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Autore: Adeia Di Elferas    16/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano aveva un fortissimo mal di schiena e un cerchio alla testa che gli impediva quasi di pensare.

Non era mai stato così lontano da sua madre e ogni volta in cui ci pensava, la sola idea lo atterriva.

A volte lui stesso trovava assurdi i suoi sentimenti. Quando l'aveva vicina, ne era terrorizzato e rimaneva scottato ogni qual volta ne cercava l'approvazione senza trovarla. Quando l'aveva lontana, si sentiva sperduto e piccolo come un pulcino implume in mezzo a una grandinata battente.

Fuori dal suo ambiente, non riusciva nemmeno a mascherare la paura con l'aggressività.

Le porte di Firenze erano ormai vicine e l'avanguardia del suo drappello era già entrata in città per annunciarli e avere il permesso ufficiale di entrare.

Quel 28 giugno l'aria era rovente e afosa. Ci avevano messo molto più del previsto, a fare la strada, e in parte era stata proprio colpa di Ottaviano che, in modo infantile e non del tutto volontario, aveva lasciato che la sua inquietudine si tramutasse in mali del corpo, rallentando così la traversata delle montagne e quasi convincendo – più o meno a metà percorso – gli attendenti a tornare a Forlì.

Alla fine, però, più temendo l'eventuale reazione violenta della Tigre nel non vedere eseguiti i suoi ordini, che altro, gli uomini della Sforza avevano finto di non sentire le lamentele del giovane Riario e l'avevano condotto quasi a forza fino a lì.

Mentre Firenze apriva i suoi portoni al piccolo corteo arrivato da Forlì, Ottaviano sentì la propria mente chiudersi ed estraniarsi. Sentiva il peso dell'armatura sul suo corpo, il calore che gli imperlava la fronte e infradiciava la schiena, i muscoli tesi del cavallo sotto di lui che, dopo ore di cammino, sembrava desiderare solo la quiete e non quel bagno di folla. Eppure, mentre i membri della Signoria lo scortavano fino nel cuore della città e la folla accorsa lo salutava come fosse stato davvero una persona importante, il giovane Riario avvertiva un senso di estraneità che gli faceva quasi provare le vertigini.

Lo accompagnarono nella chiesa di San Giovanni Battista, senza che nemmeno Ottaviano avesse il modo e la capacità di collegare almeno un nome a un volto. Faceva quello che gli veniva detto di fare e salutava quelli che gli venivano presentati, ma non ci stava capendo assolutamente nulla.

Firenze era una città grande, caotica, molto diversa da Forlì e il Riario si sentiva sperso. Era troppo piccolo, quando aveva lasciato Roma, per averne un ricordo chiaro da poter confrontare con Firenze, ma era certo che l'Urbe dovesse essere più simile a quella città che non a casa sua.

Finite le benedizioni in chiesa, uno dei rappresentanti della Repubblica – Ottaviano, che pure l'aveva salutato pochi minuti prima – non avrebbe saputo dirne il nome, gli chiese di fare la rassegna delle truppe che portava con sé.

Siccome il figlio della Tigre aveva imparato a dovere almeno a fare quello, dopo la prima rassegna, che sollevò grida di approvazione tra i fiorentini accorsi e i complimenti della Signoria, gli venne chiesto di ripeterla.

I soldati, agghindati a dovere secondo i consigli dati da Giovanni prima della loro partenza, diedero una mostra di sé tale da lasciare senza fiato gli spettatori che, a rassegna ultimata, batterono le mani fino a farsele dolere.

Quel diffuso – e forse sincero – entusiasmo, diede a Ottaviano quel briciolo di sicurezza che gli permise, a cerimonie concluse, di chiedere chi tra i presenti fosse Lorenzo Medici.

Aveva cercato, tra i membri della Signoria, qualcuno che assomigliasse a Giovanni, ma non aveva notato nessuna spiccata similitudine. Tanto che, sapendo che quella sera sarebbe stato ospite a palazzo Medici, aveva quasi paura che il fratello del suo patrigno avesse cambiato idea, arrivando perfino a disertare l'incombenza di accoglierlo.

“Sono io.” fece invece uno degli membri della Signoria vestiti in modo più elegante.

Al collo portava una spessa collana d'oro massiccio, segno inequivocabile del suo potere e del suo status di capofamiglia. Aveva il viso scarno, dalla pelle un po' cadente, come se avesse perso molto peso in poco tempo, e le sue labbra erano incrinate in un'espressione tra il contrariato e il malinconico. Era basso, abbastanza tarchiato, molto diverso dal fratello, che invece era longilineo e snello. Portava i capelli abbastanza corti, coperti da una berretta rossa che al Riario parve di seta purissima e velluto.

Ottaviano si ripresentò, benché probabilmente l'avesse già fatto al suo arrivo, quando tutti quei fiorentini lo avevano salutato a raffica uno dopo l'altro.

“So bene chi siete.” ribatté Lorenzo, un po' infastidito, mentre gli altri notabili della città occhieggiavano curiosi verso di lui, aspettandosi di vedere qualche gesto che lo tradisse.

Sapeva che tutti volevano capire, da quell'incontro, quanto ci fosse di vero nelle voci che correvano su suo fratello e sulla madre del Riario. Fino a quel momento, benché si dicessero molte cose su di loro, infatti, nessuno aveva mai avuto una vera e propria certezza.

“Vi aspettiamo a cena nel nostro palazzo.” disse il Medici, guardando un punto appena sopra la spalla di Ottaviano: “A meno che non vogliate riposare nei vostri alloggi fino alla partenza di domani.”

“Domani..?” chiese il ragazzo, sentendosi mancare la terra sotto ai piedi.

Attorno a loro, come mossi da fili invisibili, tanto i soldati, quanto i fiorentini accorsi allo spettacolo, si stavano ritirando in buon ordine, lasciando il Popolano e Ottaviano da soli alla mercé della curiosità dei facoltosi rimasti in attesa.

“Avete un ritardo di giorni.” disse Lorenzo, mettendosi finalmente a guardarlo con i suoi occhi tondi e, in quel momento, per nulla espressivi: “Dovete partire al più presto. A Pisa vi attendono.”

Il Riario deglutì e, come se avesse appena preso un pugno sullo stomaco, si portò una mano al ventre coperto dalla corazza.

“Verremo volentieri a cena da voi.” disse uno degli attendenti al suo posto: “Siete molto gentile.”

Il Medici diede un'ultima sprezzante occhiata al figlio della Leonessa di Romagna, trovandolo goffo, impacciato, pallido e del tutto inadatto al compito che gli era stato affidato. Con i suoi capelli lunghi e impomatati che gli cadevano sulle spalle coperte di ferro, e i suoi occhi spauriti, pareva più un ragazzino, che non un uomo.

“Vedete almeno di non fare tardi.” concluse il Popolano, facendo un cenno ad alcuni suoi fedeli e lasciando il figlio della Contessa al suo destino.

 

Ludovico Pico Della Mirandola teneva la testa inclinata di lato, con un'insolenza che ormai poco si addiceva ai suoi ventisei anni. Il suo modo di atteggiarsi stava per far saltare i nervi al Moro, che, più vecchio e, almeno a parole, molto più padrone di sé, stava cercando di fare di tutto per dimostrarsi superiore e sopportare con una certa eleganza quell'insubordinazione.

“Dovevate pensarci prima.” disse Pico, allargando le braccia e guardando prima il Duca e poi il suo cancelliere, quasi aspettandosi davvero che Calco ridesse in risposta al suo sorrisetto divertito: “Se si lascia un uomo come Galeazzo Sanseverino al governo...”

“Si è trattato solo di poche settimane!” sbottò lo Sforza senza riuscire più a trattenersi: “Doveva essere la sua occasione di dimostrarmi che meritava ancora la mia fiducia e invece ha gettato tutto alle ortiche!”

Mentre Ludovico era stato a Mantova, infatti, pur con grandi riserve, aveva lasciato al genero – già felicemente risposato, per altro – il ruolo di Governatore ad interim, sperando che quel suo parente rinnegato fosse in grado di riconquistare la sua fiducia dimostrandosi irreprensibile.

I fratelli Sanseverino stavano facendo dei pericolosi giochi di alleanze e il Duca voleva essere sicuro che alla fine scegliessero tutti quanti Milano e Galeazzo era la chiave di volta per questo piano.

Invece, non appena era rimasto solo alla guida temporanea del Ducato, Sanseverino, in barba al lutto per Bianca Giovanna che il Moro si aspettava tenesse ancora, aveva dato il via a una costosissima giostra che aveva impegnato gran parte di quei grandi uomini d'arme che il Moro avrebbe invece voluto intenti a prepararsi alla partenza per il fronte.

Uno tra tutti era proprio Ludovico Pico Della Mirandola che, tra l'altro, era stato tra i più entusiasti partecipanti ai giochi.

“Parlate, parlate!” rise proprio questi: “Ma tanto io non accetto la riduzione della mia condotta, è inutile che parlate tanto. Con mille ducati di provvigione, io non ci vivo. O mi assicurate lo stipendio che mi davate prima, o mi metto al soldo di Firenze.”

Lo Sforza assorbì il colpo con difficoltà, tanto che Calco, per un momento, ebbe paura di vederlo colto da un malore.

Tuttavia, dopo aver ricacciato indietro un bel po' di orgoglio e bile, il Duca fece un sorriso stentato e, mostrando i palmi delle mani, concluse: “Come preferite. Andate a marcire al servizio di una repubblica. Sono proprio curioso di vedere quanto ci metterete a tornare qui implorando perdono.”

Ludovico Pico sollevò il mento e, raddrizzando le larghe spalle da guerriero, fece un cenno con il capo e assicurò, già mostrando la schiena al Duca: “Avrete di che pazientare, Sforza...”

 

In tutta sincerità, Ottaviano si stava chiedendo che mai ci facesse a Palazzo Medici, quella sera.

Il padrone di casa, affiancato dalla moglie e dal figlio maschio più vecchio, non lo degnava di uno sguardo, parlando – solo se necessario – con i suoi attendenti. A tavola, a parte loro, c'erano ben poche altre persone e quasi tutte, almeno così pareva al Riario, erano guardie del corpo del Popolano.

“Ho tenuto ad avervi ospite – disse a un certo punto Lorenzo, rivolgendosi direttamente a Ottaviano, con suo grande stupore – unicamente in riguardo a mio fratello, ambasciatore nelle vostre terre.”

Il giovane, appoggiando subito il pezzo di formaggio che stava mangiando, lo ringraziò, fingendo di non aver colto l'ostilità di quelle parole: “E io ringrazio voi per aver offerto al mio Stato la possibilità di aiutare Firenze.”

Due degli Capitani che lo avevano accompagnato si guardarono perplessi, non riconoscendo in quella finezza diplomatica la mano di Ottaviano. Quel dettaglio, che al Riario non sfuggì, fu ulteriore motivo di avvilimento.

Solo a fine pasto, dopo che il Medici si era frettolosamente ritirato lamentando uno strano malessere che gli impediva 'purtroppo' di trascorrere altro tempo con i suoi ospiti, Ottaviano riuscì a trovare un briciolo di amicizia in quella casa.

Mentre gli altri andavano alla porta, parlottando tra loro, il figlio della Sforza era rimasto per ultimo e, prima che se ne accorgesse, aveva sentito una mano prenderlo per il braccio e fermarlo.

Spaventato, per colpa dei nervi allerta da troppe ore, il ragazzo aveva quasi fatto un salto, ma si era calmato nel vedere il viso pacato di Semiramide Appiani che, con un gesto gentile, gli chiedeva di aspettare un attimo.

“Non dovete dare peso a quello che dice mio marito – gli sussurrò, cercando di fare in fretta, prima che la scorta del Conte si accorgesse che era rimasto indietro – è un momento difficile, per lui.”

Ottaviano aveva schiuso le labbra, per dire che non c'era problema, ma la donna non lo lasciò parlare.

“Mettete una parola con Giovanni, vi prego. Fate in modo che facciano la pace.” disse la donna, stringendo poi la mano del giovane, a metà tra la preghiera e l'incoraggiamento: “So che potete fare qualcosa per noi.”

Ottaviano l'aveva ringraziata ancora per l'ospitalità, forse suonando più freddo di quanto non volesse e poi, dopo aver attraversato il cortile e varcato il portone, stando ben attento a non scivolare sullo stallatico che invadeva la strada, seguì i suoi nella notte fiorentina, senza nemmeno darsi pena del fatto che i Capitani di sua madre non si fossero nemmeno accorti che stavano per dimenticarselo a palazzo Medici.

 

“E così Antonio Maria Ordelaffi è tornato a Ravenna.” soppesò Caterina, andando subito alla mappa e cercando il segnalino con il leone verde degli Ordelaffi.

Mentre la donna lo appoggiava sulla scritta 'Ravenna', Luffo Numai le arrivò alle spalle e, guardando il panorama italiano, aggiunse: “Dicono anche che Rimini sia in tumulto.”

“Lo dicono sempre, ma se fosse così, Venezia sarebbe già intervenuta.” liquidò la questione la Sforza, senza nemmeno lasciarlo proseguire.

Era nervosa. Non le piaceva essere disturbata mentre si stava rilassando. Quando il castellano era andata a cercarla, trovandola nella camera del figlio assieme al marito, la donna aveva fatto molta fatica a staccarsi da Ludovico per dedicarsi agli affari di Stato.

“Però, finché il Malatesta è lontano...” provò a dire Francesco Numai, subito pronto a dire la sua a costo di essere aspramente ripreso.

“Pandolfo Malatesta vale meno di niente, al momento!” esclamò la Tigre, lasciando che la sua irritazione facesse schizzare il suo tono di voce più di quanto non avesse voluto.

I Numai si zittirono entrambi e così, vedendo che la situazione languiva, fu Cesare Feo a provare a parlare: “Vedete, mia signora – disse, indicando il segnalino degli Ordelaffi – il timore è che Venezia voglia usare Ordelaffi e Manfredi come un uncino, schiacciandoci e isolando Imola.”

“Avete già scritto a Ridolfi?” chiese allora la donna, rendendosi conto in quel momento che l'idea del castellano non era proprio campata per aria.

“No...” ammise il Feo, mettendosi subito alla scrivania piccola

La sala della guerra era calda, anche troppo. Caterina teneva le mani appoggiate al tavolo, sentendo la trama ruvida della mappa sotto i polpastrelli e chiedendosi come avesse fatto l'Italia a trovarsi in quella dannata confusione.

“Se solo tutti i signori italiani capissero che è inutile farsi guerra...” borbottò tra sé, guardando i segnalini che rappresentavano gli Sforza, i Bentivoglio, gli Este, gli Aragona, i Malatesta, gli Ordelaffi, i Manfredi, e perfino i Borja: “Piuttosto, si sa il papa che cosa ha deciso? Appoggerà le mire francesi?”

L'Oliva si sentì chiamare in causa e, uscendo dal suo angolino, ammise: “Le mie spie non hanno ancora notizie precise, ma dicono che il re voglia seriamente avanzare pretese su Milano e il papa potrebbe anche decidere di chiudere un occhio, a seconda di come andrà a finire tra Venezia e Firenze.”

La Leonessa si morse il labbro. Tutto quello che poteva fare lei, nella sua rocca, in quel momento, era cercare di tessere qualche alleanza in più, di tenere a basa il tutore di Astorre Manfredi e di guidare da lontano Ottaviano nel pisano.

Si sentiva così inutile e impotente che, se solo non fosse stato l'equivalente di un suicidio politico, si sarebbe subito infilata l'armatura e sarebbe corsa a combattere. Se per conquistare delle terre o difenderne della altre, poco importava. Voleva lo scontro e voleva prendervi parte.

La riunione, però, andò avanti lo stesso, malgrado la sua smania di vita e morte e proseguì lenta e farraginosa, come tutte le riunioni di stampo politico.

Protraendosi molto più a lungo di quanto avesse sperato, il consiglio di guerra si sciolse dopo ore, senza che si fosse giunti a delle soluzioni concrete.

Uno dopo l'altro, ognuno con i suoi nuovi compiti da portare a termine, gli uomini della Sforza lasciano la sala della guerra, fino a che lei non restò sola con la mappa d'Italia.

Approfittò di quel momento di tregua per ragionare a mente più fredda. Il suo Stato, inutile dirlo, era in una posizione strategica, ma critica, soprattutto per colpa di Faenza che lo spezzava letteralmente in due.

La Contessa era ancora intenta a fare le sue valutazioni, quando sentì qualcuno entrare. Pensando che si dovesse trattare o del castellano o di qualcuno degli altri consiglieri che avesse dimenticato qualcosa, all'inizio non disse nulla.

Poi sentì chiudersi la porta e che la presenza non se ne andava, e così chiese, infastidita: “Che c'è ancora?”

“Nostro figlio si è addormentato adesso...” disse piano Giovanni, arrivandole alle spalle e appoggiandole una mano sul fianco: “Quando ha visto la balia si è messo a piangere a dirotto. Ho dovuto aspettare che si addormentasse in braccio a me, prima di raggiungerti.”

Caterina trattenne uno sbuffo. Ludovico, giorno dopo giorno, si dimostrava sempre più insofferente agli estranei, facendo il bravo solo con lei, con Giovanni o con Bianca. Era difficile dire il perché, ma era come se con loro si rilassasse, mentre che degli altri non si fidasse.

“Si è detto qualcosa di interessante?” chiese il Medici, premendo il petto contro la schiena della moglie e adagiando il mento sulla sua spalla, guardando assieme a lei la mappa.

La donna gli riassunse in fretta quello che era stato discusso, ma alla fine soffiò, abbattuta: “Fino a che non arriveranno notizie da Ottaviano, è difficile decidere come muoversi.”

Il Popolano affondò il viso nei suoi capelli, annusando a fondo il suo profumo e poi le sussurrò nell'orecchio: “Mi stai dicendo che potremmo essere a un passo dalla rovina?”

Caterina, con attenzione, si voltò, stando nell'abbraccio del marito e, appoggiata sempre al tavolo, lo fronteggiò, guardandolo negli occhi chiarissimi: “Forse. Ma il nostro tempo non è ancora finito.”

Giovanni rispose con un sorriso e, stringendola con più forza, la baciò e ribatté: “Se non è ancora finito, vediamo di approfittarne.”

“Almeno hai chiuso la porta?” chiese la Tigre, trattenendo una risata, mentre il fiorentino armeggiava con le sue sottane.

Giovanni non glielo rivelò, lasciando che i suoi baci la distogliessero da ogni altro pensiero, più interessato a prendere quello che la vita ancora gli concedeva, che non a curarsi di poter dare più scandalo di quanto non avesse dato fino a quel momento.

 

'Diciassette anni – stava pensando Lucrecia, assorta nel passare la punta dell'indice sul bracciotto grasso del piccolo Giovanni – un solo anno meno di me'.

Da quanto suo padre le aveva annunciato che prima di fine luglio sarebbe diventata la moglie del Duca di Bisceglie, Alfonso d'Aragona, la giovane Borja non riusciva a pensare a nient'altro.

Le nozze sarebbe state celebrate con sobrietà e in presenza di pochissimi intimi, in rispetto a lei, soprattutto, che era già stata abbastanza sotto il naso di tutti con la questione dell'annullamento del matrimonio con Giovanni Sforza.

Ricordava bene quello che sua cognata Sancha diceva del fratello. Lo descriveva come uno dei giovani più belli di tutta Italia e come uno dei più cortesi. Ne lodava la prontezza con le armi e l'abilità con le parole.

Lucrecia si augurava che almeno la metà di quelle lodi potessero trovare riscontro nella realtà dei fatti.

Aveva conosciuto Sancha troppo da vicino, però, per sperare che dalla sua bocca fossero usciti solo complimenti meritati.

Sua cognata era e sarebbe sempre stata un'Aragona prima di qualsiasi altra cosa e difendere la propria famiglia anche a quel modo le veniva spontaneo.

Lucrecia non si riteneva una fine politica, ma nel vivere a lungo alla corte di suo padre, aveva imparato più di quanto non avrebbe mai voluto. Capiva quando era il caso di essere clementi e quando di calare la scure...

Mentre faceva quel pensiero angoscioso, suo figlio emise un piccolo verso divertito, distratto da chissà cosa. La giovane Borja provò a seguirne lo sguardo, ma non capì cosa avesse attirato l'attenzione del piccolo.

Nella celletta di quel convento non c'era nulla, a parte il crocifisso alla parete, che potesse attirare l'attenzione di qualcuno, tanto meno di un lattante.

Cercando di riprendersi un po', gli sorrise e disegnò con la mano il profilo della sua guancia e poi, con le dita, del suo naso e delle orecchie. Era così bello e così piccolo che a volte non poteva credere di averlo fatto lei.

Ancora una volta, le sue considerazioni la rabbuiarono. Ripensò a Perotto, ai mesi confusi che avevano seguito la sua fuga al monastero, le visite che le aveva fatto suo fratello, i giorni nel palazzo di suo padre, appena prima di decidersi a scappare e cercare riparo da suor Girolama Pichi...

Colta da un momento di smarrimento, la ragazza sollevò il piccolo e se lo strinse con forza al petto, tanto che il bambino a un certo punto protestò per l'eccessivo vigore, fino a che la Borja non lo rimise coricato sul lettuccio che lei stessa aveva occupato durante la sua volontaria reclusione.

Quella camera, se ne rendeva conto solo in quel momento, portava con sé il segreto stesso di Giovanni. Giovanni Borja, così il papa sperava di poterlo chiamare ufficialmente.

La sola idea di quello che suo padre voleva fare, rigettandola ancora una volta in pasto alle calunnie e alle cattiverie dei pettegoli, le fece sanguinare il cuore.

Salutò con lentezza il suo piccolo, lo andò a mettere nella culla e poi uscì dalla cella, richiamando la novizia che si occupava di lui per dirle che lei se ne stava andando e che Giovanni aveva di sicuro fame.

Camminando a passo svelto lungo il patio che l'avrebbe portata all'ufficietto della badessa, Lucrecia si sentiva una fuggiasca.

Arrivata da suor Girolama, che l'abbracciò come una figlia, le spiegò delle sue imminenti nozze e aggiunse: “Potrebbe essere che io debba partire subito dopo. Vi affido mio figlio.”

“Io lo custodirò, ma è a Dio che dovreste affidarlo.” la corresse la badessa, con un sospiro greve.

“So che vi chiedo tanto.” provò a dire Lucrecia, il cuore che batteva violento, quasi temendo che la badessa si tirasse indietro, dopo tutto quello che aveva già fatto per lei senza aspettarsi molto in cambio.

“Non tradirò la vostra fiducia.” le assicurò invece la Pichi, tirando un po' su col naso, ricordando come lei stessa avesse sperato di vedere morire il neonato appena uscito dalla madre: “Tutti quanti abbiamo debiti da ripagare a Nostro Signore. Io ho deciso di saldarli in parte aiutando voi.”

Lucrecia le prese una mano e gliela baciò, congedandosi una volta per tutte: “Mio figlio non potrebbe essere in mani migliori.”

   
 
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