Come
prima cosa consiglio la lettura di questa storia solo dopo
'Hopeless', per intendere meglio l'ambientazione e gli antefatti. In
'Hopeless' Sarah ha deciso di vivere per sempre con Jareth e
all'inizio la storia doveva concludersi semplicemente così,
in
quello che è in realtà un finale triste e ancora
'senza
speranza'.
Nei giorni seguenti la pubblicazione di quella
storia non sono riuscita a scrivere nulla perché Sarah si
lamentava nella mia testa della sua vita e di come le cose stessero
procedendo non proprio felicemente. E quindi, nulla, è nata
questo racconto e forse mi direte che sarebbe stato meglio non
sapere.
La situazione tra i due doveva aggiustarsi e non so se
ciò è avvenuto perché, in fin dei
conti, sia
l'uno che l'altra fanno sempre di testa loro e star dietro a entrambi
è una impresa.
Per qualsiasi chiarimento sono sempre
disponibile.
Ci troviamo a un anno di distanza rispetto a
'Hopeless', nell'ambientazione del Castello in rovina. Spero possiate
amarli nello stesso modo in cui li amo io, in un'altalena di odi et
amo. Li sento molto più miei adesso che nel testo precedente
e
c'è molto più di me stessa, anche se in un modo
contorto e non diretto.
Buona lettura!
Dedico
questo testo a Jareth e Sarah. Nella speranza possano trovare un
angolo di gioia anche nei giorni più bui.
E ringrazio gli
Imagine Dragons visto che sono riuscita a concludere tutto solo
grazie a 'Demons'! (Spero possa piacervi questa nuova storia, lo
spero tanto!)
CAN'T
PRETEND
(to
be a Princess)
This
is my Kingdom come
This
is my Kingdom come
When
You feel my heat
Look
into my eyes
It's
where my demons hide
It's
where my demons hide
Don't
get too close
It's
dark inside
Demons,
Imagine Dragons
Esistevano
altri mondi oltre a quello, ne era sicura. Altre realtà e
altre esistenze che arrancavano giorno dopo giorno, accontentandosi
delle briciole di pane che trovavano mischiate ai granelli di polvere
nera.
Altre persone, altre vite, che si affannavano a cercare
un momento per riuscire a respirare senza un sapore acido in bocca
che impediva loro di parlare e protestare.
Esistevano. Ne era
certa, tutto ciò esisteva davvero.
Ma era troppo lontano
da lei.
Era un eco distante che si scontrava contro il muro
della sua mente, dandole la sensazione di un formicolio alla nuca.
Come una mano fredda, morta, capace di stringerle il collo e i
capelli fino a farla svenire.
Una sensazione di lieve fastidio
e irritazione, un dito punto dal fuso di un arcolaio.
Qualcosa
di spezzato in un punto imprecisato dentro se stessa.
"Principessa."
Come dei sassi scheggiati che le graffiavano la coscienza,
muta, impossibilitata anche solo a urlare per sfogare il suo dolore.
"Torna da me."
Sollevò le palpebre e si
accorse che le mani erano bianche, pallide e tese per il modo in cui
stava stringendo il parapetto del Castello, talmente forte che
avrebbe potuto rompersi le ossa e provare ancora più dolore
di
quanto già non ne stesse provando con il cuore stretto su se
stesso.
"Sarah, torna da me."
Non
poteva fingere...
"Jareth,
ero solo soprappensiero. Non è successo nulla."
Era
sempre stata una pessima bugiarda. Una eccelsa pessima bugiarda.
Non
aveva fiducia neppure lei in quello che stava dicendo, pensando,
imbastendo come scusa banale su quella strada di silenzi e imbarazzo,
quella strada che era la loro vita insieme.
Precipitata, non
sapeva neanche come, quando, perché.
Era successo e
basta, era diventata una bolla di sapone sul punto di scoppiare tra
le sue dita.
Infelice per qualcosa che non ricordava, con la
bocca dello stomaco chiusa a pugno e le spalle scosse, incapaci di
non tremare.
Faceva
male.
"La
mia piccola Sarah."
Era
reale.
Jareth
fu vicino a lei e le prese le mani tra le sue, cercando di alleviarle
il fastidio con lievi movimenti circolari dei pollici.
Lei
osservò quel gesto e si accorse di avere le dita poco
curate,
le unghie mangiate, i polsi troppo sottili, nessun gioiello -nessun
anello-
prezioso.
Non
proprio ciò che ci si aspetta da una Principessa.
"Non
credo di essere più così piccola", mormorò,
inclinando la testa verso il pavimento scuro.
"Non è
passato tanto tempo."
Le sorrise mostrandole i denti,
ridendo piano.
Quei denti. Cosa le avevano fatto quei denti.
Eluse il suo sguardo, certa di avere le guance rosse e chiazze
anche sul collo mentre un ronzio nelle sue orecchie la scrollava
senza alcun riguardo, senza concederle di fermare le forme dei suoi
pensieri.
Morsi, baci, graffi.
Cicatrici appena inferte,
ombre sulla sua pelle bianca, talmente tante promesse d'amore scritte
su di lei che chiunque avrebbe potuto leggerle.
Era
meglio non ricordare, non quando...
"Sei
tanto infelice, Principessa? Ti sembrano passati secoli da quando sei
qui con me?"
Come se lei avesse ancora la capacità
di quantificare il tempo, di notare lo snocciolare delle ore.
Aveva
perso i secondi, il senso dei ticchetti degli orologi,
perché
aveva deciso di far coincidere la sua vita con la musica del suo
carillon preferito.
Solo un tipo diverso di molle e
ingranaggi.
"Non lo so. Quanto tempo è
passato?"
Poteva anche essere finito tutto.
Potevano
essere crollati imperi e regni, potevano essere stati annientati
interi popoli, demoliti i monumenti, sterminate innumerevoli specie,
morto il mondo come lei lo conosceva e nato altro che era
già
stato spazzato via dalla memoria di generazioni e generazioni di
uomini su tutti i pianeti, in qualsiasi epoca, persino mentre
parlavano lì, a poca distanza.
Tanto ormai lo spazio e il
tempo non le appartenevano più.
Tutto era lui.
Solo
lui.
E
non sapeva neppure da quando fosse quella la sua vita, una esistenza
ridotta alla consistenza stessa delle scarpette di cristallo delle
Principesse.
"Un anno. Un solo anno."
Percepì
una lieve incrinatura nel tono della sua voce, qualcosa che non
avrebbe mai notato se non si fosse trovata così vicina a
Jareth da poter vedere anche una smorfia delle sue labbra, piegate
verso il basso, solo un momento, in un gesto spontaneo che gli era
divenuto naturale.
Abile a nasconderle ogni possibile crepa, a negare l'evidenza, soprattutto l'evidenza, e a sorvolare su quello che si stava
sgretolando, sui loro errori. Nella ferma convinzione che fosse meglio
celare i cocci sotto il tappeto, altrimenti le bolle
sarebbero presto scoppiate, rivelando quanto tutto fosse sbagliato,
tutto fragile e niente, niente di niente.
Un
madornale...
Si
ritrovò all'improvviso le sue mani sul volto, le sue dita
che
le accarezzavano le tempie, gli zigomi, le guance.
"Hai
gli occhi tanto crudeli quanto belli. Mi uccidono."
Le
sfiorò il mento, rosso, anche il suo mento era arrossato,
come
il petto lasciato libero dalla scollatura dell'abito chiaro.
Il
respiro accelerato e le palpebre chiuse mentre nella sua mente si
confondevano le immagini, si raggomitolavano e annodavano a tratti.
Lui.
Dolce e sfrontato nelle sue attenzioni, in ogni
sussurro di promesse mai infrante.
Lui,
lei, loro. Tutto
e niente.
Le mani si spostarono dal collo ai capelli e le
sue ciocche nere ricaddero lungo le spalle perché le aveva
rovinato l'acconciatura, buttando malamente le forcine e posando sul
parapetto il fermaglio arancione.
"Così devono
essere. Sciolti, liberi."
Certo, i capelli di una popolana.
Non agghindati come quelli di una Principessa, non per lei che
non lo era mai stata se non nel ruolo di Principessa Trovatella senza
alcun futuro, senza speranza.
Mai alla possibile altezza di una
Regina.
Non
poteva...
Si
nascose nello spazio tra il suo collo e la spalla, mordendosi forte
le labbra per non baciargli la vena contro cui aveva posato la
fronte, crogiolandosi nel suo profumo con le palpebre talmente
strette da avere gli occhi lucidi.
Non..
"Vuoi
pettinarmi i capelli?", gli domandò, contro la mandibola
che tremava impercettibilmente.
"Odio vederti così
infelice, Sarah. E lo sei sempre."
No,
non poteva fingere.
E
non perché avesse scrupoli morali, un'etica da rispettare,
principi da seguire pedissequamente alla stregua di un'allieva
disciplinata, lo sguardo basso e le mani intrecciate dietro la
schiena.
Non poteva perché non
sapeva farlo.
Diciassette
anni erano nulla e ai suoi stessi occhi lei appariva ancora come una
bambina rinchiusa nella sua cameretta, cresciuta all'ombra dei libri o dei pupazzi.
Non aveva avuto il tempo di
imparare, di perfezionare, un atto tanto vicino al mondo degli
adulti, quel mondo in cui lei era stata rinchiusa senza la possibilità di crescere seguendo i suoi tempi,
gettata
ai piedi delle grandi responsabilità con ancora le sue
bambole
in mano.
Ma un mondo senza di lui... no.
No,
no, no.
No,
per
favore,
mai.
Jareth la attirò a sé, strappandola dai
suoi pensieri, e le strofinò semplicemente le labbra sulle
sue, non la forzò e non pretese altro, quasi non respirava o
forse entrambi erano immobili, in una distanza precaria che suscitava
in loro un dolore atroce.
Mai
vivere senza di lui, piuttosto morire.
"Vivo
tutta la mia vita in base alle aspettative che tu hai su di me."
È
difficile,
sembrò sussurrarle tra i denti.
Le strinse le guance,
affondò le dita nella sua pelle, la costrinse ad alzare il
viso e ad accettare il suo respiro in gola.
Ogni suo bacio era
profondo e egoista, non esistevano eccezioni.
Perché donava tutto se stesso nella pretesa di ottenere altrettanto, le schiudeva le
labbra anche con la forza -con i denti- e le portava via ogni avanzo di resistenza non appena le curava le stesse ferite che le aveva inferto,
quando il bacio diventava dolce e le mormorava un 'perdonami'
sulla sua bocca gonfia.
Generoso?
Era
irruente, voleva tutto e sempre, senza compromessi, alcuna mezza
misura, costantemente tutto.
Conviveva con la consapevolezza
che in lui ogni forma di generosità era in realtà
egoismo, ogni atto di bontà un tornaconto premeditato e che
non esisteva purezza in nessuno dei suoi gesti neanche quando la
prendeva per mano e le chiedeva di passeggiare insieme.
Lei
l'aveva sempre saputo eppure non aveva fatto nulla per sfuggire a
quel destino, aveva accettato qualsiasi compromesso pur di vivere
vicino al suo Re.
Diventata sua in ogni esistenza, in ogni modo
possibile, legata a doppio filo dalla sua bocca che pronunciava il
suo nome anche mentre la baciava, anche ora, con un verso adirato.
Sarah, con la r arrotondata contro i denti e l'ultimo filo di
voce sulla sillaba, un ordine e una preghiera in cinque lettere che
formavano lei.
Sarah.
Sarah,
Sarah, Sarah, Sarah...
Allontanò
il capo all'improvviso e si voltò di profilo, riprendendo
fiato con lo sguardo perso all'orizzonte.
Non
poteva più.
Era
difficile vivere in quell'irrealtà, tra quelle mura di
pietre
mal incastrate, nelle sale immense con i soffitti a volta, le scale
interminabili che si slanciavano verso l'alto.
Era
difficile.
Lei non era nessuno lì, in quel cosmo
incantato da favola per bambini più grandi, in quel Regno
che
sotto il balcone di pietra pareva addormentato, nessun suono o
rumore, musica dolce o urla di abitanti e passi lungo i viali
stretti.
Non c'era vento, non c'era calore.
Gli alberi
erano spogli, i rami intrecciati su loro stessi e sporgenti anche da
fessure e crepe del lastricato pavimento o dei muri sporchi, come se
ogni giorno piovesse terra e sabbia, tutto nero e rossiccio.
Era
una città in rovina, un deserto di anime sperdute celate ad
ogni angolo, tra le erbacce e i cespugli storti.
-Sarah-
Un'atmosfera malinconica e decadente gravava sulle
teste di ciascuno di loro senza che lei potesse fare niente, lei che
non era una vera Principessa ma un'usurpatrice di un trono destinato
a qualcun'altra.
Non
poteva più..
Un
nuovo dolore sordo le fece tremare una mano che nascose tra le pieghe
della gonna, tentando di far finta che non esistesse quella
sensazione di panico che le pungeva i piedi come tanti spilli sparsi
a terra.
Non fu molto veloce, tanto che lui se ne accorse e
fece due passi indietro.
"Sei così avida,
Principessa. La mia rovina."
La chiamavano tutti, in quel
Regno, Principessa.
E le sembrava sempre che fosse ironico, uno
scherzo, un'accondiscendenza di fronte al capriccio di una
bambina.
Piegarsi a questo gioco solo per compiacerla, ma intanto
burlarsi di una ragazzina ingenua.
Nessuno aveva il coraggio di
alzare il mento e di dirle la verità, quello che lei era
realmente.
Una
patetica...
"Ti
ho donato un mondo, me stesso, i tuoi sogni. Cosa altro desideri?
Cosa? Devi solo chiedere. Ordina e sarà fatto."
Quando
la guardava in quel modo ricordarsi di dover respirare diveniva
superfluo.
Nessuno l'aveva mai guardata così, con la
stessa tensione in bilico tra piacere e tormento.
Non c'era
nulla che potesse fare, la distruggeva ad ogni battito perso,
strappando a metà la sua ragione e facendole desiderare di
promettergli qualsiasi cosa.
Che si prendesse i pochi resti di
se stessa e giocasse con quel che ancora non era disperso della sua
anima, facesse quel che volesse.
Tutto pur di vederlo
sorridere.
E
non poteva, non poteva più...
"Dimmelo.
Ordinamelo, urlamelo qui e adesso. Grida. Batti i piedi e picchiami,
colpiscimi, finiscimi in questo istante. Tu e la tua
crudeltà."
Una pupilla gli aveva completamente mangiato l'occhio mentre
l'altra era una punta di inchiostro su un lago chiaro di notte.
Sembrava un animale braccato da un cacciatore feroce, con il
fucile premuto sulla fronte.
Allungò un braccio
per fermare il gesticolare delle sue mani e lui le afferrò
le
dita, subito dopo le spalle e la strinse forte contro il suo petto
aggrappandosi al suo abito e ai suoi capelli, lasciandole segni sulla
schiena e mormorando disperato al suo orecchio sinistro.
"Dimmi
cosa desideri, dimmelo e lo avrai. Tutto quanto, tutto puoi avere.
Dimmelo."
Jareth posò il capo sul suo collo mentre
le mani si chiudevano a pugni, stropicciando il suo vestito, vagando
sui fianchi, la pancia, poi di nuovo le scapole.
"Ordinamelo!"
"È solo malinconia, Jareth. Te lo prometto, mi
passerà presto."
Era lo stesso modo in cui toccava il
letto ogni mattina, appena sveglio.
La cercava subito, quasi
potesse scomparire di notte o all'alba, le attirava il corpo vicino
al suo senza permetterle di muoversi, con la fronte abbandonata sulla
sua nuca e un sospiro esausto tra i capelli.
-Mia
piccola cosa preziosa-
Stanco
di prima mattina e già pentito delle poche ore di sonno che
si
era concesso.
Gli stava facendo del male, senza volerlo.
Ma
non era suo l'errore, non era qualcosa che aveva il potere di
controllare, non sapeva fermare il malessere che aveva infettato la
sua ombra allungandosi poi a ghermire anche lei.
Doveva
consolarlo e non era capace neanche di capire se stessa.
Era
sua la colpa se lui da un tempo infinito aveva dimenticato il suo
sorriso strafottente, sicuro e arrogante, la smorfia di un uomo che
era certo del suo valore e della sua superiorità.
Ora
invece tutto era perso, l'aveva scheggiato lei.
Il Re distrutto
dall'infelicità della sua Principessa Trovatella, la
ragazzina
seduta sul trono che non arrivava a toccare il pavimento con i piedi
neppure indossando dei tacchi.
Troppo piccola, troppo
sbagliata.
Quanti errori aveva commesso il suo Re, mettere il
proprio regno tra le mani di una bambina che non conosceva altro se
non i giocattoli.
"È solo malinconia, Jareth.
Malinconia."
Lui ripeté la parola 'malinconia' come
se l'assaporasse per la prima volta e avesse un sapore amaro sulla
lingua.
Gli aveva già visto un'espressione simile.
Era
accaduto tempo fa, quando aveva indossato delle scarpette di
cristallo.
Aveva chiesto a un suddito di corte che fossero come
quelle descritte in suo libro di infanzia e che le calzassero
perfettamente, tanto chiare da risultare trasparenti, poco alte e
belle, belle, le più belle scarpette di cristallo che si
potessero indossare.
Era corsa da lui quando le aveva provate
per la prima volta, era quasi inciampata lungo le scale ma poi aveva
riso e aveva aperto la porta della loro camera da letto, mostrandogli
orgogliosa quanto più alta apparisse, quanto più
grande
e quanto -una giravolta- più bella.
Aveva riso e si era coperta
le guance.
Non si era mai definita bella, crogiolandosi nella
certezza di essere nulla di più e nulla di meno -banale,
banale, banale-.
Ma
quelle scarpette erano da Principessa -da
Regina-,
le aveva osservate e rimirate, aveva girato un'altra volta su se
stessa e gli aveva chiesto se piacessero anche a lui, se avesse fatto
bene ad indossarle, se a parer suo lei appariva molto più
alta
o poco, cosa ne pensasse, se le scarpette gli piacessero tanto o
tanto tanto e poi quanto più grande fosse perché
ora
era alta ma tanto o tanto tanto? E bella, almeno un po', almeno
un po' lo
era? Poco o tanto? Tanto o tanto tanto?
Come una bambina, una
bambina, un'ingenua bambina.
Jareth si era inginocchiato ai suoi
piedi e Sarah -illusa, stupida, patetica, avrebbe urlato
dopo- aveva immaginato altro, era già quasi per terra anche
lei per l'emozione, per la felicità, perché lo
amava e
tanto tanto tanto.
Una
bambina che corre e si fa male in una casa di specchi, pensando di
aver trovato il suo papà che era solo un riflesso.
Lui
le aveva sfilato le scarpe e subito dopo le aveva buttate senza
proferire alcuna parola.
Non era tanto Principessa allora, non
da poter calzare oggetti preziosi.
Forse da quel momento aveva
cominciato a sfilacciarsi qualcosa.
"Sarah."
Il
giorno dopo si era svegliata con un sorriso storto e lacrime tra le
ciglia di cui non si era accorta fino a quando non avevano preso a
rotolare sulle sue guance e lei non le aveva cancellate con il dorso
della mano, insieme anche alle briciole di sonno.
Era assonata,
sdraiata sul letto e tra i cuscini, e si era stropicciata le palpebre
e il viso lentamente senza vedere che Jareth era ai piedi del letto e che l'aveva vista piangere in silenzio mentre era intento ad aggiustarsi
i polsini.
"La tua crudeltà non conosce limiti,
Principessa."
Si era steso su di lei, quasi buttandosi sul
letto, e l'aveva stretta forte, baciata male, come se avesse cercato
di ricacciarle le lacrime in gola, e le aveva bisbigliato due parole
all'orecchio che non aveva sentito.
"Guardami, Sarah.
Guardami anche se significa uccidermi. Tu e questi occhi, guardami,
guardarmi, guarda me."
Si stavano facendo del male a
vicenda.
Le sollevò il viso che lei aveva di nuovo
nascosto sotto il suo collo e le accarezzò l'angolo degli
occhi, le palpebre socchiuse, le ciglia.
Il vento le arrotolò
la gonna dell'abito intorno alle sue gambe e spettinò i suoi
capelli che colpirono il viso di Jareth mentre il cielo diveniva sempre più scuro e rosso. Le prime luci della sera cominciarono ad essere accese agli angoli delle strade e qualche sfarfallio insistente distorse le ombre
delle spighe cresciute sui pavimenti di mattoni.
Anche il
Castello sembrò animarsi, passi striscianti rimbombarono contro il pavimento per poi spegnersi d’incanto mentre dei servi chiudevano i battenti di una
porta e appendevano delle luci arancioni in un corridoio.
Ma non
c'era nulla per lei, non lì dove era considerata dagli altri
come un'ombra fuggevole.
E non se ne stupiva, non recriminava
contro nessuno, visto il modo in cui doveva apparire a tutti loro,
ogni giorno.
Nello stesso identico modo in cui lei vedeva se
stessa quando era dinanzi a uno specchio.
Alla stregua di
un'amante ben voluta e a lungo desiderata, una giovane donna che non poteva sperare
di sognare qualcosa di più grande.
"Il tuo cuore.
Non lo capisco più, mi sembra di impazzire."
Lui le
stava parlando, la stava sfiorando, e lei non riusciva -non
così,
non senza più forze- a concentrarsi sul presente, ad avere
coscienza di come la loro storia fosse un fiore appassito.
(Una
rosa, sotto una teca, senza più petali)
Eppure avvertì
una scossa sotto la pelle per l'angoscia che gli lesse nei movimenti
del corpo, come quelli di un supplice ai piedi di un altare
pagano.
Si stavano facendo del male a vicenda.
"Non
c'è molto da capire sul mio cuore, Jareth", chiuse gli
occhi e lui non le lasciò andare il viso.
"È
sempre innamorato. Il potere più grande che potessi darti
è
sempre qui, sempre tuo."
Ti
amo sempre, ti amo troppo, ti amo tanto tanto tanto.
"Tu
vuoi andartene. Pensi che non l'abbia capito?"
Non voleva
andarsene. Non l'aveva mai pensato, non l'aveva considerato neanche
una volta, non era una possibilità realizzabile.
Senza
di lui non poteva.
"Ma non puoi. No. Prima forse ti... prima
forse sarei sopravvissuto, ma ora no. No, non dopo aver... no.”
No.
"E
te lo sto dicendo gentilmente, Sarah. No."
No.
Un
padre che rimbrotta con voce ferma la bambina disubbidiente e
capricciosa.
Si staccò talmente velocemente da lui
che fu come strapparsi un arto.
Non bisognerebbe mai dare tanto
potere ad un'unica persona.
Corse, abbandonò il balcone
e varcò la grande porta di vetro, calpestò le
lunghissime tende bianche che ricoprivano anche il pavimento, corse a
piedi nudi nel corridoio e aprì la sala chiusa a chiave fino
a
quando non si trovò nel mezzo della stanza e due mani le
afferrarono le spalle.
La
Principessa Trovatella scalza.
Non
si lasciò abbracciare e tentò di spingerlo via,
impuntò
i piedi e scosse il viso, mosse violentemente le braccia che le aveva
imprigionato dietro la schiena.
"Non lasciarmi, Sarah. Non
lasciarmi."
"Non voglio lasciarti!"
Riuscì
a liberare i polsi dalla sua presa, li strattonò forte e poi
provò di nuovo ad allontanarlo, fece qualche passo indietro
e scostò ogni tocco delle sue mani, gli colpì il
petto non appena le strinse i fianchi.
"Mi credi tanto stupido?"
Non riusciva a scorgere il suo sguardo, in tutta la stanza c'erano solo due fiaccole ed erano posizionate sulla parete opposta, atte a illuminare il trono e gli oggetti dorati sparsi sulle tavolate
lì
vicino, le coppe, i gioielli, ogni gingillo di argento, gli specchi
con le cornici di topazio, le pietre di lapislazzuli.
Allora gli colpì
ancora il petto, gli negò il viso e tentò di
sgusciare
fuori dalla prigione della sua stretta, dalla prigione di quei gomiti piegati intorno al
suo corpo.
"Lo sei davvero perché non hai capito
nulla. Lo sei perché giochi con me come se fossi io la
stupida
tra noi due."
Era lei la stupida, a credere davvero che i
sogni non si potessero trasformare in incubi da cui è
impossibile svegliarsi.
Non le interessavano i gioielli, non
voleva ornarsi i capelli, indossare abiti sfarzosi e scarpette di
cristallo, non aspirava all'inchino dei sudditi o al loro plauso.
Ma
il modo in cui lui la privava di tutto ciò, come se lei non
ne
fosse degna e fosse solo un ospite di passaggio in quel mondo, la
umiliava e intristiva, le faceva comprendere ciò che
rappresentava davvero ai suoi occhi, agli occhi del suo Re.
Fu
stretta possessivamente al suo petto, incapace di distinguere quale
cuore stesse battendo più forte.
Perché,
lui aveva un cuore?
"Di
cosa stai parlando?"
"Devi lasciarmi andare."
Lei era come un fiore che manteneva il capo superbo nonostante
la neve cercasse di fagocitarlo, piegarlo, ucciderlo.
Una folle
presuntuosa.
Inutile fingere, non era una Principessa, quella
non era la realtà, ma solo un desiderio agognato,
un'idealizzazione tramutata in un ricatto in cui lei rimaneva la
Principessa Trovatella scalza che non meritava nulla e
che doveva anche ringraziare per la cortesia e la gentilezza offerta,
per la carità, per aver avuto tutto pur essendo niente.
Che
fosse riconoscente perché lei doveva ricordarsi di essere la
ragazzina povera giunta alle porte del suo Castello senza un proprio
reame, potere, oro.
La ragazzina che poteva solo portare in
dono se stessa per ottenere un posto a corte.
La ragazzina che
aveva deciso di perdere se stessa entrando nelle stanze del suo
Re.
Ecco la generosità, ecco ciò che davvero aveva
fatto: aveva trasformato un letto nel suo trono.
Qualcosa
le gonfiò il petto mentre aveva il mento poggiato sulla sua
spalla e i muscoli tesi nello sforzo di liberarsi.
La bolla
scoppiata tra le punte delle sue dita.
"Mi odi?"
No,
Jareth, no. Odio me stessa.
La
strinse a sé con meno forza, ma non la lasciò
andare,
come se si stesse sorreggendo a fatica, con un lieve tremore che
soffocò e diede a lei, scossa in un punto delle gambe
e alla pancia mentre cercava di ricordarsi come fossero arrivati a
quella cosa indefinibile.
Non era un dolore buono.
"Mi
odi, Sarah? Mi odi?"
Odio
quello che sono diventata pur di vivere con te. Non ho potuto fare
altro.
"Io-"
Si
fermò dal continuare perché lui la
trascinò dal
lato opposto della sala, vicino alle luci, accanto ai tavoli ricolmi di oggetti preziosi e ai troni freddi.
La presa era leggera, ma le mani sembravano
strette attorno alle sue braccia come dei serpenti, il veleno che
già le infettava le vene, il sangue, il cuore.
Senza forza,
senza coscienza di se stessa, senza volontà.
Il volto di
lui pareva una maschera di orrore, quasi fosse in punto di morte.
Il
suo Re.
Aveva qualcosa negli occhi, le labbra torturate dai denti, e
respirava lentamente, -quasi non lo faceva. Lei chiuse le palpebre quando la luce le ferì la vista, quando tutto divenne
intollerabile, quando le mani di lui cominciarono a tremare e il suo
fiato le toccò la pelle, le ciglia.
"Occhi negli
occhi, fai il tuo dovere. Finisci quello che hai iniziato", lo disse a bassa voce e forse fu peggio di un urlo, perché
facevano più paura le sue parole sussurrate rispetto a
quelle gridate.
E avevano urlato mille parole negli ultimi mesi,
fingendo poi per giorni che tutto fosse semplice e uguale, tornando a litigare solo dietro le porte chiuse della loro camera.
"Apri
gli occhi, Sarah, e dimmelo."
Non
ti odio, Jareth, non ti odio. Ma per te non sono abbastanza.
"Sii
misericordiosa, Principessa. E sincera, almeno per una
volta."
Continuò a parlarle piano, un respiro ad ogni
parola, un tono talmente piatto che lei imbronciò le labbra
e prese aria dalla bocca mentre le caviglie si piegarono all'infuori e
i piedi nudi sfiorarono le sue scarpe.
Quando Jareth vide che
era scalza lasciò le sue braccia e le afferrò i
fianchi, la sollevò e posò sui suoi stivali neri.
Per non farle
patire il freddo, perché non si raffreddasse.
Generoso?
Quel
gesto portò in superficie tutti i suoi pensieri, le sue
paure,
i suoi sentimenti, in una maniera talmente veloce e arrogante che lui
avrebbe potuto leggerli tra le ciglia e le sue pupille.
Ti
ho dato me stesso. Hai me stesso ai tuoi piedi.
Lui
si era infilato sotto il suo cuore, talmente in profondità
che
non avrebbe più potuto liberarsene senza uccidere anche se
stessa.
Senza
di te io non esisterei.
Sollevò
le palpebre e prese un respiro profondo mentre lui non si muoveva e
la osservava immobile, con i capelli biondi che ricadevano fino alle
spalle e le ossa della gola in evidenza, la camicia sbottonata.
Quegli occhi.
"La prima volta che ho guardato i tuoi
occhi ho pensato che se avessi passato tutta la vita ad osservarli
non mi sarei mai sentita sola."
Trovò la forza di
sorridere, ma le dovette uscire una smorfia triste -una maschera di
Carnevale- perché lui la inglobò in suo abbraccio.
"Io ti amo,
Jareth."
I Re sono sempre talmente egoisti.
Pretendono
anche l'amore, non importa altro.
"Ma mi sento tanto sola
perché non riesco a capirti."
"Sei tu che mi
abbandoni per i tuoi pensieri. Io sono qui."
Sarah
alzò le punte dei piedi e si arrampicò sulle sue
scarpe, i lacci ruvidi annodati che calpestava, e le mani intrecciate
dietro al suo collo.
Lo baciò, prendendo il suo labbro
inferiore e aggrappandosi a lui con le unghie, sulla pelle della
nuca.
Odio
essere uno dei tuoi ennesimi giocattoli, uno dei tuoi tanti possibili
passatempo.
Buttare
le sue scarpette, allontanare da lei tutti i servi del Castello, non
farla avvicinare agli impegni reali, toglierle ogni acconciatura
più
elaborata, lasciarle solo vestiti semplici e cercare di accontentarla
con qualche oggetto prezioso ogni tanto.
Poteva significare
solo una cosa, le ricordava sempre la stessa realtà: non
doveva aspirare a nulla di più.
Lei non era abbastanza.
Jareth non ricambiò il bacio e si allontanò
portando indietro il viso, osservandola sotto la luce arancione che
le evidenziava in maniera infelice gli zigomi e i tratti del volto
stanco.
Doveva ancora esserle rimasto qualcuno dei suoi
pensieri tra le palpebre e la bocca schiusa, a colorarle le guance di
rosso.
Per sbaglio.
"Oh. Sei in errore, Sarah."
Odio
essere scesa a compromessi pur di considerarmi tua.
"Non
penso."
Alcune ciocche dei suoi capelli si erano attaccate
al mento, aderivano alla gola, le solleticavano le spalle sudate.
Allacciò più prepotentemente le braccia al suo
collo e premette la bocca sulla sua mandibola tesa, seguendo il
percorso fino al lobo dell'orecchio sinistro.
"No, Sarah.
Non hai davvero compreso nulla di me."
Io
sarò il tuo schiavo.
"È
impossibile. Ti sei sempre espresso tanto chiaramente", gli sussurrò, prima di immergere il volto fra i suoi capelli e di
piegare le braccia intorno al suo capo.
La curva che univa il
suo collo alla spalla. Quella. Quella era casa.
Dovette anche
lui dirle qualcosa sottovoce, sulla pelle nuda che gli colpiva
con il mento.
-Mia
piccola cosa preziosa-
Ma
poi si accorse solo di essere sollevata, di calpestare di nuovo
l'aria, di aderire stretta al suo corpo e di provare
uno strappo fisico nel momento in cui Jareth la fece sedere sul
trono.
Lui sembrava così imponente, in piedi, di fronte
a lei.
Un Re incapace di mostrare pietà, temuto da tutto
il suo popolo, non amato.
"Dovevo immaginarmelo. Un Re
tanto egoista si è meritato una Regina altrettanto crudele."
Si
piegò fino a poggiare le ginocchia a terra e i piedi di lei
sfiorarono la stoffa dei suoi pantaloni.
Sarah cominciò
a tormentarsi i palmi delle mani e lui sorrise in una maniera
infinitamente triste.
"Mostrami come si fa a non amarti
perché io non credo sia possibile."
Provò un
calore forte in pancia e incurvò la schiena come quasi a
proteggersi mentre le parole la abbandonavano e la vista diveniva
sfocata.
Il
suo Re.
"Dammi
le tue mani", le disse, e le stava già coprendo il
dorso e le nocche, stava già baciando le vene dei suoi
polsi.
-Tu
sei bellissima. Tu non sei sola-
"Vorrei
che fosse per sempre così. Con te che mi guardi e non sembri
vedere niente altro."
Sentì una improvvisa
tenerezza, un improvviso stringersi al petto, e non riuscì a
impedirsi di accarezzargli lentamente una guancia, con solo le punte
delle dita.
Jareth baciò il palmo dell'altra sua mano e
lei quasi li vide, quei lacci stretti che li legavano e che li
soffocavano, costringendoli a trovare sollievo solo quando erano
vicini.
Loro erano quanto di più sbagliato potesse
esistere.
"Tu crescerai e diventerai Regina. Ma per me
rimarrai sempre la mia Principessa."
Sollevò il
mento e si aggrappò a lui, sperando di riuscire a non cadere
per terra, scivolando giù dal trono troppo grande.
Jareth
aveva gli occhi chiusi e lei aveva paura di star precipitando in un
pozzo oscuro senza fondo.
"Perché? Perché non
sono abbastanza?"
"Perché io mi sono innamorato
di te guardandoti giocare in giardino, con un vestito da Principessa
e un libro in mano. E ti vedrò sempre così. Per
tutta
la mia vita."
Io
mi sono innamorato di te.
Erano
altri fili, altre catene arrugginite di cui si era perduta la chiave,
altre corde di raso.
Miele sulle sue ferite, sul suo orgoglio malato di ragazzina sola.
Come vivere sotto terra, con tutto buio
e orribile, senza aria, senza vita, solo morte e scheletri, errori e
sporco, odore di polvere e decisioni sbagliate.
Eppure bastava
cambiare prospettiva, bastava aprire il soffitto di terra. Serviva
solo qualcuno, dall'altra parte, capace di scavare con forza, guidato
dal desiderio di salvare proprio te.
"Ci sono altri motivi
dietro i gesti che ti hanno ferita. Ma, credimi, non potrebbero
essere più distanti da quello che tu pensi."
E così
tornava il Sole.
Sarah osservò le sue dita e
qualcosa le strinse i nervi e le vene, con una cattiveria
ingiustificabile. Tentò di alzarsi, senza riuscirci.
"Non
camminare scalza. Potresti farti male."
"Che cosa
significa?"
"Il pavimento...”
"No. Che
cosa significa questo?"
Jareth rimase in ginocchio, con il volto chino e una
espressione triste che la fece pentire delle sue parole.
Delle
parole che non aveva detto e di quelle che invece aveva sbagliato,
con frasi storpie e senza punti.
Fece di nuovo per alzarsi, ma
venne fermata dalle braccia di lui che le imprigionarono le
gambe.
"Non camminare scalza, Sarah. Non farlo più."
Sei
tu che butti via le mie scarpe. Sciogli tu i miei capelli.
Così
io non capisco più quale sia la verità.
In
parte doveva esserci
ancora
in lei la stessa ragazza con gli occhi lucidi e le unghie conficcate
nei palmi, la stessa di due anni prima.
La Principessa
Trovatella scalza, lei era sempre stato quello.
Ora nulla aveva
più un senso.
Non ricordava più chi fosse, quale
fosse il suo ruolo, non capiva quali motivi lo avessero spinto a comportarsi in quel modo.
"Io non sono una Principessa", mormorò, sottile.
"La mia piccola cosa preziosa può
essere qualsiasi cosa desideri."
Sarah allacciò le
sue caviglie intorno alla base della schiena di Jareth e il suo Re
posò la testa sul suo grembo, cercandole i fianchi, cercando
la sua pancia piatta e poi le cosce.
Lui doveva avere paura
-terrore-
di
perderla e di vivere spezzato, diviso, disperato. E sicuramente la
amava, a modo suo, e ferendola senza volerlo.
Forse seguiva
alcuni suoi pensieri, alcune sue convinzioni, o credeva qualcosa di
sbagliato e da ciò si lasciava consumare.
Perché
era fuoco e bruciava gli altri intorno a sé.
Jareth
affondò ancora di più il viso contro la sua
pancia e le
parlò sottovoce.
"Saprai tutto, io ti dirò la
verità. In fondo è la promessa che ti ho fatto e
così
sarà. Darti tutto. Qualsiasi cosa tu voglia."
Tutto
ciò che li aveva allontanati.
Ogni silenzio e ogni
omissione, ogni sguardo indecifrabile.
Lei sarebbe sempre
rimasta
la ragazzina innamorata persa, invaghita del suo Re senza maschera e
di tutte le sue dolci promesse.
Non
hai davvero compreso nulla di me.
"Sarah,
io volevo solo tentare di salvare ogni briciola di buono che
è
in te."
Ma avere una vita insieme significava dimenticare la
distinzione tra bene e male.
Era meglio così, per non
impazzire.
"Jareth..."
Amami,
Sarah.
I
loro sentimenti consistevano in nodi e in un pezzo di vetro.
Non
potevano vivere lontani, sarebbe stata un'esistenza di sofferenza e
tormento.
Ma, più vicini loro sarebbero stati, più
il pezzo di vetro avrebbe fatto male.
Perdonami,
Sarah.
Perché
si sarebbe adagiato al livello del cuore e avrebbe premuto fino a
entrare sotto pelle, nascondendosi e intorpidendo i muscoli,
spezzando le ossa e slegando i tendini.
Era un amore che
sanguinava.
Non
avrei mai voluto ferirti, Sarah.
Non
vedeva un possibile lieto fine.
"Non sarà un
matrimonio a salvarci", gli disse, anche se lo avrebbe
voluto, avrebbe voluto ogni cosa, altre promesse e qualsiasi altra
possibile certezza.
Una vita e altre mille insieme a lui, al
suo fianco, tra le sue mani e sopra i suoi piedi.
"No, lo
faranno le nostre promesse. Ed io ti prometto che ti
proteggerò
anche da me stesso, da ciò che sono."
Cercò
le sue labbra e i suoi denti non le fecero male mentre le sue mani
sembravano contenerla tutta nei palmi e le braccia le mostravano
quale fosse il perimetro in cui avrebbe dovuto respirare.
"Allora
dammi ancora un altro sogno e tutte le risposte che cerco. Mio
Re."
Jareth era in ginocchio e lei era seduta malamente su
un trono di foggia antica, ma l'immagine era una contorta forma di
generosità, un altro inganno.
Sapeva che scegliere lui,
ogni giorno, significava uccidere sempre di più una parte di
se stessa.
Ma ne valeva la pena.
Solo svegliarsi e vedere i
suoi occhi era abbastanza. Era tutto.
Quando sentiva le sue
labbra sulla pelle pensava sempre che dovevano esserci dei demoni
anche dentro di lei, qualcosa capace di vivere e nutrirsi vicino a
lui.
C'era una tale complementarietà nei loro gesti,
parole, pensieri.
Era una forma di bellezza, con le sue ombre, ma
non per questo meno splendente, non tra le mura del loro Regno.
Anche
a costo di lasciare andare una parte della sua umanità.
Lo
amava.
Si
potrebbe vivere in quegli occhi.
Lo
amava tanto tanto tanto.
Non
esisteva un amore grande quanto il loro.
"C'è
del male in me, Sarah. Ci sarà sempre."
Il
suo Re. Il suo amatissimo Re.
"Lo
so e io lo amerò."
Sempre.
Strinse
i pugni intorno alla stoffa candida della sua camicia e per sbaglio
gli ferì la pelle della gola, perché non era
abituata
ad indossarlo.
Un altro desiderio realizzato prima ancora di
esprimerlo ad alta voce.
Sul suo dito c'era un anello.
I
need to let you go
Your
eyes, They shine so bright
I
wanna save that light
I
can't escape this now
Unless
you show me how
Demons,
Imagine Dragons
Note
finali
1. La frase 'Vivo tutta la mia vita in base alle
aspettative che tu hai su di me' è ripresa dal film
Labyrinth
ed è sempre pronunciata da Jareth. Non evidenzio
di
nuovo altre frasi che sono state già utilizzate in
'Hopeless'
perchè le trovate nelle sue note finali.
2. 'Dammi le tue
mani. Tu sei bellissima. Tu non sei sola' sono frasi di David Bowie,
riprese dalla canzone Rock'n'roll Suicide.
3. L'immagine di
Jareth che si stende su Sarah mentre lei è ancora a letto
è
qualcosa che mi è piaciuto particolarmente descrivere
perché
trovate una immagine simile nel video di una delle canzoni di Bowie:
China Girl.
4. L'espressione Principessa Trovatella rimane non
mia ma di Virginia De Winter. Leggete Black Friars perché
non
ve ne pentirete mai.
5. Nel testo ci sono evidenti riferimenti
alle favole, per esempio le scarpette di cristallo di Cenerentola, la
Rosa sotto il vetro di Belle, il fuso dell'arcolaio di Aurora.
6.
È un lieto fine? Non lo so. Forse sì o forse no.
Tutto
può dipendere solo da loro. Non posso dire neanche se
c'è
molta più speranza adesso rispetto a prima.