corte, ma oltre a non volerla disturbare con quel genere di cose, non voleva nemmeno gravare sulle sue tasche.

Preferiva di gran lunga andarsene al mercato, come stava facendo quel giorno, e scegliere di persona quel che acquistava, usando il denaro che le era concesso per le sue spese personali. Se suo fratello Ottaviano preferiva spendere i suoi soldi con le donne e Galeazzo in pugnali e altre piccole armi, Bianca aveva da tempo l'abitudine di investirli in stoffe e filo, in modo da avere sempre materiale nuovo su cui esercitarsi.

Quella volta in particolare aveva in mente di fare qualcosa per suo fratello Ludovico. Stava crescendo molto in fretta e gli servivano continuamente ricambi. La giovane Riario voleva ricamargli qualcosa che potesse restargli per un po' di tempo, ma non aveva ancora deciso bene che tipo di capo preparargli.

Il sole di fine giugno era caldissimo. Ottaviano era partito da un paio di giorni e Forlì stava vivendo un momento di trepidante attesa. Tutti quanti si aspettavano notizie dal fronte, soprattutto per sapere se lo Stato della Sforza sarebbe stato travolto o meno dalla guerra.

“L'avete solo di questo colore?” chiese Bianca, indicando il tessuto che le era stato mostrato.

Il mercante assicurò di averne di ogni tipo e cominciò a tirar fuori i campioni per farla scegliere, quando la figlia della Contessa sentì delle voci che attirarono inconsciamente la sua attenzione.

Aveva sentito di sfuggita nominare la rocca di Ravaldino e dunque era quasi certa che il capannello di donne che aveva alle spalle – che evidentemente non l'avevano riconosciuta anche grazie al velo che portava sulla testa per ripararsi dal sole – stesse sparlando della sua famiglia.

“Se lo tiene buono solo perché è ricco. Avete visto quanti gioielli si porta addosso adesso? Glieli ha presi tutti lui, di sicuro.” stava dicendo una: “E anche quelle migliorie alla rocca... Ci sta vendendo a Firenze.”

Bianca deglutì in silenzio, fingendosi assorta nella contemplazione delle stoffe, tanto che il mercante, convinto che fosse molto indecisa, la lasciò un momento al suo destino, dedicandosi a un altro acquirente che si era avvicinato al banco.

“Ma credete che abbia anche altri uomini anche adesso?” chiese una delle altre, a voce un po' più bassa: “Dicevano quel Capitano che adesso è prigioniero...”

“Ma dove lo trova il tempo per altri uomini?” rise una terza: “Sta sempre con quel Medici...”

“Chiamala stupida.” ribatté la prima che aveva parlato, con un tono che non ammetteva repliche.

“Certo che quello andrebbe meglio per sua figlia che non per lei.” commentò l'altra, facendo correre un brivido sulla schiena di Bianca, che non credeva che sarebbero arrivate a parlare anche di lei: “La Tigre e lui avranno quasi la stessa età, ma quel fiorentino andrebbe meglio per madonna Bianca che per la Contessa.”

“Sanno tutti che la Contessa ha un debole per la carne fresca...” controbatté quella che prima aveva riso: “E di certo sua figlia è come lei. A un trentenne preferirà un giovanotto con dieci anni in meno, credete a me!”

“Ma dite che Manfredi non la vuole perchè..?” insinuò una che fino a quel momento era stata in silenzio.

La mano di Bianca, che stava saggiando per la decima volta uno scampolo di colore rosso acceso, si fermò un istante, per poi riprendere subito a muoversi lenta, non appena notò lo sguardo interrogativo del marcante.

“Quella è la figlia della Tigre, no? La mela non cade mai lontana dall'albero.” decretò quella che pareva la più saccente del gruppo: “E poi la vedono tutti, no? È così disinvolta, con gli uomini... E come li sfiora e ci ride, quando parla con loro... E poi... Finché era una bambina, ci si poteva anche credere, ma adesso chi può pensare che passi tutte quelle sere coi soldati solo per giocare ai dadi?”

La Riario indicò frettolosamente la stoffa rossa che aveva affettatamente accarezzato fino a quel momento e mentre il mercante le consegnava il pacchetto, gli lasciò qualche moneta, senza nemmeno perdere tempo a cercare di ottenere un buon prezzo.

Stando attenta a non farsi vedere in viso da quelle donne che stavano già parlando di altro, la giovane strinse al petto il tessuto rosso che aveva appena acquistato e, a passo svelto, attraversò le strade polverose e piene di odori della sua città e tornò alla rocca.

Mentre raggiungeva la sua stanza, gli occhi fissi davanti a sé e il pacco ancora stretto tra le braccia, incrociò sua madre, che stava camminando nel corridoio assieme al Capitano Rossetti, discutendo della guerra tra Firenze e Venezia.

“Bianca, che hai? Stai bene?” le chiese la Contessa, arrivando perfino a fermarla trattenendola per una spalla.

Il fatto che sua madre fosse arrivata a tanto, lasciò intendere a Bianca quanto il suo viso dovesse apparire sconvolto.

“Solo il caldo, madre. Grazie, comunque.” rispose, evasiva e con un filo di voce appena.

Caterina la guardò ancora per qualche istante, senza lasciarla andare, ma poi capì che la figlia non le avrebbe detto altro e che Rossetti attendeva impaziente di proseguire il discorso così, togliendole la mano dalla spalla, le disse solo: “Vai a riposare, allora.”

La Riario fece cenno di sì con il capo e poi, quasi di corsa, andò svelta in camera e, abbandonandosi sul letto, si lasciò consumare per un paio d'ore da un insieme sconclusionato di sentimenti che non riusciva né a domare né a capire.

 

Il ventottenne Pietro Bembo guardò divertito l'uomo che aveva davanti, che era più giovane di lui di circa quattro anni, ma sembrava saperne già più di lui in materia di lettere e poesia.

“Il modo in cui parlate di queste canzoni di Petrarca è davvero sorprendente.” gli disse, ritirando un po' delle sue carte dal ripiano e tornando a fissarlo con i suoi occhi interessati, i capelli castani che gli incorniciavano il viso, creando due morbide onde all'altezza della mandibola.

L'altro, dopo essersi grattato un momento il mento sporgente e ispido di barba scura, sorrise in risposta alla curva che le aggraziate labbra di Bembo avevano disegnato: “Sapete, da quando sono qui a Ferrara mi sto dedicando anima e corpo a queste lettere e credo che non vi sia nulla di più straordinario.”

Pietro annuì, inspirando a fondo l'aria estiva che entrava placida dalla finestra. L'università di Ferrara quel giorno era pressoché deserta, ma il letterato era stato abbastanza fortunato da poter incontrare di nuovo quello studente e discutere con lui di molte cose, e di Petrarca, soprattutto.

“E così, Ludovico – gli disse dopo un po' – avete deciso di chiudere con gli studi di legge.”

“Non sono un uomo fatto per giudicare gli altri.” si schermì Ariosto, sollevando le mani: “Voglio una vita tranquilla. Non sopporterei di passarla a sistemare i litigi degli altri.”

Bembo incrociò le braccia sul petto, mentre le campane in lontananza ricordavano a entrambi che era arrivata l'ora del pranzo: “Dovreste venire con me a Mantova, quando tornerò alla corte della Marchesa Isabella Gonzaga.” decretò.

Ludovico si alzò, lasciando la postazione tranquilla che si erano trovati in una delle aule, e lo seguì fino all'uscita dell'università senza sapere cosa dire.

“Madonna Isabella è una fine conoscitrice della cultura e delle lettere. Vi apprezzerebbe.” insistette Pietro, mentre le strade di Ferrara li accoglievano nel vociare convulso del mezzogiorno.

“Io...” farfugliò Ariosto, chiedendosi se mai quella proposta potesse per lui rappresentare la grande volta, tanto da poter far tacere definitivamente la sua famiglia, che si ostinava a volerlo ricondurre sulla via – a loro dire 'sicura' – della vita di uomo di legge.

“Avanti, venite con me a mangiare qualcosa...” disse gioviale Bembo, appoggiandogli con fare fraterno una mano sulla schiena e sorreggendo la propria cartelletta di cuoio colma di scritti con l'altro braccio: “Abbiamo ancora tante cose da discutere e conosco un'osteria che è davvero eccezionale!”

Lasciandosi guidare in quella città che, immerso com'era nei propri studi, ancora non conosceva bene, Ludovico seguì quello che sentiva già essere un prezioso amico e lasciò che Pietro gli riempisse la testa di meravigliose immagini di Mantova e di Isabella Este, promettendogli, senza la minima incertezza, un futuro radioso e ben speso al servizio delle lettere e della cultura di un'Italia che stava rinascendo dalle proprie ceneri.

 

“Giunto m'à Amor fra belle et crude braccia, che m'ancidono a torto – sussurrava la voce di Giovanni, tranquilla e sottile nella penombra della Casina – et s'io mi doglio, doppia 'l martir...”

Caterina fece un mezzo sospiro, mentre il marito, dopo un piccolo bacio alla sua fronte, andava avanti, ripetendo a memoria i versi di Petrarca: “Onde pur, com'io soglio, il meglio è ch'io mi mora amando, et taccia: ché poria questa il Ren qualor più agghiaccia arder con gli occhi, et rompre ogni aspro scoglio...”

Era pieno pomeriggio e per proteggersi dal sole cocente che filtrava dalla finestra, la Sforza aveva deciso di coprire il vetro con un panno pesante, che permetteva solo a pochi raggi di arrivare a loro, diffondendo per la stanza una luce pacata e leggera che li avvolgeva come un abbraccio.

“Et à sì egual a le bellezze orgoglio, che di piacer altrui par che le spiaccia. Nulla posso levar io per mi' ingegno del bel diamante, ond'ell'à il cor sì duro – con la punta dell'indice e del medio, il Medici accarezzava lentamente la spalla nuda della moglie, sentendo con piacere come a ogni rima la sua donna si stringeva un po' di più a lui – l'altro è d'un marmo che si mova et spiri: ned ella a me per tutto 'l suo disdegno torrà già mai, né per sembiante oscuro, le mie speranze, e i miei dolci sospiri.”

La Tigre allargò la mano sul fianco del Popolano, per poi passarla su tutto il suo profilo, fino a dove arrivava senza doversi spostare. In tutta risposta, l'uomo, che stava assaporando quel momento di pace e ozio che aveva seguito una mattina passata nel bosco e un irruente assalto amoroso della sua donna, fece un sorriso silenzioso e iniziò a pensare a che altra poesia recitare.

Non avevano ancora avuto notizie da Ottaviano, ma, visto il carico di armi che si portava appresso, era plausibile che non fosse ancora arrivato a Firenze.

Quel giorno, di comune accordo, dopo aver passato un po' di tempo con il figlio, la Contessa e il Medici avevano deciso di allontanarsi dalla corte per stare un po' da soli. Senza dirselo, entrambi sapevano che i momenti come quello sarebbero stati sempre più rari e dunque dovevano approfittarne finché potevano.

Caterina aveva incaricato Numai di occuparsi delle questue, tralasciando quelle eventualmente più spinose per quanto fosse tornata lei, e aveva rimandato la riunione dei Consigli al giorno dopo.

“Miser Catulle, desinas ineptire, et quod uides perisse perditum ducas. Fulsere quondam candidi tibi soles, cum uenditabas quo puella ducebat...” la voce di Giovanni tremò per un attimo, mentre, con un movimento abbastanza fluido, benché cercasse di non gravare con il proprio peso sulle sue povere articolazioni, faceva voltare sulla schiena Caterina, facendola scivolare via dal suo petto, mettendosi sopra di lei e, dopo averle dato un profondo bacio, continuò: “Amata nobis quantum amabitur nulla. Ibi illa multa cum iocosa fiebant, quae tu uolebas nec puella nolebat. Fulsere uere candidi tibi soles...”

Il tono del fiorentino, mentre faceva seguire un bacio ad ogni verso, fece vibrare il cuore della Sforza che, con fare fermo, invertì di nuovo le loro posizioni, dicendo: “Basta così.”

Giovanni, il cui viso era una maschera di malinconia, non si oppose e l'accolse di nuovo sul suo petto, annusando il profumo dei suoi lunghi capelli biondi e bianchi che odoravano di sole e selvatico, impregnati del sentore vivo e fresco di quella mattina passata tra il bosco e il letto.

Quella poesia di Catullo, Caterina ne era certa, il fiorentino non l'aveva scelta a caso. Poche ore prima, mentre lo spogliava, la Tigre non aveva potuto evitare di posare lo sguardo sulle sue gambe e poi sulle sue mani.

Anche se lei vedeva oltre quello che la gotta gli stava facendo, anche se il suo desiderio non era intaccato dal declino che il suo corpo stava subendo, non poteva far finta di non essersi accorta di quanto fosse cambiato. Ed entrambi ricordavano molto bene quello che il dottore aveva detto, l'ultima volta che Giovanni era stato preda di un attacco acuto del suo male.

Passando con dolcezza una mano sul profilo un po' spigoloso dell'arco costale del marito, la Leonessa pensò a come sviare il discorso, sperando di strapparlo almeno per un po' all'ombra che rischiava di inghiottirlo.

Faceva caldo, anche nella Casina, ma aver precluso l'ingresso al sole dalla finestra aveva fatto sì che non ci fosse la temperatura scottante che li aveva fatti sudare mentre fingevano di cacciare quella mattina.

Il silenzio era perfetto, perfino il bosco pareva immobile, oltre quei quattro muri e, tacendosi anche Giovanni, restavano solo i loro respiri a scandire il tempo.

I loro corpi, tiepidi e ancora velati da una leggera patina di sudore, si cercavano con delicatezza, accontentandosi di stare vicini, come se in realtà non vi fosse linea di demarcazione tra l'uno e l'altro.

Con la mente che vagava per conto suo, alla fine la Sforza si trovò a dire: “Ho visto Bianca strana, l'altro giorno...”

Il Medici, prendendo fiato e aggrottando un po' la fronte, ribatté, poco convinto: “Credi sia preoccupata per Ottaviano?”

Caterina premette un istante il viso contro il collo del marito e poi con una piccola smorfia scosse appena il capo: “Non lo so, ma non penso sia per quello. Vorrei chiederlo direttamente a lei, ma...”

Il Popolano avrebbe voluto dirle qualcosa, darle qualche consiglio. Però lui stesso si era reso conto di quanto fosse difficile, affrontare Bianca su certi argomenti. Avrebbe anche voluto raccontare alla moglie dello spiacevole episodio di qualche tempo addietro, di quando era arrivato nel posto giusto al momento giusto e aveva levato la figliastra da un bel guaio.

Poi, però, si disse che sarebbe stato troppo complicato e che Caterina si sarebbe di certo arrabbiata con lui per aver preso certe decisioni da solo. E, soprattutto, ci sarebbe stata male nel pensare di non essere stata in grado di fare da scudo in prima persona sua figlia.

“Vorrei solo sapere cosa l'affligge, in modo da poterla proteggere.” spiegò la donna, restando saldamente incollata al fiorentino, come se la sua vicinanza le togliesse di dosso almeno un po' del peso che portava sul cuore.

“Ma tu l'hai già protetta molto.” la incoraggiò l'uomo, sentendo nettamente il tepore della pelle della Tigre scaldarlo sempre di più: “Alla sua età, quante giovani donne sono già mogli e madri di uomini che detestano e figli che non volevano? Tu sei riuscita a evitarglielo. Non è poco.”

“Però vorrei poter fare di più.” rimarcò, senza possibilità d'appello, la Tigre.

Giovanni non sapeva che altro dire per alleviare la sua pena, perciò, dopo qualche istante di silenzio, chiese: “Vuoi rientrare alla rocca?”

“No, non ancora.” fece lei, emergendo dai propri pensieri: “Restiamo qui ancora un po'. Recitami ancora qualche poesia.”

Il Medici sollevò l'angolo delle labbra carnose e, gettando gli occhi chiari al soffitto, fece un sospiro e decise di lasciare le poesie per qualcosa di più impegnativo: “Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta...”

“E il modo ancor m'offende.” intercalò Caterina, che in quei versi si smarriva ogni volta, chiedendosi chi mai avrebbe stretto tra le braccia, una volta scesa all'inferno, tra Giovanni e il suo Giacomo.

 

Lorenzo guardava fuori dalla finestra la gente che passava nella via Larga e non sentì subito le parole della moglie alle sue spalle.

Semiramide stava ricontrollando le ultime cose, prima di dare l'ordine definitivo alle servitù per approntare l'accoglienza a Ottaviano Riario che, secondo il messaggero veloce che era arrivato da loro proprio quella mattina, era a poco più di un giorno di viaggio da Firenze.

“Passare le montagne non è stato facile – aveva spiegato la staffetta, tenendo il viso disteso, ma non riuscendo a nascondere uno strano brillio divertito negli occhi – per via di alcune infermità del Conte, che ci hanno costretti a ridurre il ritmo della marcia.”

A quelle parole, il Medici aveva stretto il morso, già vergognandosi del fatto che suo fratello fosse il patrigno di un simile essere, mentre l'Appiani aveva cercato di riparare l'onta sorridendo e dicendo: “Capita a tutti di avere qualche disavventura di viaggio... L'importante è che adesso stia bene.”

Un gruppetto di giovani stava passando proprio sotto la finestra a cui era affacciato il Popolano e, tra le loro parole, l'uomo colse un chiaro riferimento alla festa di San Giovanni che c'era stata pochi giorni prima.

Lui l'aveva trovata pacchiana e troppo da arruffapopoli, con una girandola macabra su cui erano stati messi maiali e cani e anche un 'gigante', così si era detto, morti. Il porco più grosso, dicevano tutti, rappresentava Savonarola, e il gigante era Francesco Valori, che l'aveva seguito all'inferno.

La crudezza e la violenza degli scherzi della folla, che si era accanita sul corpo della bestia e sul cadavere dello sconosciuto avevano fatto provare un ribrezzo inaudito al Medici, che non aveva mai apprezzato simili brutture.

Tuttavia non si era opposto in alcun modo, conscio del fatto che sacrificare un po' di buongusto in favore di un po' di favore popolare andava solo a suo vantaggio.

“Uno spettacolo difficile da dimenticare...” aveva commentato Machiavelli, quando si erano incrociati in piazza.

Il suo viso da faina era come sempre reso imperscrutabile da un sorrisetto scaltro e senza una reale inflessione. Poteva significare che approvasse quello scempio, come che lo ritenesse tanto inopportuno e sgradevole da essere quasi ridicolo.

Scherno o approvazione: difficile dire quale fosse il reale sentimento di quell'uomo dai capelli sempre spettinati.

“Allora, Lorenzo..?” lo richiamò Semiramide, appoggiando il foglio su cui aveva preso appunti al tavolo.

“Come?” chiese l'uomo, voltandosi appena e guardandola da sopra la spalla.

“Ti ho chiesto se preferisci parlare con lui e gli ospiti prima o dopo la cena.” ripeté la donna, con un velo di preoccupazione per le continue distrazioni del marito.

A volte era come se il suo Lorenzo si chiudesse in un mondo nel quale lei non trovava alcun posto.

Anche se non la rifiutava più in modo categorico, era sempre difficile, per lei, strappargli una notte insieme e, ancor di più, le risultava ostico riuscire a condividere con lui pensieri e opinioni. Quello che era stato il punto forte della loro unione fino a quel momento – ovvero la condivisione spontanea e pressoché totale di ogni cosa – si stava sgretolando davanti ai suoi occhi e lei non sapeva come fare a non lasciar crollare ogni cosa.

Il Medici sospirò e, tornando a guardare fuori, liquidò la questione dicendo: “Io non intendo parlare con il figlio di quella sgualdrina. Se hanno di che discutere sulla guerra, che se ne parli al palazzo della Signoria.”

Semiramide, capendo che il marito non era intenzionato ad ascoltarla oltre, fece un profondo sospiro e, presi di nuovo in mano i suoi appunti, non provò nemmeno a cercare un minimo di vicinanza fisica.

Senza dire una parola, lasciò la camera e andò dai domestici, spiegando che il ricevimento – che sarebbe stato del tutto informale e 'di famiglia' – sarebbe durato poco e che, dunque, si aspettava da tutta la servitù la massima solerzia nel servire gli ospiti, permettendo loro di lasciare in fretta il palazzo per andare a riposare in vista della partenza per il fronte.

   
 
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