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Autore: Sesquiplebe    01/05/2018    0 recensioni
{Prima fic a capitoli dopo secoli che non ne scrivevo una, spero che possa piacere e che non finisca cancellata per mano mia come le precedenti-}
La Repubblica che visse per pochi mesi.
"[...]C'è una differenza tra l'essere soldati e l'essere guerrieri: i primi obbediscono agli ordini di un generale senza obiettare, i secondi obbediscono ai valori, ai propri ideali, nonostante ciò comporti l'infrangere regole e ordini stabiliti."
{Personaggi: Feliciano Veneziano Vargas (Nord Italia, ooc), Lucia Costantina Vargas (Oc!Centro Italia/Italia Centrale), Lovino Romano Vargas (Sud Italia), Antonio Fernandez Carriedo (Spagna), Roderich Eldestein (Austria), Francis Bonnefoy (Francia), Feliks Łukasiewicz (Polonia), altri Oc}
ATTENZIONE:
Ci saranno Oc, alcuni creati per necessità, quindi chiedo venia se possono sembrare non proprio decenti. Comunque farò ricerche e tenterò di renderli più coerenti possibili alla nazione/città che rappresentano.
Genere: Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Francia/Francis Bonnefoy, Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Piccolo avviso: quando iniziai a scrivere il capitolo non sapevo che a quel tempo ancora non esisteva l'Impero austro-ungarico. All'inizio pensai di togliere Eliza poi, facendo ricerche più approfondite, scoprì che l'Impero Austriaco aveva tra i suoi territori parte delle terre ungheresi. Per cui non sono ancora sposati qui, sebbene si siano occupati di Feliciano insieme. Perdonatemi questo "cambio di programma" un po' forzato.

Le nuvole nereggiavano il cielo mattutino di Venezia stritolata da una cappa d'umidità tanto alta da impedire di respirare facilmente perfino sulle strade. Il tempo, cupissimo, annunciava un imminente forte diluvio sebbene i canali e le vie fradice testimoniavano il passaggio già avvenuto di un terribile temporale che, dopo lo sgomento per i suoi spaventosi fulmini, il rombo delle sue urla e gli accecanti lampi, aveva lasciato una maledetta calma insopportabile. Non vagavano anime in giro se non pochi uomini vagabondi stanchi e soffocati dalla stessa aria che li nutriva, perfino gli uccelli, soliti viaggiatori di quei cieli e accompagnatori dei solitari, non osavano cantare in quella città morente imprigionata nel silenzio.
Lì, tra la perduta gente, Feliciano camminava su un vicolo senza meta, in mezzo ad un vuoto in cui la Repubblica era irrimediabilmente caduta. Tre mesi erano passati da quando aveva lottato tenacemente contro gli austriaci e ormai stava piano piano perdendo le speranze di riprendersi la libertà sottrattigli. Eppure, nonostante sembrasse il punto di conclusione di una storia, il suo viso guardava testardo dinanzi a sé dimostrando di non essersi ancora arreso, di non essersi mai arreso. Errò lungo la sponda del Canal Grande sporgendo lo sguardo oltre il fianco opposto della laguna dove una distesa di variopinte abitazioni consolarono un poco il suo umore turbolento. Più avanti, giunto al Ponte di Rialto, lo attraversò fin sotto l'arcata poggiando gli avambracci sul parapetto e annegando le sensazioni in quella brutale tranquillità.
L'incantevole bellezza di Venezia, persino quando i suoi colori venivano spenti dalle circostanze, pareva non abbattersi mai sotto le furie della natura o dell'uomo stesso.
Le acque si estendevano placidamente sul letto del Canal Grande aprendo un varco tra le vivacissime case vicine consentendo, in questo modo, di poter allungare la vista anche alla vasta pianura azzurra che dalla sommità abbracciava dolcemente la città. Purtroppo, a causa della brutta giornata, il veneziano non poté godersi l'intero paesaggio, ma quel poco gli bastò per tornare a sorridere. Abbassò gli occhi sui pontili osservando il docile oscillare delle gondole sul pelo dell'acqua che, come attraenti sirene, lo invitavano a venire affinché, con loro, solcasse i profondi meandri della risorta Atlantide scovando nuove meraviglie in quelle già scolpite nei marmi degli archi, dei ponti, e nei vivi mattoni delle dimore. Il ragazzo, non potendo tener testa a tale richiamo, discese l'altra metà fermandosi nei pressi di una di queste barchette comprata da lui a peso d'oro anni addietro. Salì su una di esse e, sciogliendo il nodo, liberò la sua creatura. Ad ogni incantevolezza apparsa di fronte a sé un sorriso sornione dipingeva il suo volto mentre immergeva, a destra e a sinistra, i remi spingendo l'amata ove lei lo portava.

Il battere ripetitivo di zoccoli equini spezzò la quiete malata del luogo finché non si bloccarono, improvvisamente, al centro della piazza. Il cocchiere scendendo aprì la portiera del mezzo aiutando prima la donna tenendole una mano guantata, poi reggendo il bastone argenteo del signorotto austriaco per impedirgli una disgraziata caduta sulla strada bagnata. Qualche abitante curioso, sentito il rimbombo, si affacciò alla finestra, ma alla vista dei due forestieri tornarono alle loro attività chiudendo ermeticamente le persiane. I pochi passanti, invece, evitavano la coppia o indifferenti passavano avanti senza alcun saluto. L'uomo fu indignato da questo portamento incivile nei suoi confronti, però lasciò correre concentrandosi sul suo unico obiettivo per il quale aveva viaggiato ore, ed ore, ed ore interminabili: riportare a casa Feliciano. In realtà gli aveva già proposto, dopo gli eventi di pochi mesi fa, di tornare con lui ed Elizabeta, tuttavia questo si rifiutò categoricamente di seguirli affermando la sua volontà di voler essere libero. Malgrado ciò, su richiesta di lei, si decise che fosse il momento di andarlo a trovare e magari riproporgli la stessa offerta, sperando in una risposta affermativa.
Tra le costruzioni nella piazza, la cattedrale di San Marco spiccava di più rispetto al resto per la sua ineguagliabile imponenza sottolineata dallo stile bizantino e dalle colate d'oro sulla facciata. Chi aveva un occhio acuto, inoltre, poteva notare sul portale della terrazza una statua dorata del Leone di San Marco il quale reggeva, come vuole il celebre simbolo, un libro sulla zampa sinistra, su cui era scritta la frase che l'animale mitico pronunciò all'evangelista San Marco. Accanto alla chiesa sorgeva invece il sacro Palazzo Dogale, emblema politico della Repubblica Marinara e antica sede tradizionale del doge la cui forma particolare, molto orientalista, constatava la potenza commerciale della città giunta fino all'oriente dal quale prese non solo spezie e pregiate stoffe ma pure tecniche decorative e di costruzione visibili sia sul Palazzo sia sulla cattedrale: l'Est aveva portato una certa regalità singolare introvabile nella sobrietà dell'architettura classica romana. Seguendo il palazzo si capitava alla riva del bacino di San Marco e al suo molo in cui, un tempo, una fusta veneziana posteggiava perennemente poiché di guardia all'edificio una volta di grande valore. L'entrata e l'uscita della piazza era segnata da un paio di colonne provenienti da Costantinopoli, chiamate di San Marco e San Todaro, antico santo protettore di Venezia, poste leggermente prima del molo. Secondo alcuni detti si diceva che in origine fossero tre, però la terza andò perduta durante il viaggio di trasporto affondata, senza possibilità di recupero, nella fanghiglia delle lagune; delle due sopravvissute si raccontava fossero rimaste a terra, in orizzontale, per parecchi anni perché nessuna delle tecnologie di quei tempi successe nel tirarle su, data la loro grandezza, nella posizione in cui ora si presentavano agli occhi dell'austriaco. Al pensiero del progresso quasi rideva riflettendo su come in passato un'impresa del genere era considerata di grande fatica.
Conosceva Venezia molto bene grazie a Feliciano che si curò di rivelargli ogni notizia della città: sapeva delle due botteghe accanto alle colonne, dei tre incendi del palazzo, del corpo trafugato dell'Evangelista e addirittura delle sue origini mitologiche. Per lui, in apparenza, Venezia non aveva più segreti.
In lontananza, sulla laguna, una piccola figura familiare si stava pian piano avvicinando, mescolandosi tra il traffico di gondolieri e mercanti di qualsiasi dove appena attraccati al molo con merci catturate da chissà quale luogo lontano. Siccome si trattava del canale più frequentato, essendo una delle vie principali per l'area marciana, era normale trovare un continuo via vai di gondole a destra e a manca slittare su quelle acque, sebbene in quel periodo apparivano meno affollate del solito. Il sorridente veneziano, quando sbucarono alla sua vista i due, li salutò allegramente abbandonando per un momento il remo con una delle mani.
«Salve signor Roderich! Si ricorda di non dover mai oltrepassare le colonne al centro? Porta male.»
L'uomo non aveva mai creduto a certe leggende scaramantiche ritenendole superstizioni della bassa plebe. Comunque, pur di accaparrarsi la sua fiducia, ascoltò le parole varcando le colonne ai lati ed evitando la pericolosissima parte centrale. Elizabeta fremeva dalla voglia di poter riabbracciare l'adorato Feliciano dopo tanto tempo come una madre affettuosa il cui figlio, partito in guerra, aspettava, nell'angoscia soffocante di una sua probabile morte da un giorno all'altro. Per lui era del tutto differente: si trattava di un territorio ribelle che aveva agito secondo propria ragione a suo discapito, un “premio” prezioso ricevuto in regalo da Napoleone il quale aveva cominciato a mostrare evidenti rivolte, infondate oltretutto, poiché non ci fu mai una condotta condannabile dalla sua parte -il che era vero, perciò non capiva. Si trovava lì al solo scopo di risolvere il problema, così parlava a se stesso. Realmente, segretato nelle briciole d'umanità sparse sui rami secchi e intricati del suo cuore, nascondeva un certo affetto paterno soppresso dall'orgoglio. Lo vedeva ancora bambino, e la singola idea di una separazione forzata premeva l'istinto a reagire pure bruscamente, se fosse stato utile a segnargli una retta via.
Attesero ambedue sull'argine tenendo fisso lo sguardo sull'ombra sfasata divenuta gradualmente una forma che legava stretta la sua amica alla banchina. Infine, prima posando il piede destro e poi il sinistro, cautamente con un saltino rientrò nella grigia realtà in cui fu rinchiuso. La giovane non gli diede tempo di afferrare il primo respiro, regalò a Veneziano immediatamente un forte abbraccio materno causandogli uno spontaneo sorriso raggiante. Il tedesco invece, da padre severo, non mosse un muscolo. Finite le smancerie lo invitò a spostarsi accanto a lui, pronto per una discussione importante che non fece tardare.
«Vorrei che tu ora stessi ad ascoltare le mie parole senza ribattere, finché non avrò completato questo discorso. Quel che ho fatto l'ho dovuto fare, come ben vedi. I fatti stavano rotolando in una pericolosa guerra che avrebbe portato cataste di cadaveri sui campi, sulle città, ed una sofferenza inimmaginabile. Per cui in favore al tuo bene, ho dovuto agire rispondendo all'incendio un forte acquazzone efficacie. Comprendi, vero? È stato dovere
Non era assolutamente la modalità di scuse sperata dalla donna ora con l'occhio furibondo puntato sul vicino orgoglioso. Aveva avvertito quel gelido distacco, e non corrispondeva affatto alla loro decisione.
«Roderich!» intervenne quindi lei. «Queste non sono scuse, avevi promesso delle vere scuse.».
Allora lui si rivolse al viso di lei sul punto di replicare irritato, ma Feliciano frenò subito i due.
«Va bene, ho capito...ho capito.»
«Pertanto verrai, tornerai, a casa con noi?» avesse quasi fretta a sentirsi la tanto agognata sentenza, l'austriaco.
Ciononostante, il ragazzo tacque.
Chinò il capo sul terreno calpestato.
E restò così, a meditare.
Casa, che parola.
Davvero ancora poteva chiamare in tal modo quella ormai prigionia?
Casa, che casa.
Quella non era più casa sua.
Anzi, quella non era più una casa.
I suoi fratelli erano casa sua.
Roma era casa sua.
E Venezia, la sua libertà perduta.
Ecco, la libertà.
La libertà.
Sollevò la testa e si fece sfuggire un profondo sospiro, ora certo sulla scelta.
«No.» affermò diretto. «Non è più casa mia la vostra...mi dispiace. Io...rimarrò qui, dove dovrei essere.»
Le labbra tremarono a tale affermazione, non capaci di sostenere la risolutezza tirata fuori in apparenza dal nulla.
«No.» Ripeté in seguito più determinato.
Roderich venne spiazzato, e non seppe articolare altre frasi. Elizabeta alla stessa maniera non credette a quella ferma fermezza. Benché infatti fosse l'ennesimo “no” sentenziato a loro, fu il primo uscito dalla sua bocca ad essere veramente irremovibile, marcato, sincero, e lei lo accettò -contrariamente all'uomo- avendo inteso i desideri suoi più reconditi. Lui non volle capire preferendo intestardirsi.
«Non so cosa tu vorresti fare, ma devi venire con me.»
«No!» disse, alzando poco la voce. «Per favore...».
L'altra prese d'impulso il polso di lui, stringendolo energicamente, avvisando in modo implicito di smetterla all'istante. Non gli avrebbe permesso di obbligarlo a seguirli in un luogo ora estraneo al ragazzo. Roderich dopo una breve resistenza -perché l'orgoglio è sempre e in ogni caso più potente di qualsiasi sentimento- chiuse gli occhi, abbandonandosi ad un silenzioso sospiro. Riportò poi la mente alla realtà, limitandosi a risistemare gli occhiali a suo parere più storti del solito.
Una piccola leggera brezza si alzò pungente sulle loro guance pizzicandole come minuscole spillette seccanti. La temperatura parve essere diminuita tutta d'un tratto provocando lievi tremori involontari nel corpo del giovane, l'inverno già si sentiva a meno di un mese dal suo ingresso ufficiale. La superficie opaca e scura delle acque della laguna incominciò ad altalenare facendo dondolare pacatamente le gondole legate al pontile colpendo piano i fianchi pece. Qualche viandante accucciò il mento nel colletto o accostò di più il proprio cappotto accelerando il passo pur di tornare al calduccio di casa in fretta.
Il gruppo non si era minimamente sciolto, ancorché non ci fosse altro da fare. Restarono lì silenziosamente ad osservarsi, finché Elizabeta non donò un secondo abbraccio caloroso a Feliciano voltandogli le spalle sul punto di camminare via.
«Andiamocene.» ordinò lei severamente al compagno.
L'uomo esitò qualche secondo prima di obbedirle e uscire insieme, piano, dalla scena, accerchiati e schiacciati dal triste grigiume della città.
Di nuovo solo, in compagnia della sua coscienza, a pensare quanto gli sarebbe costata cara la libertà ora più vicina di quanto non lo era mai stata. Si girò sul canale guatando l'imperturbabile veduta di Venezia lasciata morire con Milano e tutto il Nord in un buio precipizio profondo. La sconfitta lo aveva enormemente colpito forzandolo a ripiegarsi e inginocchiarsi a terra, questa volta che aveva scelto di non fuggire dinanzi ad un potente nemico affrontandolo come un tempo faceva. Un fiammante fuoco latente si celava sotto quello sporco e morente grigio, un sole fiammeggiante coperto da una mandria di nuvole nere. Bastava il soffio di un vento per far esplodere tutta quella potenza. Una scintilla in un mare di polveri da sparo.
Gonfiò il petto innanzi allo vista: non si sarebbe arreso. Potessero pure passare secoli prima della vittoria, lui non avrebbe piegato nuovamente le ginocchia. Meglio il suicidio dicevano.
Nondimeno, non avrebbe percorso mai la sconsolata strada.
La libertà è la sua unica via, e quella intraprenderà fintantoché non l'avrà ottenuta.

  
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