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Autore: Cress Morlet    26/04/2018    19 recensioni
Dopo l’Epilogo
[Jareth/Sarah]
Esistevano altri mondi oltre a quello, ne era sicura. Altre realtà e altre esistenze che arrancavano giorno dopo giorno, accontentandosi delle briciole di pane che trovavano mischiate ai granelli di polvere nera.
Altre persone, altre vite, che si affannavano a cercare un momento per riuscire a respirare senza un sapore acido in bocca che impediva loro di parlare e protestare.
Esistevano. Ne era certa, tutto ciò esisteva davvero.
Ma era troppo lontano da lei.
Era un eco distante che si scontrava contro il muro della sua mente, dandole la sensazione di un formicolio alla nuca.
Come una mano fredda, morta, capace di stringerle il collo e i capelli fino a farla svenire.
Una sensazione di lieve fastidio e irritazione, un dito punto dal fuso di un arcolaio.
Qualcosa di spezzato in un punto imprecisato dentro se stessa.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jareth, Sarah
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Come prima cosa consiglio la lettura di questa storia solo dopo 'Hopeless', per intendere meglio l'ambientazione e gli antefatti. In 'Hopeless' Sarah ha deciso di vivere per sempre con Jareth e all'inizio la storia doveva concludersi semplicemente così, in quello che è in realtà un finale triste e ancora 'senza speranza'.
Nei giorni seguenti la pubblicazione di quella storia non sono riuscita a scrivere nulla perché Sarah si lamentava nella mia testa della sua vita e di come le cose stessero procedendo non proprio felicemente. E quindi, nulla, è nata questo racconto e forse mi direte che sarebbe stato meglio non sapere.
La situazione tra i due doveva aggiustarsi e non so se ciò è avvenuto perché, in fin dei conti, sia l'uno che l'altra fanno sempre di testa loro e star dietro a entrambi è una impresa.
Per qualsiasi chiarimento sono sempre disponibile.
Ci troviamo a un anno di distanza rispetto a 'Hopeless', nell'ambientazione del Castello in rovina. Spero possiate amarli nello stesso modo in cui li amo io, in un'altalena di odi et amo. Li sento molto più miei adesso che nel testo precedente e c'è molto più di me stessa, anche se in un modo contorto e non diretto.
Buona lettura! 

Dedico questo testo a Jareth e Sarah. Nella speranza possano trovare un angolo di gioia anche nei giorni più bui.
E ringrazio gli Imagine Dragons visto che sono riuscita a concludere tutto solo grazie a 'Demons'! (Spero possa piacervi questa nuova storia, lo spero tanto!)





CAN'T PRETEND
 
(to be a Princess)


This is my Kingdom come
This is my Kingdom come
When You feel my heat
Look into my eyes
It's where my demons hide
It's where my demons hide
Don't get too close
It's dark inside
Demons, Imagine Dragons



Esistevano altri mondi oltre a quello, ne era sicura. Altre realtà e altre esistenze che arrancavano giorno dopo giorno, accontentandosi delle briciole di pane che trovavano mischiate ai granelli di polvere nera.
Altre persone, altre vite, che si affannavano a cercare un momento per riuscire a respirare senza un sapore acido in bocca che impediva loro di parlare e protestare.
Esistevano. Ne era certa, tutto ciò esisteva davvero.
Ma era troppo lontano da lei.
Era un eco distante che si scontrava contro il muro della sua mente, dandole la sensazione di un formicolio alla nuca.
Come una mano fredda, morta, capace di stringerle il collo e i capelli fino a farla svenire.
Una sensazione di lieve fastidio e irritazione, un dito punto dal fuso di un arcolaio.
Qualcosa di spezzato in un punto imprecisato dentro se stessa.
"Principessa."
Come dei sassi scheggiati che le graffiavano la coscienza, muta, impossibilitata anche solo a urlare per sfogare il suo dolore.
"Torna da me."
Sollevò le palpebre e si accorse che le mani erano bianche, pallide e tese per il modo in cui stava stringendo il parapetto del Castello, talmente forte che avrebbe potuto rompersi le ossa e provare ancora più dolore di quanto già non ne stesse provando con il cuore stretto su se stesso.
"Sarah, torna da me."
Non poteva fingere...
"Jareth, ero solo soprappensiero. Non è successo nulla."
Era sempre stata una pessima bugiarda. Una eccelsa pessima bugiarda.
Non aveva fiducia neppure lei in quello che stava dicendo, pensando, imbastendo come scusa banale su quella strada di silenzi e imbarazzo, quella strada che era la loro vita insieme.
Precipitata, non sapeva neanche come, quando, perché.
Era successo e basta, era diventata una bolla di sapone sul punto di scoppiare tra le sue dita.
Infelice per qualcosa che non ricordava, con la bocca dello stomaco chiusa a pugno e le spalle scosse, incapaci di non tremare.
Faceva male.
"La mia piccola Sarah."
Era reale.

Jareth fu vicino a lei e le prese le mani tra le sue, cercando di alleviarle il fastidio con lievi movimenti circolari dei pollici.
Lei osservò quel gesto e si accorse di avere le dita poco curate, le unghie mangiate, i polsi troppo sottili, nessun gioiello
-nessun anello- prezioso.
Non proprio ciò che ci si aspetta da una Principessa.
"Non credo di essere più così piccola", mormorò, inclinando la testa verso il pavimento scuro.
"Non è passato tanto tempo."
Le sorrise mostrandole i denti, ridendo piano.
Quei denti. Cosa le avevano fatto quei denti.
Eluse il suo sguardo, certa di avere le guance rosse e chiazze anche sul collo mentre un ronzio nelle sue orecchie la scrollava senza alcun riguardo, senza concederle di fermare le forme dei suoi pensieri.
Morsi, baci, graffi.
Cicatrici appena inferte, ombre sulla sua pelle bianca, talmente tante promesse d'amore scritte su di lei che chiunque avrebbe potuto leggerle.
Era meglio non ricordare, non quando...
"Sei tanto infelice, Principessa? Ti sembrano passati secoli da quando sei qui con me?"
Come se lei avesse ancora la capacità di quantificare il tempo, di notare lo snocciolare delle ore.
Aveva perso i secondi, il senso dei ticchetti degli orologi, perché aveva deciso di far coincidere la sua vita con la musica del suo carillon preferito.
Solo un tipo diverso di molle e ingranaggi.
"Non lo so. Quanto tempo è passato?"
Poteva anche essere finito tutto.
Potevano essere crollati imperi e regni, potevano essere stati annientati interi popoli, demoliti i monumenti, sterminate innumerevoli specie, morto il mondo come lei lo conosceva e nato altro che era già stato spazzato via dalla memoria di generazioni e generazioni di uomini su tutti i pianeti, in qualsiasi epoca, persino mentre parlavano lì, a poca distanza.
Tanto ormai lo spazio e il tempo non le appartenevano più.
Tutto era lui.
Solo lui.
E non sapeva neppure da quando fosse quella la sua vita, una esistenza ridotta alla consistenza stessa delle scarpette di cristallo delle Principesse.

"Un anno. Un solo anno."
Percepì una lieve incrinatura nel tono della sua voce, qualcosa che non avrebbe mai notato se non si fosse trovata così vicina a Jareth da poter vedere anche una smorfia delle sue labbra, piegate verso il basso, solo un momento, in un gesto spontaneo che gli era divenuto naturale.
Abile a nasconderle ogni possibile crepa, a negare l'evidenza, soprattutto l'evidenza, e a sorvolare su quello che si stava sgretolando, sui loro errori. Nella ferma convinzione che fosse meglio celare i cocci sotto il tappeto, altrimenti le bolle sarebbero presto scoppiate, rivelando quanto tutto fosse sbagliato, tutto fragile e niente, niente di niente.
Un madornale...
Si ritrovò all'improvviso le sue mani sul volto, le sue dita che le accarezzavano le tempie, gli zigomi, le guance.
"Hai gli occhi tanto crudeli quanto belli. Mi uccidono."
Le sfiorò il mento, rosso, anche il suo mento era arrossato, come il petto lasciato libero dalla scollatura dell'abito chiaro.
Il respiro accelerato e le palpebre chiuse mentre nella sua mente si confondevano le immagini, si raggomitolavano e annodavano a tratti.
Lui.
Dolce e sfrontato nelle sue attenzioni, in ogni sussurro di promesse mai infrante.
Lui, lei, loro. Tutto e niente.

Le mani si spostarono dal collo ai capelli e le sue ciocche nere ricaddero lungo le spalle perché le aveva rovinato l'acconciatura, buttando malamente le forcine e posando sul parapetto il fermaglio arancione.
"Così devono essere. Sciolti, liberi."
Certo, i capelli di una popolana.
Non agghindati come quelli di una Principessa, non per lei che non lo era mai stata se non nel ruolo di Principessa Trovatella senza alcun futuro, senza speranza.
Mai alla possibile altezza di una Regina.
Non poteva...

Si nascose nello spazio tra il suo collo e la spalla, mordendosi forte le labbra per non baciargli la vena contro cui aveva posato la fronte, crogiolandosi nel suo profumo con le palpebre talmente strette da avere gli occhi lucidi.
Non..
"Vuoi pettinarmi i capelli?", gli domandò, contro la mandibola che tremava impercettibilmente.
"Odio vederti così infelice, Sarah. E lo sei sempre."
No, non poteva fingere.
E non perché avesse scrupoli morali, un'etica da rispettare, principi da seguire pedissequamente alla stregua di un'allieva disciplinata, lo sguardo basso e le mani intrecciate dietro la schiena.
Non poteva perché
non sapeva farlo.
Diciassette anni erano nulla e ai suoi stessi occhi lei appariva ancora come una bambina rinchiusa nella sua cameretta, cresciuta all'ombra dei libri o dei pupazzi.
Non aveva avuto il tempo di imparare, di perfezionare, un atto tanto vicino al mondo degli adulti, quel mondo in cui lei era stata rinchiusa senza la possibilità di crescere seguendo i suoi tempi, gettata ai piedi delle grandi responsabilità con ancora le sue bambole in mano.
Ma un mondo senza di lui... no.
No, no, no.
No,
per favore, mai.

Jareth la attirò a sé, strappandola dai suoi pensieri, e le strofinò semplicemente le labbra sulle sue, non la forzò e non pretese altro, quasi non respirava o forse entrambi erano immobili, in una distanza precaria che suscitava in loro un dolore atroce.
Mai vivere senza di lui, piuttosto morire.
"Vivo tutta la mia vita in base alle aspettative che tu hai su di me."
È difficile, sembrò sussurrarle tra i denti.
Le strinse le guance, affondò le dita nella sua pelle, la costrinse ad alzare il viso e ad accettare il suo respiro in gola.
Ogni suo bacio era profondo e egoista, non esistevano eccezioni.
Perché donava tutto se stesso nella pretesa di ottenere altrettanto, le schiudeva le labbra anche con la forza -con i denti- e le portava via ogni avanzo di resistenza non appena le curava le stesse ferite che le aveva inferto, quando il bacio diventava dolce e le mormorava un
'perdonami' sulla sua bocca gonfia.
Generoso?
Era irruente, voleva tutto e sempre, senza compromessi, alcuna mezza misura, costantemente tutto.
Conviveva con la consapevolezza che in lui ogni forma di generosità era in realtà egoismo, ogni atto di bontà un tornaconto premeditato e che non esisteva purezza in nessuno dei suoi gesti neanche quando la prendeva per mano e le chiedeva di passeggiare insieme.
Lei l'aveva sempre saputo eppure non aveva fatto nulla per sfuggire a quel destino, aveva accettato qualsiasi compromesso pur di vivere vicino al suo Re.
Diventata sua in ogni esistenza, in ogni modo possibile, legata a doppio filo dalla sua bocca che pronunciava il suo nome anche mentre la baciava, anche ora, con un verso adirato.
Sarah, con la r arrotondata contro i denti e l'ultimo filo di voce sulla sillaba, un ordine e una preghiera in cinque lettere che formavano lei.
Sarah.
Sarah, Sarah, Sarah, Sarah...

Allontanò il capo all'improvviso e si voltò di profilo, riprendendo fiato con lo sguardo perso all'orizzonte.
Non poteva più.
Era difficile vivere in quell'irrealtà, tra quelle mura di pietre mal incastrate, nelle sale immense con i soffitti a volta, le scale interminabili che si slanciavano verso l'alto.
Era difficile.
Lei non era nessuno lì, in quel cosmo incantato da favola per bambini più grandi, in quel Regno che sotto il balcone di pietra pareva addormentato, nessun suono o rumore, musica dolce o urla di abitanti e passi lungo i viali stretti.
Non c'era vento, non c'era calore.
Gli alberi erano spogli, i rami intrecciati su loro stessi e sporgenti anche da fessure e crepe del lastricato pavimento o dei muri sporchi, come se ogni giorno piovesse terra e sabbia, tutto nero e rossiccio.
Era una città in rovina, un deserto di anime sperdute celate ad ogni angolo, tra le erbacce e i cespugli storti.
-Sarah-
Un'atmosfera malinconica e decadente gravava sulle teste di ciascuno di loro senza che lei potesse fare niente, lei che non era una vera Principessa ma un'usurpatrice di un trono destinato a qualcun'altra.
Non poteva più..
Un nuovo dolore sordo le fece tremare una mano che nascose tra le pieghe della gonna, tentando di far finta che non esistesse quella sensazione di panico che le pungeva i piedi come tanti spilli sparsi a terra.
Non fu molto veloce, tanto che lui se ne accorse e fece due passi indietro.
"Sei così avida, Principessa. La mia rovina."
La chiamavano tutti, in quel Regno, Principessa.
E le sembrava sempre che fosse ironico, uno scherzo, un'accondiscendenza di fronte al capriccio di una bambina.
Piegarsi a questo gioco solo per compiacerla, ma intanto burlarsi di una ragazzina ingenua.
Nessuno aveva il coraggio di alzare il mento e di dirle la verità, quello che lei era realmente.
Una patetica...
"Ti ho donato un mondo, me stesso, i tuoi sogni. Cosa altro desideri? Cosa? Devi solo chiedere. Ordina e sarà fatto."
Quando la guardava in quel modo ricordarsi di dover respirare diveniva superfluo.
Nessuno l'aveva mai guardata così, con la stessa tensione in bilico tra piacere e tormento.
Non c'era nulla che potesse fare, la distruggeva ad ogni battito perso, strappando a metà la sua ragione e facendole desiderare di promettergli qualsiasi cosa.
Che si prendesse i pochi resti di se stessa e giocasse con quel che ancora non era disperso della sua anima, facesse quel che volesse.
Tutto pur di vederlo sorridere.
E non poteva, non poteva più...
"Dimmelo. Ordinamelo, urlamelo qui e adesso. Grida. Batti i piedi e picchiami, colpiscimi, finiscimi in questo istante. Tu e la tua crudeltà."
Una pupilla gli aveva completamente mangiato l'occhio mentre l'altra era una punta di inchiostro su un lago chiaro di notte.
Sembrava un animale braccato da un cacciatore feroce, con il fucile premuto sulla fronte.

Allungò un braccio per fermare il gesticolare delle sue mani e lui le afferrò le dita, subito dopo le spalle e la strinse forte contro il suo petto aggrappandosi al suo abito e ai suoi capelli, lasciandole segni sulla schiena e mormorando disperato al suo orecchio sinistro.
"Dimmi cosa desideri, dimmelo e lo avrai. Tutto quanto, tutto puoi avere. Dimmelo."
Jareth posò il capo sul suo collo mentre le mani si chiudevano a pugni, stropicciando il suo vestito, vagando sui fianchi, la pancia, poi di nuovo le scapole.
"Ordinamelo!"
"È solo malinconia, Jareth. Te lo prometto, mi passerà presto."
Era lo stesso modo in cui toccava il letto ogni mattina, appena sveglio.
La cercava subito, quasi potesse scomparire di notte o all'alba, le attirava il corpo vicino al suo senza permetterle di muoversi, con la fronte abbandonata sulla sua nuca e un sospiro esausto tra i capelli.
-Mia piccola cosa preziosa-
Stanco di prima mattina e già pentito delle poche ore di sonno che si era concesso.
Gli stava facendo del male, senza volerlo.
Ma non era suo l'errore, non era qualcosa che aveva il potere di controllare, non sapeva fermare il malessere che aveva infettato la sua ombra allungandosi poi a ghermire anche lei.
Doveva consolarlo e non era capace neanche di capire se stessa.
Era sua la colpa se lui da un tempo infinito aveva dimenticato il suo sorriso strafottente, sicuro e arrogante, la smorfia di un uomo che era certo del suo valore e della sua superiorità.
Ora invece tutto era perso, l'aveva scheggiato lei.
Il Re distrutto dall'infelicità della sua Principessa Trovatella, la ragazzina seduta sul trono che non arrivava a toccare il pavimento con i piedi neppure indossando dei tacchi.
Troppo piccola, troppo sbagliata.
Quanti errori aveva commesso il suo Re, mettere il proprio regno tra le mani di una bambina che non conosceva altro se non i giocattoli.

"È solo malinconia, Jareth. Malinconia."
Lui ripeté la parola 'malinconia' come se l'assaporasse per la prima volta e avesse un sapore amaro sulla lingua.
Gli aveva già visto un'espressione simile.
Era accaduto tempo fa, quando aveva indossato delle scarpette di cristallo.
Aveva chiesto a un suddito di corte che fossero come quelle descritte in suo libro di infanzia e che le calzassero perfettamente, tanto chiare da risultare trasparenti, poco alte e belle, belle, le più belle scarpette di cristallo che si potessero indossare.
Era corsa da lui quando le aveva provate per la prima volta, era quasi inciampata lungo le scale ma poi aveva riso e aveva aperto la porta della loro camera da letto, mostrandogli orgogliosa quanto più alta apparisse, quanto più grande e quanto -una giravolta- più bella.
Aveva riso e si era coperta le guance.
Non si era mai definita bella, crogiolandosi nella certezza di essere nulla di più e nulla di meno
-banale, banale, banale-.
Ma quelle scarpette erano da Principessa
-da Regina-, le aveva osservate e rimirate, aveva girato un'altra volta su se stessa e gli aveva chiesto se piacessero anche a lui, se avesse fatto bene ad indossarle, se a parer suo lei appariva molto più alta o poco, cosa ne pensasse, se le scarpette gli piacessero tanto o tanto tanto e poi quanto più grande fosse perché ora era alta ma tanto o tanto tanto? E bella, almeno un po', almeno un po' lo era? Poco o tanto? Tanto o tanto tanto?
Come una bambina, una bambina, un'ingenua bambina.
Jareth si era inginocchiato ai suoi piedi e Sarah -illusa, stupida, patetica, avrebbe
urlato dopo- aveva immaginato altro, era già quasi per terra anche lei per l'emozione, per la felicità, perché lo amava e tanto tanto tanto.
Una bambina che corre e si fa male in una casa di specchi, pensando di aver trovato il suo papà che era solo un riflesso.
Lui le aveva sfilato le scarpe e subito dopo le aveva buttate senza proferire alcuna parola.
Non era tanto Principessa allora, non da poter calzare oggetti preziosi.
Forse da quel momento aveva cominciato a sfilacciarsi qualcosa.
"Sarah."

Il giorno dopo si era svegliata con un sorriso storto e lacrime tra le ciglia di cui non si era accorta fino a quando non avevano preso a rotolare sulle sue guance e lei non le aveva cancellate con il dorso della mano, insieme anche alle briciole di sonno.
Era assonata, sdraiata sul letto e tra i cuscini, e si era stropicciata le palpebre e il viso lentamente senza vedere che Jareth era ai piedi del letto e che l'aveva vista piangere in silenzio mentre era intento ad aggiustarsi i polsini.
"La tua crudeltà non conosce limiti, Principessa."
Si era steso su di lei, quasi buttandosi sul letto, e l'aveva stretta forte, baciata male, come se avesse cercato di ricacciarle le lacrime in gola, e le aveva bisbigliato due parole all'orecchio che non aveva sentito.
"Guardami, Sarah. Guardami anche se significa uccidermi. Tu e questi occhi, guardami, guardarmi, guarda me."
Si stavano facendo del male a vicenda.
Le sollevò il viso che lei aveva di nuovo nascosto sotto il suo collo e le accarezzò l'angolo degli occhi, le palpebre socchiuse, le ciglia.
Il vento le arrotolò la gonna dell'abito intorno alle sue gambe e spettinò i suoi capelli che colpirono il viso di Jareth mentre il cielo diveniva sempre più scuro e rosso. Le prime luci della sera cominciarono ad essere accese agli angoli delle strade e qualche sfarfallio insistente distorse le ombre delle spighe cresciute sui pavimenti di mattoni.
Anche il Castello sembrò animarsi, passi striscianti rimbombarono contro il pavimento per poi spegnersi d’incanto mentre dei servi chiudevano i battenti di una porta e appendevano delle luci arancioni in un corridoio.
Ma non c'era nulla per lei, non lì dove era considerata dagli altri come un'ombra fuggevole.
E non se ne stupiva, non recriminava contro nessuno, visto il modo in cui doveva apparire a tutti loro, ogni giorno.
Nello stesso identico modo in cui lei vedeva se stessa quando era dinanzi a uno specchio.
Alla stregua di un'amante ben voluta e a lungo desiderata, una giovane donna che non poteva sperare di sognare qualcosa di più grande.
"Il tuo cuore. Non lo capisco più, mi sembra di impazzire."
Lui le stava parlando, la stava sfiorando, e lei non riusciva -non così, non senza più forze- a concentrarsi sul presente, ad avere coscienza di come la loro storia fosse un fiore appassito.
(Una rosa, sotto una teca, senza più petali)
Eppure avvertì una scossa sotto la pelle per l'angoscia che gli lesse nei movimenti del corpo, come quelli di un supplice ai piedi di un altare pagano.
Si stavano facendo del male a vicenda.

"Non c'è molto da capire sul mio cuore, Jareth", chiuse gli occhi e lui non le lasciò andare il viso.
"È sempre innamorato. Il potere più grande che potessi darti è sempre qui, sempre tuo."
Ti amo sempre, ti amo troppo, ti amo tanto tanto tanto.
"Tu vuoi andartene. Pensi che non l'abbia capito?"
Non voleva andarsene. Non l'aveva mai pensato, non l'aveva considerato neanche una volta, non era una possibilità realizzabile.
Senza di lui non poteva.
"Ma non puoi. No. Prima forse ti... prima forse sarei sopravvissuto, ma ora no. No, non dopo aver... no.”
No.
"E te lo sto dicendo gentilmente, Sarah. No."
No.
Un padre che rimbrotta con voce ferma la bambina disubbidiente e capricciosa.

Si staccò talmente velocemente da lui che fu come strapparsi un arto.
Non bisognerebbe mai dare tanto potere ad un'unica persona.
Corse, abbandonò il balcone e varcò la grande porta di vetro, calpestò le lunghissime tende bianche che ricoprivano anche il pavimento, corse a piedi nudi nel corridoio e aprì la sala chiusa a chiave fino a quando non si trovò nel mezzo della stanza e due mani le afferrarono le spalle.
La Principessa Trovatella scalza.
Non si lasciò abbracciare e tentò di spingerlo via, impuntò i piedi e scosse il viso, mosse violentemente le braccia che le aveva imprigionato dietro la schiena.
"Non lasciarmi, Sarah. Non lasciarmi."
"Non voglio lasciarti!"
Riuscì a liberare i polsi dalla sua presa, li strattonò forte e poi provò di nuovo ad allontanarlo, fece qualche passo indietro e scostò ogni tocco delle sue mani, gli colpì il petto non appena le strinse i fianchi.
"Mi credi tanto stupido?"
Non riusciva a scorgere il suo sguardo, in tutta la stanza c'erano solo due fiaccole ed erano posizionate sulla parete opposta, atte a illuminare il trono e gli oggetti dorati sparsi sulle tavolate lì vicino, le coppe, i gioielli, ogni gingillo di argento, gli specchi con le cornici di topazio, le pietre di lapislazzuli.
Allora gli colpì ancora il petto, gli negò il viso e tentò di sgusciare fuori dalla prigione della sua stretta, dalla prigione di quei gomiti piegati intorno al suo corpo.
"Lo sei davvero perché non hai capito nulla. Lo sei perché giochi con me come se fossi io la stupida tra noi due."
Era lei la stupida, a credere davvero che i sogni non si potessero trasformare in incubi da cui è impossibile svegliarsi.
Non le interessavano i gioielli, non voleva ornarsi i capelli, indossare abiti sfarzosi e scarpette di cristallo, non aspirava all'inchino dei sudditi o al loro plauso.
Ma il modo in cui lui la privava di tutto ciò, come se lei non ne fosse degna e fosse solo un ospite di passaggio in quel mondo, la umiliava e intristiva, le faceva comprendere ciò che rappresentava davvero ai suoi occhi, agli occhi del suo Re.
Fu stretta possessivamente al suo petto, incapace di distinguere quale cuore stesse battendo più forte.
Perché, lui aveva un cuore?
"Di cosa stai parlando?"
"Devi lasciarmi andare."
Lei era come un fiore che manteneva il capo superbo nonostante la neve cercasse di fagocitarlo, piegarlo, ucciderlo.
Una folle presuntuosa.
Inutile fingere, non era una Principessa, quella non era la realtà, ma solo un desiderio agognato, un'idealizzazione tramutata in un ricatto in cui lei rimaneva la Principessa Trovatella scalza che non meritava nulla e che doveva anche ringraziare per la cortesia e la gentilezza offerta, per la carità, per aver avuto tutto pur essendo niente.
Che fosse riconoscente perché lei doveva ricordarsi di essere la ragazzina povera giunta alle porte del suo Castello senza un proprio reame, potere, oro.
La ragazzina che poteva solo portare in dono se stessa per ottenere un posto a corte.
La ragazzina che aveva deciso di perdere se stessa entrando nelle stanze del suo Re.
Ecco la generosità, ecco ciò che davvero aveva fatto: aveva trasformato un letto nel suo trono.


Qualcosa le gonfiò il petto mentre aveva il mento poggiato sulla sua spalla e i muscoli tesi nello sforzo di liberarsi.
La bolla scoppiata tra le punte delle sue dita.
"Mi odi?"
No, Jareth, no. Odio me stessa.
La strinse a sé con meno forza, ma non la lasciò andare, come se si stesse sorreggendo a fatica, con un lieve tremore che soffocò e diede a lei, scossa in un punto delle gambe e alla pancia mentre cercava di ricordarsi come fossero arrivati a quella cosa indefinibile.
Non era un dolore buono.
"Mi odi, Sarah? Mi odi?"
Odio quello che sono diventata pur di vivere con te. Non ho potuto fare altro.
"Io-"
Si fermò dal continuare perché lui la trascinò dal lato opposto della sala, vicino alle luci, accanto ai tavoli ricolmi di oggetti preziosi e ai troni freddi.
La presa era leggera, ma le mani sembravano strette attorno alle sue braccia come dei serpenti, il veleno che già le infettava le vene, il sangue, il cuore.
Senza forza, senza coscienza di se stessa, senza volontà.
Il volto di lui pareva una maschera di orrore, quasi fosse in punto di morte.
Il suo Re.
Aveva qualcosa negli occhi, le labbra torturate dai denti, e respirava lentamente, -quasi non lo faceva. Lei chiuse le palpebre quando la luce le ferì la vista, quando tutto divenne intollerabile, quando le mani di lui cominciarono a tremare e il suo fiato le toccò la pelle, le ciglia.
"Occhi negli occhi, fai il tuo dovere. Finisci quello che hai iniziato", lo disse a bassa voce e forse fu peggio di un urlo, perché facevano più paura le sue parole sussurrate rispetto a quelle gridate.
E avevano urlato mille parole negli ultimi mesi, fingendo poi per giorni che tutto fosse semplice e uguale, tornando a litigare solo dietro le porte chiuse della loro camera.
"Apri gli occhi, Sarah, e dimmelo."
Non ti odio, Jareth, non ti odio. Ma per te non sono abbastanza.
"Sii misericordiosa, Principessa. E sincera, almeno per una volta."
Continuò a parlarle piano, un respiro ad ogni parola, un tono talmente piatto che lei imbronciò le labbra e prese aria dalla bocca mentre le caviglie si piegarono all'infuori e i piedi nudi sfiorarono le sue scarpe.
Quando Jareth vide che era scalza lasciò le sue braccia e le afferrò i fianchi, la sollevò e posò sui suoi stivali neri.
Per non farle patire il freddo, perché non si raffreddasse.
Generoso?
Quel gesto portò in superficie tutti i suoi pensieri, le sue paure, i suoi sentimenti, in una maniera talmente veloce e arrogante che lui avrebbe potuto leggerli tra le ciglia e le sue pupille.
Ti ho dato me stesso. Hai me stesso ai tuoi piedi.
Lui si era infilato sotto il suo cuore, talmente in profondità che non avrebbe più potuto liberarsene senza uccidere anche se stessa.
Senza di te io non esisterei.

Sollevò le palpebre e prese un respiro profondo mentre lui non si muoveva e la osservava immobile, con i capelli biondi che ricadevano fino alle spalle e le ossa della gola in evidenza, la camicia sbottonata.
Quegli occhi.
"La prima volta che ho guardato i tuoi occhi ho pensato che se avessi passato tutta la vita ad osservarli non mi sarei mai sentita sola."
Trovò la forza di sorridere, ma le dovette uscire una smorfia triste -una maschera di Carnevale- perché lui la inglobò in suo abbraccio.
"Io ti amo, Jareth."
I Re sono sempre talmente egoisti. Pretendono anche l'amore, non importa altro.
"Ma mi sento tanto sola perché non riesco a capirti."
"Sei tu che mi abbandoni per i tuoi pensieri. Io sono qui."
Sarah alzò le punte dei piedi e si arrampicò sulle sue scarpe, i lacci ruvidi annodati che calpestava, e le mani intrecciate dietro al suo collo.
Lo baciò, prendendo il suo labbro inferiore e aggrappandosi a lui con le unghie, sulla pelle della nuca.
Odio essere uno dei tuoi ennesimi giocattoli, uno dei tuoi tanti possibili passatempo.
Buttare le sue scarpette, allontanare da lei tutti i servi del Castello, non farla avvicinare agli impegni reali, toglierle ogni acconciatura più elaborata, lasciarle solo vestiti semplici e cercare di accontentarla con qualche oggetto prezioso ogni tanto.
Poteva significare solo una cosa, le ricordava sempre la stessa realtà: non doveva aspirare a nulla di più.
Lei non era abbastanza.

Jareth non ricambiò il bacio e si allontanò portando indietro il viso, osservandola sotto la luce arancione che le evidenziava in maniera infelice gli zigomi e i tratti del volto stanco.
Doveva ancora esserle rimasto qualcuno dei suoi pensieri tra le palpebre e la bocca schiusa, a colorarle le guance di rosso.
Per sbaglio.
"Oh. Sei in errore, Sarah."
Odio essere scesa a compromessi pur di considerarmi tua.
"Non penso."
Alcune ciocche dei suoi capelli si erano attaccate al mento, aderivano alla gola, le solleticavano le spalle sudate.
Allacciò più prepotentemente le braccia al suo collo e premette la bocca sulla sua mandibola tesa, seguendo il percorso fino al lobo dell'orecchio sinistro.
"No, Sarah. Non hai davvero compreso nulla di me."
Io sarò il tuo schiavo.
"È impossibile. Ti sei sempre espresso tanto chiaramente", gli sussurrò, prima di immergere il volto fra i suoi capelli e di piegare le braccia intorno al suo capo.
La curva che univa il suo collo alla spalla. Quella. Quella era casa.
Dovette anche lui dirle qualcosa sottovoce, sulla pelle nuda che gli colpiva con il mento.
-Mia piccola cosa preziosa-
Ma poi si accorse solo di essere sollevata, di calpestare di nuovo l'aria, di aderire stretta al suo corpo e di provare uno strappo fisico nel momento in cui Jareth la fece sedere sul trono.
Lui sembrava così imponente, in piedi, di fronte a lei.
Un Re incapace di mostrare pietà, temuto da tutto il suo popolo, non amato.
"Dovevo immaginarmelo. Un Re tanto egoista si è meritato una Regina altrettanto crudele."
Si piegò fino a poggiare le ginocchia a terra e i piedi di lei sfiorarono la stoffa dei suoi pantaloni.
Sarah cominciò a tormentarsi i palmi delle mani e lui sorrise in una maniera infinitamente triste.
"Mostrami come si fa a non amarti perché io non credo sia possibile."
Provò un calore forte in pancia e incurvò la schiena come quasi a proteggersi mentre le parole la abbandonavano e la vista diveniva sfocata.
Il suo Re.
"Dammi le tue mani", le disse, e le stava già coprendo il dorso e le nocche, stava già baciando le vene dei suoi polsi.
-Tu sei bellissima. Tu non sei sola-
"Vorrei che fosse per sempre così. Con te che mi guardi e non sembri vedere niente altro."
Sentì una improvvisa tenerezza, un improvviso stringersi al petto, e non riuscì a impedirsi di accarezzargli lentamente una guancia, con solo le punte delle dita.
Jareth baciò il palmo dell'altra sua mano e lei quasi li vide, quei lacci stretti che li legavano e che li soffocavano, costringendoli a trovare sollievo solo quando erano vicini.
Loro erano quanto di più sbagliato potesse esistere.
"Tu crescerai e diventerai Regina. Ma per me rimarrai sempre la mia Principessa."
Sollevò il mento e si aggrappò a lui, sperando di riuscire a non cadere per terra, scivolando giù dal trono troppo grande.
Jareth aveva gli occhi chiusi e lei aveva paura di star precipitando in un pozzo oscuro senza fondo.
"Perché? Perché non sono abbastanza?"
"Perché io mi sono innamorato di te guardandoti giocare in giardino, con un vestito da Principessa e un libro in mano. E ti vedrò sempre così. Per tutta la mia vita."
Io mi sono innamorato di te.
Erano altri fili, altre catene arrugginite di cui si era perduta la chiave, altre corde di raso.
Miele sulle sue ferite, sul suo orgoglio malato di ragazzina sola.
Come vivere sotto terra, con tutto buio e orribile, senza aria, senza vita, solo morte e scheletri, errori e sporco, odore di polvere e decisioni sbagliate.
Eppure bastava cambiare prospettiva, bastava aprire il soffitto di terra. Serviva solo qualcuno, dall'altra parte, capace di scavare con forza, guidato dal desiderio di salvare proprio te.
"Ci sono altri motivi dietro i gesti che ti hanno ferita. Ma, credimi, non potrebbero essere più distanti da quello che tu pensi."
E così tornava il Sole.

Sarah osservò le sue dita e qualcosa le strinse i nervi e le vene, con una cattiveria ingiustificabile. Tentò di alzarsi, senza riuscirci.
"Non camminare scalza. Potresti farti male."
"Che cosa significa?"
"Il pavimento...”
"No. Che cosa significa
questo?"
Jareth rimase in ginocchio, con il volto chino e una espressione triste che la fece pentire delle sue parole.
Delle parole che non aveva detto e di quelle che invece aveva sbagliato, con frasi storpie e senza punti.
Fece di nuovo per alzarsi, ma venne fermata dalle braccia di lui che le imprigionarono le gambe.
"Non camminare scalza, Sarah. Non farlo più."
Sei tu che butti via le mie scarpe. Sciogli tu i miei capelli. Così io non capisco più quale sia la verità.
In parte doveva esserci
ancora in lei la stessa ragazza con gli occhi lucidi e le unghie conficcate nei palmi, la stessa di due anni prima.
La Principessa Trovatella scalza, lei era sempre stato quello.
Ora nulla aveva più un senso.
Non ricordava più chi fosse, quale fosse il suo ruolo, non capiva quali motivi lo avessero spinto a comportarsi in quel modo.
"Io non sono una Principessa", mormorò, sottile.
"La mia piccola cosa preziosa può essere qualsiasi cosa desideri."
Sarah allacciò le sue caviglie intorno alla base della schiena di Jareth e il suo Re posò la testa sul suo grembo, cercandole i fianchi, cercando la sua pancia piatta e poi le cosce.
Lui doveva avere paura
-terrore- di perderla e di vivere spezzato, diviso, disperato. E sicuramente la amava, a modo suo, e ferendola senza volerlo.
Forse seguiva alcuni suoi pensieri, alcune sue convinzioni, o credeva qualcosa di sbagliato e da ciò si lasciava consumare.
Perché era fuoco e bruciava gli altri intorno a sé.
Jareth affondò ancora di più il viso contro la sua pancia e le parlò sottovoce.
"Saprai tutto, io ti dirò la verità. In fondo è la promessa che ti ho fatto e così sarà. Darti tutto. Qualsiasi cosa tu voglia."
Tutto ciò che li aveva allontanati.
Ogni silenzio e ogni omissione, ogni sguardo indecifrabile.
Lei sarebbe sempre
rimasta la ragazzina innamorata persa, invaghita del suo Re senza maschera e di tutte le sue dolci promesse.
Non hai davvero compreso nulla di me.
"Sarah, io volevo solo tentare di salvare ogni briciola di buono che è in te."
Ma avere una vita insieme significava dimenticare la distinzione tra bene e male.
Era meglio così, per non impazzire.
"Jareth..."
Amami, Sarah.
I loro sentimenti consistevano in nodi e in un pezzo di vetro.
Non potevano vivere lontani, sarebbe stata un'esistenza di sofferenza e tormento.
Ma, più vicini loro sarebbero stati, più il pezzo di vetro avrebbe fatto male.
Perdonami, Sarah.
Perché si sarebbe adagiato al livello del cuore e avrebbe premuto fino a entrare sotto pelle, nascondendosi e intorpidendo i muscoli, spezzando le ossa e slegando i tendini.
Era un amore che sanguinava.
Non avrei mai voluto ferirti, Sarah.
Non vedeva un possibile lieto fine.
"Non sarà un matrimonio a salvarci", gli disse, anche se lo avrebbe voluto, avrebbe voluto ogni cosa, altre promesse e qualsiasi altra possibile certezza.
Una vita e altre mille insieme a lui, al suo fianco, tra le sue mani e sopra i suoi piedi.
"No, lo faranno le nostre promesse. Ed io ti prometto che ti proteggerò anche da me stesso, da ciò che sono."
Cercò le sue labbra e i suoi denti non le fecero male mentre le sue mani sembravano contenerla tutta nei palmi e le braccia le mostravano quale fosse il perimetro in cui avrebbe dovuto respirare.
"Allora dammi ancora un altro sogno e tutte le risposte che cerco. Mio Re."
Jareth era in ginocchio e lei era seduta malamente su un trono di foggia antica, ma l'immagine era una contorta forma di generosità, un altro inganno.
Sapeva che scegliere lui, ogni giorno, significava uccidere sempre di più una parte di se stessa.
Ma ne valeva la pena.
Solo svegliarsi e vedere i suoi occhi era abbastanza. Era tutto.
Quando sentiva le sue labbra sulla pelle pensava sempre che dovevano esserci dei demoni anche dentro di lei, qualcosa capace di vivere e nutrirsi vicino a lui.
C'era una tale complementarietà nei loro gesti, parole, pensieri.
Era una forma di bellezza, con le sue ombre, ma non per questo meno splendente, non tra le mura del loro Regno.
Anche a costo di lasciare andare una parte della sua umanità.
Lo amava.
Si potrebbe vivere in quegli occhi.
Lo amava tanto tanto tanto.
Non esisteva un amore grande quanto il loro.
"C'è del male in me, Sarah. Ci sarà sempre."
Il suo Re. Il suo amatissimo Re.
"Lo so e io lo amerò."
Sempre.
Strinse i pugni intorno alla stoffa candida della sua camicia e per sbaglio gli ferì la pelle della gola, perché non era abituata ad indossarlo.
Un altro desiderio realizzato prima ancora di esprimerlo ad alta voce.
Sul suo dito c'era un anello.




I need to let you go
Your eyes, They shine so bright
I wanna save that light
I can't escape this now
Unless you show me how
Demons, Imagine Dragons



 

Note finali
1. La frase 'Vivo tutta la mia vita in base alle aspettative che tu hai su di me' è ripresa dal film Labyrinth ed è sempre pronunciata da Jareth.  Non evidenzio di nuovo altre frasi che sono state già utilizzate in 'Hopeless' perchè le trovate nelle sue note finali.
2. 'Dammi le tue mani. Tu sei bellissima. Tu non sei sola' sono frasi di David Bowie, riprese dalla canzone Rock'n'roll Suicide.
3. L'immagine di Jareth che si stende su Sarah mentre lei è ancora a letto è qualcosa che mi è piaciuto particolarmente descrivere perché trovate una immagine simile nel video di una delle canzoni di Bowie: China Girl.
4. L'espressione Principessa Trovatella rimane non mia ma di Virginia De Winter. Leggete Black Friars perché non ve ne pentirete mai.
5. Nel testo ci sono evidenti riferimenti alle favole, per esempio le scarpette di cristallo di Cenerentola, la Rosa sotto il vetro di Belle, il fuso dell'arcolaio di Aurora.
6. È un lieto fine? Non lo so. Forse sì o forse no. Tutto può dipendere solo da loro. Non posso dire neanche se c'è molta più speranza adesso rispetto a prima.

   
 
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