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Autore: Adeia Di Elferas    18/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il piccolo Ludovico stava gorgheggiando come tutte le volte in cui faceva mostra di voler ridere.

Non era semplice, divertirlo, ma Giovanni sapeva sempre come riuscirci. Anche in quel momento, nella stanza più fresca della rocca – scelta per contrastare il caldo dei primi giorni di luglio – il Medici teneva tra le braccia il figlio e, solleticandogli il mento a ogni verso, gli stava recitando una egloga di Virgilio.

Anche se chiaramente il bambino non capiva una parola, i suoi occhi, terribilmente svegli e attenti, seguivano le labbra carnose del padre e si illuminavano ogni qual volta le vedevano sorridere. Era allora che faceva i suoi versetti contenti e Giovanni, vinto dalla bellezza del piccolo, doveva trattenersi dal ridere a sua volta e andava avanti con voce più sicura e con tono ancor più teatrale.

Caterina lo guardava in silenzio, seduta sulla poltrona che aveva spostato dalla luce calda che filtrava dalla finestra. Vedere suo marito giocare a quel modo con Ludovico le scaldava il cuore più di qualsiasi altra cosa, eppure le metteva anche addosso una certa tristezza.

La donna teneva l'indice premuto contro le labbra, in un atteggiamento pensoso, e l'altra mano tamburellava a ritmo scostante sul bracciolo della poltrona.

I suoi capelli, biondi e bianchi, ricadevano sciolti sulle spalle e i suoi occhi verdi distoglievano raramente la loro attenzione da Giovanni e Ludovico.

Eppure, benché apparisse concentrata solo sul marito e sul figlio, ad affollarle la mente c'era ben altro.

Le era arrivata una lettera da parte di uno dei Capitani che aveva messo alle calcagna di Ottaviano nella speranza che il ragazzo potesse evitarle qualche figuraccia, e il panorama che le era stato descritto non le pareva dei più rosei.

L'uomo spiegava che, contravvenendo in parte a quanto richiesto da Lorenzo Medici, Ottaviano aveva chiesto un giorno in più di sosta a Firenze, per riprendersi dal viaggio che si era dimostrato più difficile del previsto. E poi, una volta partiti, il giovane aveva ulteriormente cercato di rallentare i lavori, quasi sperasse davvero di indurli a riportarlo in Romagna con qualche scusa.

A parte questo, il Capitano spiegava che l'accoglienza dei Medici era stata cortese, ma fredda, e che la Signoria aveva chiesto due volta la rassegna, ma che molti dei suoi membri parevano, nel farlo, deridere Ottaviano per la sua pochezza, più che lusingarlo per la sua forza.

Si passava poi a elencare i condottieri che erano al campo pisano, passando dal comandante generale, Vitelli, a personaggi accorsi con un numero decisamente inferiore di uomini, ma che, per nome, erano per la Tigre assai più importanti. Un esempio tra tutti: Ottaviano Manfredi.

Il Capitano nella lettera aveva fatto solo un accenno a lui, spiegando di avervi bevuto assieme un paio di calici, la sera dell'arrivo al campo e di aver inteso che l'esule faentino fosse ben intenzionato verso Imola e Forlì e che, anzi, non fosse del tutto avverso al pensiero di un'alleanza.

'Magari volta a ledere Astorre, cugino di lui' aveva aggiunto lo scrivente.

“Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem – stava dicendo Giovanni, sorridendo al figlio con un velo di malinconia che infine velava le sue iridi chiarissime – matri longa decem tulerunt fastidia menses. Incipe, parve puer...”

La Contessa si sistemò sulla poltrona, nel vedere il viso del marito farsi davvero serio e quello di Ludovico scurirsi di rimando.

L'uomo diede un leggero bacio sulla fronte del figlio e concluse, quasi di fretta: “Cui non risere parentes, nec deus hunc mensa dea nec dignata cubili est.”

Il bambino pareva perplesso. Aveva tre mesi ed era florido e forte. Sulla sua salute il medico di corte non aveva alcun dubbio e anche il modo in cui, con una certa insistenza, stava protendendo la piccola mano verso il padre, quasi a volerlo consolare per qualcosa, lasciava intendere quanto fosse attento a tutto ciò che lo circondava.

“Stai bene?” chiese piano la Sforza, mentre il fiorentino si sforzava di sorridere ancora al figlio.

Dalla finestra lasciata aperta arrivavano le voci dei soldati nel cortile. Si stavano addestrando da ore e sembrava assurdo, ma il gran caldo pareva averli resi molto più loquaci e chiassosi del solito.

“Sì, sì...” annuì il Popolano facendole segno di prendere Ludovico.

Caterina si alzò e recuperò il piccolo, tenendolo tra le braccia e poi rimase fissa in piedi a guardare il marito.

“È colpa mia.” si accusò da solo l'uomo: “Quando arrivo a questa parte mi intristisco sempre. È che penso a mia madre e...”

La Leonessa fece per dirgli qualcosa, ma lui fu il primo a sviare il discorso, facendole capire che, in fondo, non aveva voglia di indugiare su quel genere di argomenti.

Da quando erano sposati, la Contessa aveva avuto modo di capire che il fatto di aver perso la madre alla nascita era per suo marito un tormento di fondo, come qualcosa che, non appena venivano meno le distrazioni, tornava a pungolarlo, suscitandogli spesso sentimenti contrastanti.

“Hai avuto notizie da Ottaviano?” chiese il Medici, passandosi nervosamente una mano sulla coscia.

Anche quel gesto, apparentemente casuale, fece sentire in difetto la moglie. Le dita di Giovanni erano gonfie, rovinate, chiaramente gli rendevano difficile fare molte cose. Aveva preso l'abitudine di portare il nodo nuziale al collo o nel taschino del giustacuore, e non era infrequente scoprirlo intento a tentare di chiudere e aprire il pugno, con una smorfia sul viso.

Caterina stava rimettendo Ludovico nella culla, dandogli le spalle, ma si sentì comunque arrossire nel dire: “No, non ancora...”

Il Medici fece un sospiro e passò a discorrere del tempo secco e caldo e dei problemi che si stavano già avendo con la scarsità di riserve di cibo.

“Di questo passo – fece, dopo un po' – dovrò insistere con mio fratello per farmi avere i miei soldi e comprare dell'altro grano...”

La Tigre non sapeva perché non gli volesse dire della lettera che le era arrivata dal Capitano. Forse, cercava di convincersi, stava aspettando unicamente allo scopo di proteggere il marito dalle parole un po' rigide che erano state usate per descrivere Lorenzo e palazzo Medici.

In realtà, però, la Contessa sapeva bene che la sua reticenza era legata al fatto che voleva farsi prima da sola un'idea precisa della situazione e solo dopo parlarne con lui.

Giovanni stava ancora discorrendo del grano, mentre Caterina osservava Ludovico distratta, immersa nei suoi pensieri.

Qualcuno bussò alla porta e quando la Sforza andò ad aprire, si trovò davanti il castellano che le riferì: “Ci sono dei rappresentanti dei contadini che vogliono parlarvi della scarsità dei raccolti che avremo anche quest'anno e altri che vogliono vedervi per discutere delle febbri che si stanno spandendo nelle campagne.”

La Tigre, inconsciamente, si voltò verso il Medici che, alzandosi dalla poltrona con un piccolo gemito di protesta per via del male alle gambe, le arrivò subito al fianco e dichiarò: “Mi occupo io dei raccolti. Tu parla pure con quelli che sono qui per denunciare le febbri.” poi si rivolse al castellano: “Richiamate le balie, per favore. Non voglio che nostro figlio resti da solo.”

Cesare Feo annuì e, dopo che il Popolano ebbe salutato la moglie con un bacio, precisò: “Messer Medici, quelli che volete incontrare sono nel mio studiolo.”

Mentre Giovanni si allontanava, il castellano riferì alla Contessa che invece i suoi interlocutori erano in attesa nel primo cortile.

“Chiamate subito le balie – ribadì la Tigre, prima di andarsene – e dite loro di cercare Bianca, se mio figlio dovesse far fatica a stare tranquillo. Credo sia nelle cucine, a quest'ora.”

 

“Il prezzo del grano! Il prezzo del grano!” esclamò alla fine Semiramide, esasperata: “Non sai parlare d'altro!”

“Domani se ne discuterà alla Signoria.” disse piatto Lorenzo, a mo' di difesa.

Marito e moglie sedevano vicini nella grande tavola altrimenti deserta della sala da pranzo. I figli erano già tutti nelle loro stanze e fuori c'era già molto scuro, tanto che le candele accese parevano non bastare a far luce.

“Ti ho chiesto di scrivere a tuo fratello e tutto quello che sai fare è parlare da solo del prezzo del grano!” ribatté con veemenze l'Appiani, spostando con un gesto secco il piatto da davanti a sé.

Gli occhi tondi del Medici la cercarono per pochi istanti, per poi tornare sulla minestra ormai fredda che aveva davanti.

“Se non lo farai tu – minacciò la donna, scuotendo il capo – allora gli scriverò io. Devi dirgli quello che sai e non puoi far finta di nulla!”

“Ottaviano Riario non è affar mio. Se anche si dovesse mettere in ridicolo davanti a tutti, non mi interessa.” fece a quel punto Lorenzo, la voce bassa e atona, il cucchiaio che rimestava senza fermarsi la minestra: “Quando decideranno di prendere Pisa, lo faranno benissimo anche senza di lui e la città cadrà ugualmente.”

“Ma lui è il figlio di nostra cognata!” inveì Semiramide, alzandosi di scatto: “Fa parte della famiglia, non puoi permettere che...”

“Ascoltami bene – la interruppe Lorenzo, alzandosi a sua volta, la sedia che grattava rumorosamente contro il pavimento – le nozze presunte di mio fratello non sono mai state pubblicate e dunque, formalmente, lei per noi non è nulla.”

Resa di ghiaccio nel sentire il marito parlare a quel modo, l'Appiani fece un passo indietro e, trattenendosi a stento dal prenderlo a schiaffi, squadrò il suo viso – così grigio e tirato rispetto a pochi anni prima – e gli sibilò: “Quella donna è la madre di tuo nipote. Del figlio di tuo fratello.”

“Lo sai cosa penso di quel bambino.” concluse aspro il Medici, rimettendosi a sedere e ostinandosi a mescolare la minestra e addirittura a buttarne giù qualche cucchiaiata.

“Da quando è morto Averardo, tu...” cominciò a dire la donna, con tono accusatore.

Bastò un lampo degli occhi del marito per ricacciarle indietro tutto il veleno che stava per sputare.

Schiarendosi la voce, Semiramide si morse con forza l'interno della guancia, e poi, capendo che quello che aveva davanti non era più l'uomo che aveva sposato, si congedò, affettando una remissività che sentiva di non poter più avere nei suoi confronti: “Hai ragione. Non possiamo sapere se quel bambino è davvero di Giovanni. Ora scusami, ho un forte mal di testa... Meglio che vada a dormire.”

Il Medici deglutì quello che aveva in bocca, sentendo il liquido freddo e indigesto scendere a fatica fino allo stomaco e rispose: “Passa una buona notte.”

La donna fece una mezza riverenza e prese una delle candele. Camminò piano fino alla porta della sala e poi, appena fu sicura che il marito non la stesse seguendo, quasi si mise a correre.

La fiammella della candela ondeggiava rischiando di spegnersi a ogni passo, ma Semiramide voleva fare presto. Arrivata nella sua camera, si chiuse dentro e, accese un po' di luce, prese il necessario per scrivere.

Prima di avere ripensamenti, lasciò che tutto quello che aveva sentito dire quel giorno andasse per iscritto e poi, cercando il più fedele dei servi di casa, gli affidò il messaggio e dei soldi, chiedendogli di far partire la missiva il prima possibile e con una staffetta che fosse affidabile.

 

“Quel bambino è insopportabile.” disse Cesare, esternando per la centesima volta la sua insofferenza nei confronti di Ludovico: “È ancora peggio di Bernardino! E ancora non parla, quindi non oso immaginare tra qualche anno...”

Lui e Bianca stavano andando verso la stanza delle letture perché avevano avuto una diatriba in merito alla lettura di un'agiografia e volevano dirimere la questione andando a leggere direttamente le pagine interessate.

Di solito la Riario non amava parlare troppo con quel fratello, perché lo trovava sempre intento a dispensare massime morali e a riprenderla per qualche suo comportamento che non era secondo lui consono al suo rango e alla sua condizione di donna sposata.

Quel giorno però, un po' il caldo e un po' la noia, avevano portato Cesare a uscire prima dal Duomo e Bianca a risalire presto dalle cucine. Trovandosi solo nel corridoio, avevano cercato di imbastire una chiacchiera, che era però subito scaduta nella polemica, aggrappandosi per fino alla vita di un santo minore di cui non interessava niente a nessuno dei due.

“Non parlare così di loro!” lo riprese la ragazza, mentre salivano le scale: “Sono nostri fratelli!”

Cesare non parlò per un bel pezzo, passandosi pensieroso una mano sulla chierica, fino a che non furono vicini alla sala delle letture e allora trovò le parole per controbattere: “Non mi risulta che abbiamo lo stesso padre. Per me non sono miei fratelli.”

“Quanto sei pesante, Cesare...” sbuffò Bianca, dando uno spintone al fratello che, colto di sorpresa, si sbilanciò per qualche istante.

Quel gesto aggressivo, per quanto blando, riaccese il litigio tra i due, facendolo scendere su un piano molto più personale rispetto a prima, ma le loro parole andarono spegnendosi quando, aperta la porta della sala, si trovarono davanti la madre e il Medici.

La Contessa in piedi in mezzo alla stanza, le braccia incrociate sul petto, era rossa in viso e scapigliata, mentre l'uomo, in poltrona, stava visibilmente cercando di sistemarsi gli abiti, come se avesse riannodato in fretta e furia tutti i lacci che aveva, rischiando di dimenticarsene qualcuno.

“Che ti dicevo?” fece Cesare, lanciando uno sguardo disgustato alla madre e al fiorentino e poi alla sorella: “Due adulti che non sanno nemmeno controllare i propri istinti. Per Dio...”

Detto ciò, il Riario voltò i tacchi, scalciando a ogni passo il suo vestone da prete, mentre Bianca rimase là dov'era, senza riuscire a parlare.

La cosa che più la metteva in difficoltà non era tanto sapere quello che sua madre e il Medici avevano appena fatto, né sapere che l'avevano fatto lì. Ormai da tempo alla rocca si sparlava di loro, anzi, le voci sulla loro totale mancanza di pudore e accortezza si era sparsa anche oltre i confini dello Stato.

La cosa che la stava mettendo più a disagio era il modo in cui, malgrado la sua presenza, i due continuavano a lanciarsi occhiate. Era chiaro che, malgrado tutto, quell'interruzione non li avesse scomposti più di tanto e che nella loro testa ci fosse posto solo l'uno per l'altra.

“Perdonatemi.” sussurrò Bianca, piegando appena il ginocchio e facendo per andarsene.

“Aspetta...” fu Giovanni a parlare, sapendo che Caterina non avrebbe mai avuto lo spirito per farlo.

Alzandosi a fatica, uscì dalla stanza e raggiunse la ragazza: “Mi spiace se ti abbiamo messa in imbarazzo...” provò a dire.

“Sono io che dovevo bussare, prima di aprire la porta.” ribatté Bianca, senza ammettere repliche.

Il fiorentino si ravviò i riccioli castani e poi, puntandole addosso le iridi chiare, disse solo: “Mi spiace che tuo fratello l'abbia presa così... Io e vostra siamo sposati e...”

“Posso capire, ma non per questo è facile...” iniziò a rispondere la ragazza, ma poi, vedendo la madre uscire a sua volta dalla stanza delle letture, si sentì avvampare e, con un altro accenno di inchino, si dileguò dicendo: “Non voglio disturbare oltre.”

Rimasti soli nel corridoio, Giovanni e Caterina si guardarono un momento e poi, avvicinatisi, si abbracciarono.

“Dovremmo stare più attenti...” sussurrò la Sforza.

“Io non riesco a resisterti...” sorrise lui, affondando il viso nei suoi capelli: “Voglio approfittare di ogni occasione...”

'E poi – pensò l'uomo, senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce – chissà per quanto poco tempo ancora potrò averti'.

 

Lucio Malvezzi tolse il pezzo di carne dal fuoco e annuì rivolto ad Alessandro Bentivoglio: “Sì, ve lo assicuro. Il Moro è pronto a una distensione con Bologna.”

Il figlio di Giovanni Bentivoglio sapeva che quei progetti erano comuni a Milano e Bologna, tuttavia era un po' in apprensione, quella sera.

Il campo dei soldati che combattevano per Firenze era pieno di vita e anche gli ultimi arrivi – come lo stesso Malvezzi o il Conte Riario di Forlì – avevano dato modo a tutti di rinverdire vecchie amicizie e iniziarne di nuove.

“Siete anche voi al soldo di Milano, in fondo...” proseguì Lucio, addentando la carne e masticandola con un po' di fatica.

Anche se aveva trentasei anni, in bocca gli restavano pochi denti, quasi tutti caduti per colpa di scontri e cavalli imbizzarriti al momento sbagliato.

“Io combatto per mio padre.” lo corresse Alessandro, mentre i suoi pensieri tornavano a Casteggio, dove la sua giovane moglie diciassettenne, di sette anni più giovane di lui, lo stava aspettando, tenendo la città al posto suo.

“Vostro padre, però, vi ha messo al servizio dello Sforza.” precisò Malvezzi, con un sorriso che la diceva lunga: “Sforza, come vostra moglie Ippolita, no?”

Il Bentivoglio strinse le labbra, ben deciso a non parlare di Ippolita. Sapeva che in molti la trovavano una donna di cui sparlare solo perché era stata capace di governare da sola pur così giovane e aveva fatto fronte alla peste senza che lui, distratto dal padre, potesse soccorrerla.

Lo prendevano in giro perché dicevano che non avesse ancora preteso un figlio da lei. La verità, però, non la sapeva nessuno. Se avessero conosciuto quella giovane donna, avrebbero capito quanto era da amare e quanto da rispettare. Alessandro non aveva dubbi sul fatto che la sorte fosse stata con lui generosa, dandogli una moglie che pareva costruita apposta per lui. Però farlo capire agli altri era così faticoso che il giovane aveva smesso da tempo di provarci.

“Comunque so per certo che il Moro vuole impedirci di partecipare all'assedio. Presto lo farà sapere anche a voi.” continuò imperterrito Lucio, mostrando forse per la prima volta il motivo che lo aveva spinto ad attaccar bottone a quel modo con il bolognese: “Il Duca vuole mandarci ad Alessandria, a tenere le sue terre.”

“Ma a Firenze ha promesso...” cominciò a dire Alessandro, corrucciandosi, la fiamma del falò che gli scaldava il viso facendogli gocciolare il sudore lungo il collo.

Malvezzi gli fece segno con il dito di tacere e proprio in quel momento a loro due si unì anche Ludovico Pico.

“Allora, che si dice?” chiese, guardandoli e poi fissandosi su Lucio: “E tu? Credevo ti saresti sganciato dal Moro come ho fatto io. Ti aspettavano davvero tra i condottieri di Firenze.”

Malvezzi sollevò una spalla e gli indicò la carne che ancora abbrustoliva sul fuoco: “Prendine quanta ne vuoi.”

Pico accettò di buon grado e poi, indicando il campo con la testa, disse, masticando a bocca aperta, fedele ai suoi metodi grezzi: “Avete sentito che confusione?”

Effettivamente, allungando l'orecchio, Alessandro avvertì degli schiamazzi eccessivi arrivare dai padiglioni più importanti.

“Stanno prendendo per i fondelli il figlio della Tigre – ridacchiò Ludovico, continuando a mangiare come un lupo – che una donna del genere abbia potuto partorire un simile idiota, ancora mi pare impossibile, ma...”

“Che è successo, questa volta?” chiese il Bentivoglio, che solo il giorno prima aveva visto il forlivese scherzato da altri condottieri perché pretendeva che gli venissero forniti abiti puliti e senza pulci addosso, sentendosi rispondere che le pulci le attirava con la zazzera di ricci impomatati che si portava in testa e non con la cotta di maglia.

“Ma niente di che...” sbuffò Pico, ridendo comunque: “Ha dato di stomaco dopo aver bevuto del vino in cui poi gli hanno detto di aver sputato...”

Il Bentivoglio, che per età e condizione un po' si sentiva vicino al Riario, si alzò, annunciando: “Io devo ancora controllare l'armatura... Perdonatemi, ma meglio che torni alla mia tenda...”

“Questi ragazzini...” borbottò Malvezzi, non appena il bolognese fu lontano: “Vengono a fare la guerra e credono che sia un gioco.”

“Che ci vuoi fare... La carne da cannone ci vuole sempre. Quelli che sopravvivo, diventano uomini.” sospirò Ludovico Pico della Mirandola, accaparrandosi un altro pezzo di carne e riempiendosi lo stomaco in vista degli scontri futuri.

 

Giovanni stava attendendo fuori dallo studiolo del castellano. Caterina era stata chiara nel dirgli che non voleva essere disturbata.

Dovevano discutere di Faenza e dei Manfredi e voleva farlo da sola con Luffo Numai e l'Oliva. Il Medici non si era opposto, perché sapeva bene che la moglie poi gli avrebbe detto cosa si era deciso, ed era anche conscio del fatto che insistere a partecipare sarebbe stato vano.

Però, adesso che aveva bisogno di lei, gli fremevano le mani dalla tentazione di spalancare la porta, interrompere la riunione estemporanea e portarla via.

Finalmente udì la voce di Caterina dire qualche ultima frase e avvicinarsi all'uscio.

Sentiva le due lettere che gli erano arrivate proprio pochi minuti prima – una di Ottaviano e una di Semiramide – premere come macigni sul suo cuore, nella tasca interna del giacchetto estivo.

Appena la Tigre uscì dallo studiolo, aprendosi in un sorriso un po' interrogativo nel vederlo, il Popolano le chiese subito: “Hai tempo per andare alla Casina, adesso?”

La donna stava per dire di no, ma la serietà e la cupezza dello sguardo del marito le fecero cambiare idea. Aveva colto al volo la sfumatura di quella richiesta. Non le stava domandando di andarsene un po' nei boschi per i fatti loro. Doveva parlare di qualcosa di importante e probabilmente voleva essere certo di farlo lontano da qualsiasi occhio od orecchio che potesse essere indiscreto.

“Aspetta...” sussurrò la Leonessa, passandogli la mano sul petto, come a tranquillizzarlo.

Nel fare quel semplice gesto, la Contessa avvertì chiaramente la presenza di quelle che potevano essere lettere nella tasca interna del suo abito e fu ancora più certa che il marito dovesse riferirle qualcosa di urgente e di importante.

Tornò nello studiolo e lasciò detto di riferire al castellano che non sarebbe tornata presto: “Forse torno domattina.” concluse, per evitare in qualunque modo di essere disturbata.

Raggiunse il Medici e poi, camminando davanti a lui, disse: “Andiamo. Prendiamo i due stalloni, così arriveremo alla Casina prima.”

   
 
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