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Autore: Adeia Di Elferas    26/04/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina si rigirò nel letto. Il lenzuolo le si era attaccato un po' alla pelle per colpa del sudore. Il caldo non lasciava la città nemmeno di notte, ormai, e spesso era difficile riuscire a prendere sonno, anche tenendo la finestra aperta.

La Tigre, quindi, che si era addormentata relativamente da poco, aprì subito gli occhi quando si rese conto che Giovanni non era accanto a lei. Nel buio, rischiarato appena dalla luce della luna che arrivava tersa e fredda, la donna si accorse che il marito era ancora in camera e si stava vestendo.

Le dava le spalle e la sua schiena pallida era chinata. Si era già infilato le brache e si stava mettendo le scarpe. Quando si spostò per recuperare la camicia, finalmente il Medici notò che la Contessa era sveglia.

“Dove stai andando?” gli chiese lei, scoprendosi un po', per rinfrescarsi, e fissandolo.

Il Popolano si schiarì la voce. Quella era la penultima notte prima della sua partenza. Avrebbe voluto passarla tranquillamente addormentato tra le braccia della sua Caterina, ma la sua testa non gli dava un attimo di pace.

Quando la Leonessa si era assopita, un paio di ore prima, lui era rimasto con gli occhi sgranati rivolti al soffitto e alla fine aveva deciso di fare qualcosa, perché non riusciva a tacitare tutto quello che gli si agitava nel petto.

“In chiesa.” rispose lui, a voce bassa, quasi con fretta.

La Sforza fece un sospiro e distolse lo sguardo, abbandonando la testa sul cuscino e allargando le braccia sul materasso ancora umido del sudore di entrambi: “A quest'ora?” chiese, ben sapendo che comunque non gli avrebbe fatto cambiare idea.

“Preferisco. Adesso non incontrerò nessuno.” confermò il Medici, che già aveva pensato di andare alla chiesa di San Girolamo, dove i Battuti gli avrebbero sicuramente aperto.

“Vuoi che ti accompagni?” chiese la donna, senza aspettarsi di sentirsi dire di sì.

“No, non preoccuparti. Vado, prego un momento, e poi torno alla rocca.” disse infatti il fiorentino.

“Qui da me?” domandò Caterina, quasi con distrazione.

“Prima magari passo da nostro figlio.” soppesò Giovanni, infilandosi la camicia e chiudendone in fretta i lacci: “Per stare un po' con lui... Intanto che c'è tranquillo.”

La Contessa annuì, si raccomandò: “Stai attento, soprattutto in città.” e, dopo che egli si fu piegato un momento sul letto per salutarla con un bacio, strinse a sé il guanciale, annusando il sentore del marito e cercò di riaddormentarsi, dicendosi che, tanto, aspettarlo sveglia sarebbe servito a poco.

Il Popolano, vedendola relativamente tranquilla, uscì senza dire altro e in pochi minuti fu fuori dalla rocca.

L'aria della notte era piacevole e il suo odore strano, un insieme di strade sporche, profumo di campi e fumi ancora non del tutto svaniti di osteria, lo accompagnò fino alla chiesa di San Girolamo.

Come aveva previsto, non trovò alcun problema nell'entrare e, anzi, quando provò a dare una moneta al prete per il disturbo di avergli aperto il portone, quello si rifiutò, dicendogli che la casa di Dio non aveva bisogno di pedaggi.

Il Medici allora andò davanti all'altare. Solo qualche candela era ancora accesa e dava alla navata centrale un che di spettrale che, tuttavia, a Giovanni non dispiaceva. In un certo senso, gli permetteva di concentrarsi di più sul tormento che provava verso di sé.

Avrebbe voluto mettersi in ginocchio, ma le sue gambe si erano fatte rigide, per colpa delle fatiche della giornata, e così rimase in piedi, limitandosi a chinare il capo e sillabare in un sussurro tutte le preghiere che conosceva.

Chiese aiuto a Dio, che lo accompagnasse in quel viaggio e che gli desse la forza, soprattutto, di ritrovare suo fratello. La distanza che si era creata tra loro, senza che, almeno all'inizio, il Popolano se ne rendesse conto, lo spaventava.

Finite le sue orazioni, fattosi il segno della croce, il fiorentino camminò lentamente e claudicante lungo tutto il perimetro della chiesa, fino ad arrivare alla cappella Feo.

Si trovò quasi senza accorgersene a fissare la lapide di Giacomo. Fece un sospiro profondo e provò pietà, per quel ragazzo morto a ventiquattro anni, per mano di persone di cui, bene o male, avrebbe dovuto potersi fidare.

Quando decise che s'era fatto tempo d'andare, lo saluto con un cenno, come se l'avesse davvero davanti, e gli sussurrò: “Ci ho pensato io a lei, in questi ultimi tempi. E anche a tuo figlio. Non preoccuparti.”

Con una strana sensazione di freddo nelle ossa, in netto contrasto con il venticello più che tiepido che spirava su Forlì, Giovanni uscì dalla chiesa di San Girolamo e tornò alla rocca.

Andò nella stanza di Ludovico. La balia che era rimasta con lui per la notte dormiva, ma si svegliò subito, quando sentì qualcuno avvicinarsi alla culla. Visto che si trattava del Medici, gli sorrise e, quando lui le chiese di lasciarlo solo con il piccolo, annuì subito e si dileguò, dicendo che sarebbe rimasta nei paraggi, nel caso avesse avuto bisogno.

Il fiorentino prese tra le braccia Ludovico che, benché fosse stato strappato al sonno in modo improvviso, non accennava a piangere o a dare segni di insofferenza.

Felice di vedere come suo figlio amasse il contatto con lui, il Popolano se lo strinse al petto e si andò a mettere sulla poltrona, alla luce del candelabro.

Sentendosi come se non avesse abbastanza occhi per guardarlo tutto, Giovanni passò una buona mezz'ora a rimirarlo, cercando di capire in cosa somigliasse a lui e in cosa a Caterina. Ludovico, di contro, si lasciava osservare e faceva altrettanto con il padre.

Dandogli un leggero bacio sulla testa – che nelle ultime settimane si stava pian piano coprendo sempre di più di capelli castani e ricci – il Medici sentì il bisogno di colmare il vuoto che, forse, suo figlio avrebbe avuto.

Era un tentativo futile e quasi ridicolo, ma, come se volesse condensare anni in poche ore, il fiorentino iniziò a parlargli della città da cui veniva, della sua famiglia d'origine, della sua infanzia tra i campi e della sua adolescenza immersa nell'arte e nella cultura della corte del Magnifico. Gli raccontò aneddoti e impressioni, gli riferì, trattenendosi nelle parole, di come fosse cominciata la storia d'amore tra lui e sua madre Caterina e gli ripeté decine di volte che lui era stato un figlio desiderato e amato ancor prima che nascesse.

Ludovico ascoltava, rapito dal tono basso e dolce del tono del padre e, anche se probabilmente non stava capendo nulla di quel lungo discorso, a Giovanni diede la dolce illusione che fosse l'esatto contrario e che ogni frase gli si stesse scolpendo nell'anima, indelebile e sempre a disposizione, per lenire, un giorno, i momenti tristi e solitari che, come tutti, avrebbe dovuto affrontare.

Quando non seppe più che dirgli e avvertì il morso della tristezza avvicinarsi, il Medici lo baciò di nuovo e lo rimise nella culla. Lo accarezzò lievemente sulla fronte con l'indice finché non lo vide riaddormentarsi, placido e pacifico come non era con nessun altro, e poi andò a chiamare la balia, affinché tornasse a vegliare su di lui.

Ritornò con passo lento fino alla stanza che condivideva con la moglie. Ormai era quasi l'alba e la rocca cominciava a risvegliarsi.

Incrociò il Capitano Mongardini, mattiniero come sempre e lo salutò volentieri. Solo quando l'ebbe sorpassato, come spesso gli succedeva, si ricordò che quell'uomo aveva ucciso un neonato, per seguire gli ordini di Caterina, quando era stata iniziata la repressione contro gli assassini di Giacomo Feo.

Quella consapevolezza, come sempre, lo faceva sentire strano e teso, ma, quando finalmente arrivò dalla Tigre, che ancora dormiva, stretta al suo cuscino, Giovanni dimenticò di nuovo tutto.

Mettendosi accanto a lei, stringendola a sé senza darsi pena se a quel modo la svegliava, inspirò con forza il profumo dei suoi capelli e le sussurrò all'orecchio: “Ti amo, Caterina.”

 

Lucrecia fece un sospiro profondo, mentre il padre, impegnato in una discussione abbastanza accesa con il cerimoniere, le lanciava di quando in quando un'occhiata penetrante.

Il matrimonio con Alfonso era stato fissato per il 21 del mese e ormai Rodrigo sembrava impaziente di chiudere la questione e assicurare alla figlia un partito che potesse difenderla e allo stesso tempo ridarle un buon nome.

La ragazza, che da giorni non andava più al convento in cui era nascosto suo figlio, cercava di uscire poco dalle sue stanze ed evitava anche di incontrare Cesare. Già le metteva ansia sapere che probabilmente sarebbe stato tra i testimoni, dunque voleva almeno non dover sopportare le sue continue ammonizioni.

Era tutta colpa di come Lucrecia aveva guardato Alfonso la prima volta che si era trovata vicina a lui. Il napoletano, poi, aveva solo peggiorato le cose continuando a sorriderle e discorrendo quasi esclusivamente con lei per tutta la cena.

Per Cesare, quello era stato un affronto in piena regola e dunque la sorella voleva limitare i danni, per non trovarsi ad affrontare un secondo divorzio. Giovanni Sforza era stata una parentesi molto particolare che, in fondo, lei stessa non era stata molto contraria a chiudere. Alfonso, invece, le piaceva, più di quanto le fosse mai piaciuto nessun altro, ed era sicura che quel giovane – che, aveva saputo, aveva un anno meno di lei – sarebbe stata la chiave per ritornare a una vita serena. Magari, addirittura a una vita lontana dalle serpi di Roma.

 

L'acqua nella tinozza era ormai quasi gelata. Il profumo degli olii e delle essenze che Caterina vi aveva miscelato pizzicavano piacevolmente il naso di Giovanni che, restio a lasciare la presa, restava abbracciato con forza alla moglie.

Erano immersi fino alle spalle, ma il caldo di quel giorno permetteva loro di sentire la temperatura dell'acqua come gradevole. Erano stati a mollo almeno un paio d'ore. La Contessa, quando il marito aveva espresso il desiderio di farsi un bagno, visto che il giorno dopo si sarebbe messo in viaggio, aveva fatto subito preparare il necessario e poi, senza che vi fosse bisogno che lui lo chiedesse, l'aveva raggiunto nella tinozza.

“La cosa che mi preme di più – disse piano il Medici, dopo un breve silenzio – è far sì che tuo figlio venga finalmente rispettato. Loro hanno bisogno dei nostri soldati. E se li vogliono, devono rispettarlo, perché così rispetteranno anche te.”

Caterina, la schiena contro il petto del marito e la nuca appoggiata alla sua spalla, guardò verso di lui e gli fece un breve sorriso: “Lo dici come se fosse semplice.”

“Io sto andando là per questo. Solo per questo.” spiegò l'uomo, le mani che, scivolando nell'acqua carica di profumi, ricominciavano a saggiare il corpo della moglie: “Fosse stato solo per mio fratello, avrei aspettato un momento migliore.”

Temendo che il marito volesse dirle che stava peggio di quanto non sembrasse, la Sforza si rigirò tra le sue braccia, fino a fronteggiarlo: “Che intendi dire?”

“Che avrei preferito partire quando nostro figlio fosse stato un po' più grande.” rispose con sincerità il Popolano: “Mi secca non vederlo per tanto tempo proprio ora. Quando sono così piccoli, i bambini sembrano crescere ogni giorno. Mi infastidisce non poter esserci per vederlo con i miei occhi.”

“Ti scriverò tutto, tutti i giorni.” propose la Tigre, ma Giovanni stava già facendo segno di no con la testa.

Avevano deciso che avrebbero limitato i contatti, sia per ridurre il rischio di intercettazioni, sia per non mobilitare delle staffette che magari sarebbero servite per cose più importanti.

“Guarda...” fece Caterina, cambiando argomento: “Forse dovresti farteli accorciare un po', prima di partire...”

Il Medici lasciò che la moglie gli accarezzasse i riccioli bagnati per un po', poi, fermandole la mano con la propria, se la portò alle labbra, baciandone il palmo e poi il nodo nuziale che la donna portava all'anulare.

“Non ho intenzione di passare il mio ultimo pomeriggio prima di partire in una barberia.” si oppose, benché lui stesso avesse pensato proprio quella mattina che i suoi capelli fossero un po' troppo lunghi, per i suoi gusti.

“Se vuoi te li aggiusto io.” fece la Contessa, premendo all'improvviso il proprio corpo contro quello del marito, con un sorriso che lasciava intendere tutto: “Ma prima dobbiamo aspettare che l'acqua si freddi del tutto...”

Il fiorentino rise di gusto e, cercando di liberare la mente, l'afferrò in modo saldo per i fianchi e, incurante di qualche rivolo d'acqua che oltrepassava il bordo coperto di panno della tinozza, concordò: “Bisogna proprio...”

 

Ottaviano Riario ascoltava immobile quello che Paolo Vitelli stava dicendo. Ora che ormai gran parte delle truppe erano arrivate a destinazione, i tentativi di prendere Pisa con le buone sembravano del tutto futili.

La città, protetta dai veneziani, rifiutava puntualmente ogni accordo e lo faceva sempre più spesso in modo arrogante e pretenzioso, tanto che lo stesso Vitelli, di solito abbastanza bravo a controllarsi quando necessario, aveva cominciato a rispedire risposte di fuoco, tralasciando una volta per tutte le parole tranquille e pacate che aveva imparato spiando gli ambasciatori.

“Secondo me è tra Pisa e Cascina che dobbiamo aspettarli.” stava dicendo il comandante generale, il lungo naso che fendeva l'aria come la polena di una nave: “C'è un continuo spostamento di carovane tra quei due punti e quindi se riuscissimo a frenare un rifornimento importante o un battaglione che ha a capo qualche Capitano importante...”

Gli altri comandanti che si erano assiepati nel padiglione gli davano ragione e commentavano, man mano, le sue parole con motti d'assenso o con consigli che, a ogni tanto, il Vitelli vagliava con attenzione e poi accettava.

Solo il giovane Riario pareva stare in silenzio. Accanto a lui stava il Manfredi che, dopo la prima serata passata insieme a fare bagordi, non l'aveva quasi più mollato.

Si era reso conto che il forlivese era un imbranato e aveva anche capito che non sapeva gestire la collera. Gli era bastato vederlo picchiare una delle donne del seguito dell'esercito, un paio di notti prima, che aveva come unica colpa quella di avergli fatto qualche apprezzamento poco lusinghiero, per capire che la sua mente era fragile quando il suo corpo era già provato dagli stravizi.

Malgrado ciò, oltre ai suoi scopi politici, aveva una sorta di sintonia con il suo omonimo, tanto che l'amicizia che gli stava via via dimostrando poteva dirsi reale e non del tutto affettata.

“Anche Riario è d'accordo.” fece Manfredi, quando Vitelli parlò della tattica che avrebbe voluto usare per accerchiare la città, una volta indeboliti i veneziani.

Il figlio della Tigre di Forlì restò basito nel sentirsi chiamare in causa, ma il suo amico andò avanti imperterrito, lanciandogli un'occhiata in tralice per pregarlo di stare al gioco.

“Ieri sera, dopo mangiato, stavamo proprio parlando di questo e l'idea che state esponendo voi, Vitelli, è pressoché simile a quella che ha elaborato Riario.” affermò Manfredi, senza che il suo viso tradisse minimamente la menzogna che sottostava a quella frase.

Paolo Vitelli strinse i piccoli occhi verso Ottaviano che, curvo e abbattuto, stava su uno sgabello da campo come fosse un vecchio o un ferito di guerra.

La sua espressione era molto scettica, tuttavia, apprezzando Manfredi come uomo d'armi, il comandante decise di dargli fiducia anche come oratore: “Mi fa piacere che il Conte sia in grado di fare simili ragionamenti – disse, la voce ancora pregna dell'irritazione che i pisani gli avevano messo addosso coi suoi rifiuti – tuttavia, quando ha di queste trovate, gradirei che le riferisse anche a me, piuttosto che tenerle buone per le chiacchiere da focolare.”

Ottaviano Riario fece un sorriso imbarazzato, sentendosi giudicato dal Vitelli come uno scolaro indisciplinato da un maestro severo.

Però, non appena l'attenzione di tutti tornò alle parole del comandante, che era passato a discutere di logistica, il forlivese fece un sospiro di sollievo e dedicò un cenno al Manfredi, che, con quell'intervento, dopotutto, gli aveva solo porto una mano.

'Però, se solo Giovanni fosse già qui – pensò tra sé il figlio della Sforza – avrebbe saputo fare di meglio'.

 

Il Medici era seduto davanti al piccolo specchio un po' sbeccato che aveva appoggiato sulla scrivania contro il muro. Caterina era alle sue spalle e, usando dei forbicioni da sarto che si era fatta prestare da Bianca, stava spuntando i capelli del marito seguendo le sue indicazioni.

Giovanni sembrava seguire un metodo molto preciso e le indicava con sicurezza i punti in cui tagliare di più e quelli in cui lasciar correre.

Era pieno pomeriggio. Di comune accordo, la Sforza e il fiorentino se la stavano prendendo comoda, scansando il più possibile ogni impegno pubblico.

Appena dopo pranzo, i due si erano chiusi nella stanza di Ludovico ed erano rimasto con lui un paio d'ore, per poi tornare in stanza e mettersi all'opera con i capelli dell'ambasciatore.

La Contessa, immersa nel suo lavoro, quasi non pensava allo scorrere lento e inesorabile del tempo.

Poche ore, e Giovanni sarebbe partito. Non c'era solo il pensiero di restare lontana da lui per settimane, ma anche la paura che potesse non tornare. La guerra era la guerra, che si fosse Medici o plebei, e bastava una freccia raminga, una polmonite o anche solo una caduta da cavallo, per non fare ritorno.

Deglutendo a fatica, mentre il marito si scrutava nello specchio per controllare che i ricci fossero bene o male simmetrici a destra e a sinistra, Caterina gli guardò il collo, scoperto, pallido e sottile.

Smettendo per un momento di sforbiciare, glielo accarezzò con lentezza e poi, colta da un improvviso moto di commozione, lo baciò, sentendo gli ultimi capelli della nuca solleticarle le labbra, e poi si chinò su di lui, stringendolo a sé.

Il Popolano comprese quello che probabilmente stava passando nella mente della moglie, perciò la lasciò fare, sforzandosi per non lasciarsi abbattere a sua volta.

Risollevandosi con un sospiro tronco, la Leonessa gli chiese, cercando di modulare la voce per non lasciar intendere quanto fosse vicina alle lacrime: “Ti manca, Firenze?”

“Sì.” ammise il Medici, che non poteva certo dire il contrario.

“Sei felice di rivederla?” domandò allora la Sforza, tossicchiando per ridarsi un tono.

“Sì, ma avrei voluto tornarci insieme a te.” rispose il marito.

Tirando su con il naso, il profumo degli olii usati per il bagno del mattino che le riportavano alla mente quelle ore tranquille, la Contessa annuì e ricominciò a tagliargli i capelli, desiderosa di finire il lavoro e di farlo bene.

Né lui né lei dissero più nulla fino a che la donna non si dichiarò soddisfatta del suo lavoro da barbiere.

“Pensaci – disse al marito, mentre questi si alzava e si passava una mano tra i ricci, per scompigliarli un po' – quando al fronte qualche altro pezzo grosso ti chiederà con invidia chi ti ha tagliato così bene i capelli, potrai dire che è stata tua moglie.”

Guardandola con gli occhi chiarissimi che sorridevano, Giovanni ribatté, con voce dolce e un po' triste: “Mia moglie...”

Caterina gli accarezzò con delicatezza la guancia. Il marito, di rimando, fece scorrere la mano sul suo braccio, poi sul fianco e sulla coscia, cercando senza indugio il bordo della sottana, per sollevarla.

La Tigre non voleva rifiutarlo, non ci sarebbe riuscita, nemmeno se avesse voluto, e così si diede da fare per aiutarlo a sfilarle l'abito, prima di mettersi a sciogliergli i nodi ai lacci con velocità, con la fame che tornava a morderla, acuita dalla sensazione che il banchetto sarebbe finito la mattina seguente.

Il Medici le baciava le labbra, il collo, il seno e i capelli, lunghi e dal colore ormai più sul bianco che non sul biondo. La portò verso il letto, mentre le mani di lei lo trovavano caldo e pronto ad amarla, come se non avesse l'animo divorato dall'inquietudine e il corpo dilaniato dalla gotta.

Lasciò che si mettesse sopra di lei, gli permise di farla sua come voleva, con tenerezza, risponendo solo dopo un po' con la sua consueta voracità, mettendosi imperiosamente sopra di lui.

Quel giorno si stava dimostrando straziante per entrambi. Era come se tutti e due volessero prendere tutto quello che potevano prendere dell'altro e farne scorta, in vista della separazione forzata che li attendeva.

Come nei versi di Catullo che tante volte si erano letti e ripetuti a memoria, i baci e gli assalti sembravano non poter essere mai abbastanza, come se il tempo fosse troppo poco, per permettere loro di dare sfogo all'amore che ancora li bruciava.

E proprio per quello, non sentendo nemmeno la stanchezza che pure avevano in corpo, passarono il tempo che li separava dalla cena ad amarsi come fosse la prima volta.

 

Achille inspirò a fondo l'aria torride di luglio e gli parve la più dolce e fresca di sempre. I due che lo avevano scortato fino all'emissario fiorentino non gli avevano voluto dire come mai fosse stato liberato.

Tiberti, nella sua fede cieca, aveva detto che sicuramente era stata la Sforza a pagare per liberarlo e anche quando era stato affidato al legato della Signoria aveva ribadito con forza la sua convinzione.

“Ma quale Tigre e Tigre!” lo derise quello, facendolo montare in sella e dandogli in mano le redini, con un'alzata di sopracciglia: “Se non era per noialtri, non si stava mica qui a portarti in salvo!”

“Che intendete?” domandò Achille che, nel corso della prigionia, s'era fatto avvezzo a trattamenti ben peggiori di un tono canzonatorio.

“Che il comandante Vitelli vi vuole al campo a guidare i soldati! Non si fida del Riario e così ha fatto catturare Rinieri della Sassetta e così v'ha riscattato in cambio suo!” spiegò il messo, montando a sua volta sul cavallo e dando di speroni: “Suvvia, ora si deve andare, che la guerra mica aspetta!”

Ancora interdetto per via di quella novità, Achille spronò la sua bestia e fece del suo meglio, debilitato com'era dalla prigionia e dalla fame, per stare al passo.

Per tutta la strada, però, ripensò e rimuginò e, arrivati ormai in vista del campo fiorentino, la confusione e la disillusione si erano trasformate in indignazione e desiderio di rivalsa.

 

   
 
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