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Autore: Adeia Di Elferas    20/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Allora?” chiese Caterina, chiudendo la porta alle sue spalle e mettendosi a guardare Giovanni.

Il fiorentino, rimasto del tutto silenzioso fin dalla partenza, si era fermato a pochi passi da lei e la stava fissando. Sembrava confuso, quasi spaventato e un simile atteggiamento, da parte sua, spaventava e confondeva anche la Contessa.

Prima che la donna avesse modo di ripetere la sua domanda, il Popolano si fece avanti e, tenendole il viso tra le mani, la baciò, facendole in fretta capire di volere di più.

In un primo momento, la Sforza non si oppose alle sue insistenze, ma poi si rese conto che quello che Giovanni stava facendo era solo una goffa imitazione di quello che da molto tempo faceva anche lei quando si sentiva persa.

“No, no, aspetta...” lo fermò, prendendolo per le spalle e facendolo indietreggiare: “Prima dobbiamo parlare. L'hai detto anche tu.”

A quel punto, dando molto meno filo da torcere alla moglie di quanto non sapesse fare lei in situazioni simili a parti invertite, il Medici desistette all'istante e si mise a sedere sul piccolo letto che stava nel centro della Casina. Schiarendosi la voce, cercò le lettere che aveva nella tasca interna della giacchetta.

La Tigre, non sapendo che pensare del mutismo del marito e del suo tentativo di distrarsi, si sistemò velocemente i capelli che lui le aveva scompigliato, prese i messaggi e gli domandò, senza nemmeno guardare di chi fossero: “Quale devo leggere prima?”

Il fiorentino, che era rimasto molto accaldato dalla cavalcata per arrivare fino a lì, si perse per un momento nei suoi pensieri, prima di rispondere. Sapeva che da quello che la Sforza avrebbe deciso, una volta lette le missive, le decisioni che avessero preso l'avrebbero coinvolto tanto da vicino da rischiare di metterlo in serio pericolo di vita.

L'aria immobile della Casina, abbastanza fresca, malgrado il solleone di luglio che batteva sul tetto, gli stava facendo tornare in mente tutti i momenti importanti che aveva vissuto da che era a Forlì.

Non voleva andarsene, per nessun motivo.

Risentiva la voce di sua moglie, che gli chiedeva di sposarlo, la rivedeva mentre lo spogliava, la prima volta che si erano amati, avvertiva il calore della sua pelle quando avevano trascorso lì le ore solo per il piacere di stare insieme lontani dal mondo...

“Quella di Ottaviano.” disse alla fine il Medici, rendendosi conto che la Tigre stava aspettando.

Caterina, per un battito di ciglia, restò sconcertata nel sapere che suo figlio aveva scritto a Giovanni.

Si era attesa che non scrivesse affatto lettere private dal fronte, che al massimo scrivesse a lei per riferirle gli affari bellici, o , più verosimilmente, al castellano o a Luffo Numai. O anche a uno dei fratelli. A Bianca, magari, visto che sembrava l'unica capace, a tratti, di sopportarlo.

Non aveva valutato nemmeno per un istante l'ipotesi che suo figlio potesse ritenere il Medici qualcuno di cui fidarsi tanto da averlo come corrispondente.

Restando in piedi, la Leonessa appoggiò al tavolone la lettera da leggere per seconda – che, intravide, era di Semiramide Appiani – e lesse quella si Ottaviano.

Il giovane raccontava, probabilmente con una vena di esagerazione, le insidie del viaggio che aveva fatto, abbandonandosi ogni tanto a magniloquenti descrizioni della sua capacità di sopportare tante difficoltà.

Tuttavia, sul finale della lettera, come se la recita si fosse esaurita, emergeva un Ottaviano molto diverso. Impaurito, pieno di debolezze, conscio della propria inadeguatezza e, soprattutto, della pessima figura che stava così facendo fare anche a sua madre.

'Ma io non mi riesco d'esser diverso' aveva soggiunto, verso le ultime le righe per poi, con toni molto accorati, chiedere a Giovanni di correre in suo soccorso, fornirgli una guida e una protezione, dato che solo il nome dei Medici – dietro il quale era chiaro che Lorenzo non gli avrebbe mai concesso di nascondersi – poteva metterlo al sicuro.

Caterina avrebbe trovato quella lettera molto toccante, se non fosse stata scritta da Ottaviano.

Senza commentare, la ripiegò e la mise sul tavolo, prendendo la seconda.

Mentre spiegava quella missiva, sentì Giovanni sospirare e si chiese se avrebbe trovato più motivo del suo tormento nelle parole della cognata, piuttosto che in quelle del figlio.

Le frasi con cui Semiramide lo salutavano erano molto affettuose e, la Sforza se ne rese conto senza problemi, vergate da una mente fine. Gli chiedeva come mai la sua ultima lettera paresse scritta ancora con una grafia non sua – e in effetti il Medici aveva chiesto alla moglie di provvedere al suo posto a causa del male alla mano – ma sviava in fretta il discorso, come a dargli l'illusione di non voler cacciare troppo il naso nei suoi affari.

La parte veramente importante arrivava appena dopo. Senza panegirici né abbellimenti, la donna scriveva al cognato preoccupata per la salute del marito che vedeva ogni giorno più patito e distante.

Sosteneva di non averne ancora parlato tanto apertamente con Giovanni solo per non arrecargli dolore e preoccupazione, ma che si era giunti a un punto, dopo la gelida accoglienza offerta a Ottaviano, in cui lei temeva non più solo per la salute dello spirito di Lorenzo, ma anche per la riuscita dei loro piani politici.

Secondo l'Appiani, il Popolano più vecchio stava perdendo di vista il vero obiettivo del lavorare di tutti quegli anni, consumandosi dietro a ripicche e convinzioni che aveva elaborato da solo e senza che ve ne fosse un motivo oggettivo.

Inoltre Semiramide rendeva il cognato partecipe della decisione presa da Lorenzo di cercare di ostacolare – o quanto meno non caldeggiare – la richiesta da lui inoltrata per fornire a Caterina e ai suoi figli la cittadinanza fiorentina.

Solo presentandosi di persona alla Signoria, pensava lei, Giovanni avrebbe potuto perorare meglio la sua causa e far marciare gli affari d'ufficio che, in quel momento caotico, erano più a rilento che mai.

Infine, non senza accoratezza, la donna si diceva preoccupata e in ansia per la sorte di Ottaviano che, tra i membri della Signoria e i fiorentini in vista, era guardato con sprezzo e dileggiato come l'ultimo dei buffoni. Questo fatto non andava a ledere solo la Tigre, come credeva Lorenzo, ma anche i Medici, perché ormai, che fossero solo voci o realtà, il loro nome era legato saldamente a quello della Sforza e dunque una macchia su di lei equivaleva a una macchia su di loro.

Ricordava infine che oltre a Lorenzo, anche lei e i suoi figli si struggevano di nostalgia per lui, vinti da quella distanza durata già oltre due anni e che, essendosi lui accasato in Romagna, probabilmente a causa della guerra si sarebbe potuta protrarre ancora molto a lungo.

'Se hai a cuore lo frate tuo, che t'ha carissimo et che ti crebbe come un figlio – terminava tragicamente Semiramide – accorri in Firenze prima che puoi et sistema ogne cosa che ti sia possibile'.

La Leonessa finì di leggere e restò per qualche tempo con il foglio alto e gli occhi che non ardivano cercare il marito.

Finalmente capiva cosa lo stessa facendo soffrire a quel modo. E il fatto che le parole della cognata l'avessero smosso tanto faceva scendere nell'anima della Sforza un blocco di ghiaccio, perché se quel suo modo di essere era tra le cose che l'aveva conquistata, era anche una delle caratteristiche di lui che, ai fini della loro sopravvivenza, avrebbe voluto ridimensionare.

Con lentezza, ripiegò la lettera e la mise sul tavolo, assieme a quella di Ottaviano.

Appoggiandosi pesantemente al legno, incrociò le braccia sul petto e fissò il fiorentino che, seduto sul letto, teneva lo sguardo basso e le mani giunte in grembo.

Quell'atteggiamento, la Tigre ne era certa, significava solo una cosa: suo marito aveva già deciso cosa fare e temeva la sua reazione.

“Ah!” sbottò allora la Contessa, non riuscendo più a trattenersi: “La tua generosità finirà per ammazzarti!”

Il suo tono, rabbioso e cruento, fece sollevare gli occhi chiari al Medici che, appena vide la moglie andare verso la porta come se volesse andarsene, si alzò in piedi e la fermò proprio all'ultimo istante: “Dove stai andando?” le chiese, con un filo di voce.

Caterina guardò la mano rovinata del marito che le stringeva con fatica la manica. Sentiva gli occhi pizzicare, come se stesse per mettersi a piangere. Quello le fece capire quanto fosse arrabbiata e frustrata. Non si sentiva così da anni.

“Io lo so che tu vuoi correre a Firenze, salvare mio figlio, riappacificarti con tuo fratello, rinsaldare il vostro potere sulla Signoria...”

Giovanni lasciò la presa, senza dire nulla. Marito e moglie si guardarono negli occhi per un istante infinito, durante il quale si dissero più di quello che le parole avrebbero potuto.

“È davvero quello che vuoi, vero?” sussurrò alla fine la Tigre, allungando una mano e sfiorandogli la guancia con la punta delle dita.

“Io non voglio lasciarti.” rispose il Medici che, da quando aveva letto quelle missive non aveva fatto altro che pensare e valutare tutto quanto, rendendosi conto che andare a Firenze, nelle sua condizioni e con una guerra che stava già lasciando sul campo i primi morti, spostando in fretta i fronti di battaglia, avrebbe anche potuto significare non tornare mai più.

“Ma non vuoi nemmeno rinunciare a salvare quello che puoi. È così, no?” ribatté la donna, guardando da un'altra parte, maledicendosi per il tremore che aveva la sua voce.

Avrebbe voluto mostrarsi forte, decisa, in un senso o in un altro. Avrebbe voluto essere capace o di dirgli di andare già quel giorno e tornare vincitore, o di imporsi e obbligarlo a restare a Forlì al sicuro con lei.

Vinto dall'espressione straziata che infiammava il volto della moglie, Giovanni l'abbracci con forza, con decisione, e la Contessa ricambiò con la medesima violenza, tanto da fargli quasi male.

“Azzardati a non tornare vivo e giuro che vengo a recuperarti all'inferno solo per prenderti a pugni.” bisbigliò lei, con una voce che avrebbe voluto essere minacciosa, ma che invece suonò dolce e triste alle orecchie del fiorentino.

 

Giampaolo Baglioni fece un sorriso mellifluo a Guidobaldo da Montefeltro e riprese i documenti che l'altro aveva appena firmato.

“Sono sicuro che né io né voi avremo di che pentirci.” disse il perugino, mostrando ancora i denti, ma non esimendosi dallo squadrare il signore di Urbino.

Quell'atto di pace tra le due città, stipulato nel Castello delle Piscine, era molto più utile al Baglioni che al Montefeltro, eppure Giampaolo stava facendo quanto in suo potere per far intendere che fosse il contrario.

Guidobaldo quel giorno sembrava sconvolto, forse per colpa delle giornate frenetiche che lo avevano portato a quel trattato, o forse perché, almeno così dicevano in tanti, non godesse di ottima salute in quel periodo.

I suoi capelli biondo rossicci cadevano sudati sulla fronte e le sue gambette tozze non avevano requie, mentre stava seduto alla scrivania e, anche quando si alzò, mostrando l'ampio petto corazzato, continuava a spostare il peso da un piede all'altro come se non riuscisse a stare fermo.

“Quello che avete fatto – disse Baglioni, guardandolo con fare eloquente, mentre i testimoni del patto cominciavano a scambiarsi i convenevoli che avrebbero chiuso l'incontro – è molto grave, lo sapete anche voi. Razziare le mie terre e cercare per voi soldati tra quelli del mio Stato...”

Montefeltro si trattenne a stento dal fare qualche battutaccia e preferì lanciare al Baglioni una stoccata più sottile: “Voi cercate di far leva a Firenze con il Medici sbagliato, così come io ho cercato di far ingrossare le mie fila con i contadini sbagliati. Tutti prendono un abbaglio, prima o poi.”

Giampaolo, lento di mente in quel genere di schermaglie, comprese a fondo quell'attacco verbale solo quando Guidobaldo aveva già lasciato il castello.

“Lo sa...” borbottò tra sé, dicendosi che il Montefeltro doveva essere a perfetta conoscenza dei maneggi che lui e suo cognato Bartolomeo, assieme al riminese Malatesta stavano mettendo in piedi per recuperare Piero Medici e rimetterlo alla testa di Firenze.

“Mio signore – gli disse uno dei suoi secondi, quando lo vide alterarsi da solo – va tutto bene? Vi serve qualcosa?”

Il Baglioni alzò una mano, quasi volesse colpirlo per sfogare la sua rabbia, ma poi rigirò quel desiderio in un altro modo: “Mia sorella dov'è?”

“Madonna Pantasilea è nella camera del cucito, come sempre.” rispose il soldato, chinando il capo in segno di rispetto.

“Bene.” annuì il signore di Perugia: “Per un paio d'ore non voglio essere disturbato.” decretò e, a passo di marcia, attraversò il salone e si diresse verso la stanza del cucito per reclamare la compagnia di Pantasilea.

 

“Ti farò accompagnare da Corradino.” decise Caterina, lo sguardo rivolto al soffitto della Casina, il viso premuto contro il petto nudo del marito, le braccia aggrappate al suo corpo, come se volesse inconsciamente trattenerlo lì per sempre.

“Giovanni Corradino?” chiese il Medici, cercando di ricordare di quel soldato che la moglie aveva spesso decantato, salvo poi non farlo partire assieme a Ottaviano solo per poterlo tenere a Forlì come organizzatore di un'eventuale difesa.

“Sì.” confermò la donna: “Lui ti guarderà le spalle e...”

Il sospirò che seguì fece sospirare anche il fiorentino che, dando un veloce bacio alla testa della Tigre, cercò di rassicurarla: “Non farò l'eroe.”

“Cerca di stare attento con la salute...” lo redarguì la donna, annusando l'odore della sua pelle e sentendosi persa all'idea che presto non l'avrebbe più avuto accanto a sé tutto il giorno e ogni notte.

Dopo la lettura delle lettere, avevano iniziato a discuterne, ma poi avevano interrotto bruscamente la conversazione per dedicarsi ad altro. Giovanni l'aveva amata con dolcezza, quasi come se volesse far durare quel momento all'infinito, e Caterina, fedele a se stessa, aveva risposto ai suoi baci profondi e ai suoi movimenti gentili con assalti feroci e una fame che quasi aveva spaventato la Tigre stessa.

Quando non ce l'avevano fatta più, si erano accoccolati l'uno all'altra e, stando sotto il leggero lenzuolo estivo e grezzo che copriva il piccolo letto della Casina, avevano cominciato a pianificare in modo serio la partenza del Medici.

Dato che pareva a entrambi cruciale – se si voleva avere un qualche successo pratico – far arrivare il Popolano al fronte prima che l'esercito attaccasse per conquistare Pisa, si erano detti che la partenza di Giovanni non poteva essere differita oltre la metà del mese.

A quel modo, avevano subito pensato entrambi, i giorni che avevano ancora da trascorrere insieme si contavano su poche dita e la paura del distacco, per qualche minuto, aveva tolto a entrambi la voce.

Quando si erano rinfrancati, avevano iniziato a ragionare sulla composizione del drappello che avrebbe accompagnato Giovanni a Firenze. Dapprima l'uomo aveva ipotizzato di andare da solo o quasi, come aveva fatto quando era arrivato dalla sua città a Forlì. Poi, però, lui per primo si era trovato ad ammettere che la sua salute gli imponeva qualche accompagnatore in più.

“Corradino ti farà un buon servizio e io sarò più tranquilla a saperlo con te.” concluse la Contessa, senza ammettere repliche.

Siccome l'argomento sembrava esaurito, almeno per il momento, il Medici cambiò discorso: “Si è fatta quasi sera. Forse faremmo bene a tornare alla rocca.”

“Restiamo qui.” fece invece Caterina: “Torneremo domattina all'alba.”

Giovanni respirò a fondo e si mosse un po' sotto di lei, così la donna si scostò appena, rendendo più lasso il suo abbraccio. Sapeva perché il marito pareva insofferente all'idea di non tornare a Ravaldino fino al mattino dopo: andando a Firenze non avrebbe lasciato solo lei, ma anche Ludovico.

Allontanandosi ancora di più da lui – per quanto lo stretto giaciglio permettesse – la Sforza lo guardò in viso e poi, assorta, gli passò il pollice sulle labbra. La loro linea, definita e aggraziata, la rapì per qualche istante, fino a che lui non sorrise e le chiese curioso a che stesse pensando.

“Quando sarai lontano da me...” disse piano la donna, pentendosene subito e scuotendo il capo.

Il Medici ormai la conosceva troppo bene per non capire quale fosse la sua perplessità: “Confesso che non sarà facile. Tu mi hai abituato troppo bene...” rise, il ventre piatto che si alzava e si abbassava sotto al lenzuolo: “Ma tu sei stata il mio primo vero amore e sarai anche l'ultimo. Non potrei mai cercare la compagnia di un'altra donna.”

“Però potresti restare bloccato nel fiorentino anche per mesi...” soggiunse la Contessa, che voleva credergli a tutti i costi.

“Restare per un po' da solo non sarà un problema per me.” assicurò il Popolano, facendosi molto più serio e sfiorando la fronte della moglie con la sua.

Erano entrambi sul fianco, l'uno dinnanzi all'altra, e a dividerli c'era solo lo spazio di un respiro.

“Sai, Caterina, quando ci siamo conosciuti, appena ti ho vista, io ho subito smesso di cercare la compagnia di altre donne. Anche prima di capire di essermi innamorato di te, per me esistevi solo tu.” rivelò il Medici, per poi ritrovare il sorriso e confessare: “La prima notte che ho passato qui con te... Era da più di un anno, ormai, che non toccavo una donna. Non in quel senso, almeno.”

La Leonessa, a quelle parole, si sentì veramente rincuorata e si diede della stupida per aver anche solo potuto pensar male di suo marito. Giovanni era l'uomo più leale che avesse mai conosciuto ed era certa che non l'avrebbe tradita.

“Tu non hai paura che io possa cercare un altro uomo, mentre sei via?” domandò a quel punto la Leonessa, trovando strano che il marito non ricambiasse i sospetti.

Le labbra carnose del fiorentino si irrigidirono un istante, mentre si ritraeva e si metteva supino, le mani giunte sul petto e gli occhi chiari che puntavano in alto: “Io mi fido di te.” disse, con una certa tensione.

Quel modo di risponderle mise i brividi a Caterina che, in extremis, provò ad assicurare: “Io sono fedele, quando amo qualcuno.”

“Lo so.” convenne Giovanni, con un sospiro spezzato: “Lo so.”

Era come se volesse convincersi a tutti i costi che quello che la moglie gli stava dicendo fosse vero.

Deglutendo, un po' in difficoltà, la Sforza gli accarezzò il petto e poi le mani, indugiando anche sui tofi meno infiammati, come se non li vedesse, e ribadì: “Ci sei solo tu. Te l'ho promesso il giorno che ci siamo sposati e io mantengo la parola data.”

 

Rinieri della Sassetta caracollò rovinosamente a terra, sentendo i passi frenetici dei suoi inseguitori farsi sempre più vicini.

Era sfuggito allo scontro diretto, ma sapeva che quella volta sarebbe stato catturato. Scappare dopo San Regolo era stato quasi un miracolo, ma quella volta non poteva sperare di scampare ancora dalla prigionia.

Le voci dal forte accento fiorentino gridavano intimandogli di fermarsi.

'Ma che, siete ciechi?!' pensò lui rabbiosamente, arrancando nel terreno fangoso su cui era scivolato.

Nel buio incerto che precede l'alba, i soldati che lo avevano rincordo fino a lì gli arrivarono addosso. Storcendogli di malagrazia le braccia, lo fecero alzare, prendendolo in giro e urlandogli improperi e poi, senza trovare in lui alcuna resistenza, cominciarono a spintonarlo.

Il sentiero era scuro e sconnesso. Rinieri e quelli che lo avevano acciuffato rischiarono di cadere ancora un paio di volte, ma alla fine, quando l'uomo venne portato al cospetto, niente meno, di Vitelli, questi si disse molto contento di quella cattura, senza lamentarsi né del lungo tempo che era servito, né delle armature piene di fango dei suoi.

“Questo dovrebbe bastare – disse il comandante al suo attendente, a mo' di chiacchiera – per riscattare quel forlivese...”

“Achille Tiberti?” domandò il giovane, accompagnando il suo capo verso il padiglione.

“Esatto, quello.” confermò Vitelli, sbuffando: “Se vogliamo qualcuno che sappia guidare i soldati della Tigre, non possiamo certo aspettarci che lo faccia quel coniglio di un Riario...”

 

Giovanni non aveva chiuso occhio. Era appena spuntato il sole e dalla finestra un po' aperta arrivava leggero il profumo della mattina estiva.

Caterina dormiva accanto a lui, tenendogli in ostaggio un braccio che, schiacciato dal suo collo, ogni tanto formicolava in modo spiacevole. Tuttavia il Medici ben si guardava dal toglierlo. Era raro vederla tanto tranquilla nel sonno e dunque non voleva svegliarla inavvertitamente.

Passò un'altra buona mezz'ora, durante la quale l'uomo andò avanti a ragionare su quello che lo aspettava nei prossimi giorni e la Tigre a dormire. A un certo punto, però, quasi all'improvviso, il riposo della donna cominciò a farsi più agitato.

Il fiorentino, combattuto tra lo strapparla dall'incubo e lo sperare che si quietasse da sola e riprendesse a sognare normalmente, attese qualche minuto.

Quando, però, il corpo della moglie venne scosso dai consueti tremiti e dalle sue labbra uscirono ripetutamente le parole 'basta', 'morto' e 'Ludovico Marcobelli', il Popolano non resistette oltre e la chiamò a voce alta.

Risvegliandosi di colpo, sudata e agitata, la Sforza ebbe un momento di smarrimento e poi, in cerca di rassicurazione, si gettò su di lui, facendosi abbracciare.

“L'ho capito che ti pesa...” sussurrò Giovanni, accarezzandole pian piano la spalla, mentre il respiro della moglie si faceva via via più regolare.

“Cosa?” chiese lei, la voce arrochita e la mente ancora un po' confusa per colpa delle immagini che le avevano agitato il sonno.

“Che nostro figlio si chiami Ludovico.” rispose il Medici: “In fondo... Tuo zio si è un po' ammorbidito con noi, ma nemmeno troppo. Sarebbe magari il caso di cambiargli nome e farlo ribattezzare.”

La Contessa, che in quei tre mesi aveva sfiorato spesso quell'idea, senza avere mai il coraggio di parlargliene, restò in silenzio, stringendolo solo un po' di più.

“Facciamo così...” decise Giovanni, cercando il viso della moglie con una mano e facendola spostare quel tanto che bastava per arrivare a baciarle le labbra: “Tu pensaci. Quando torno da Firenze, se hai trovato un nome più adatto, provvederemo.”

“Ma ormai per te è Ludovico... Per tutti è Ludovico...” disse la Tigre, interrotta a metà frase dal marito che continuava a baciarla.

“Che si chiami Ludovico o in un altro modo, è sempre nostro figlio.” tagliò corto Giovanni che, sentendo il proprio corpo risvegliarsi, aveva fretta di chiudere il discorso e dedicarsi a Caterina.

La donna comprese e, felice sia per la proposta del marito, sia per l'entusiasmo che dimostrava ancora per lei, si lasciò andare a quello sprazzo di passione che accompagnò l'inizio di quel nuovo giorno.

   
 
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