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Autore: Adeia Di Elferas    02/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quella che doveva essere solo una scaramuccia si stava trasformando in uno scontro all'ultimo sangue.

Dionigi Naldi, con i suoi trentatré anni che ne facevano un uomo nel pieno delle forze, sentiva di essere prossimo ad arrendersi, per quanto era provato.

I veneziani che aveva attaccato parevano infervorati da un fuoco sacro che li rendeva strenui avversari, tanto che, dopo un primo lungo impatto di cavalleria, ormai la battaglia si era trasformata in un combattimento quasi del tutto all'arma bianca, dove gli uomini della Serenissima e quelli di Ottaviano Manfredi – comandati quel giorno dal suo secondo, Naldi – si dimostravano capacissimi di uccidere anche senza bisogno di spade e lance.

La polvere che si sollevava dal terreno secco rendeva quasi impossibile capire chi fosse dove e gli schieramenti si erano mischiati tanto da creare una confusione degna di una rissa da osteria.

'Questa – pensò Naldi, in un lampo di lucida ironia – sarebbe stata la scaramuccia giusta per Manfredi...'.

Quando ancora le labbra erano increspate da un breve sorriso, Dionigi sentì un colpo alla schiena, un calcio, forse, e si voltò, per prendere un forte pugno sul naso.

Accecato dal male, le mani al volto, si piegò su se stesso, abbassando per un momento la guardia.

Quando ritrovò un po' di lucidità, cominciò a mulinare le braccia cariche di ferro e colpì con violenza quello che aveva osato prenderlo a pugni. Quando lo vide crollare in terra su un altro cadavere, il viso completamente irriconoscibile, si sentì soddisfatto.

La nebbia di guerra si stava lentamente rarefacendo. Qualche manipolo di soldati veneziani forse stava scappando e, comunque, i morti a terra cominciavano a essere parecchi e quindi quelli intenti a lottare erano sempre meno.

Naldi cercò di recuperare i suoi e, mentre lo faceva, trovò in terra una balestra ancora carica e la imbracciò, per sicurezza.

Nel frattempo, Benedetto Macarone, faentino come Dionigi, stava rientrando da un breve inseguimento fatto ai danni del veneziano Giovanni Gradenigo, che guidava gli ultimi Serenissimi rimasti ancora in sella.

Nel tornare verso il centro del campo, notò che lo scontro si stava via via spegnendo e così, in barba alla prudenza, si fece meno accorto e alzò la celata dell'elmo per respirare un po', abbassando anche lo scudo.

Cambiò atteggiamento quando vide il suo amico fraterno Dionigi Naldi intento a raggruppare i suoi per dare un ultimo assalto ai veneziani rimasti.

Guidò i suoi, arrivando a tergo dell'altro faentino, convinto che piombare sul nemico in corsa sarebbe stata una mossa vincente.

Naldi, gli occhi ancora acquosi per il naso rotto, sentì delle urla alle spalle e, temendo l'arrivo dei soccorsi veneziani, si voltò subito a vedere di chi si trattasse.

Un gruppo abbastanza numeroso di uomini stava avanzando di gran passo verso di loro. Dionigi li vedeva confusamente e non riconosceva i colori che portavano, ma, il fatto che apparissero tanto freschi rinfrancò in lui la convinzione che si trattasse dei rinforzi della Serenissima.

Tenendo con forza la balestra tra le mani, colpendo quasi alla cieca, fece partire la freccia che era stata caricata chissà da chi e attese di vedere se qualcuno dei nemici sarebbe caduto in terra morto.

La punta acuminata del dardo trovò strada facile nel volto di Macarone, rimasto privo della protezione della celata, trapassandogli il cranio da parte a parte.

“No! Giovanni!” gridò quello che gli stava accanto, sorreggendolo mentre rovinava in terra senza vita.

Quell'urlo e la voce che l'aveva prodotto fecero gelare il sangue nelle vene a Naldi che, già sapendo quello che era successo, si mise a correre verso quelli che aveva creduto, fino a pochi istanti prima, dei nemici.

Si gettò in ginocchio davanti al corpo inanime del suo grande amico e, mentre qualcuno dei soldati che Giovanni Macarone aveva guidato fino a quel momento, gli facevano attorno capannello, l'uomo fu scosso dal pianto e ringhiò: “Ammazzateli tutti, questi dannati veneziani! Nessun prigioniero! Ammazzateli tutti e torniamo al campo! Nessun altro dei nostri deve morire, oggi!”

 

Caterina, in silenzio, stava contando una dopo l'altra le gocce d'acqua che scivolavano dal secchio per tornare a gettarsi nell'acqua del pozzo.

Quel pomeriggio faceva molto caldo e l'aria a Ravaldino era immobile. L'unico segno di vita arrivava dall'altro cortile, dove alcuni soldati si stavano addestrando, assieme a Galeazzo e Bernardino.

La Contessa aveva promesso loro che li avrebbe raggiunti, ma poi, assetata, si era fermata al pozzo e aveva tirato su il secchio per bere un po' d'acqua. Da allora, rapita dal ritmico e sempre più lento stillicidio che riportava le gocce d'acqua sul fondo, era stata colta da una strana apatia che le aveva tolto completamente la voglia di andare dai figli e dai soldati.

La sua mente, da quando Giovanni era partito, era come chiusa in una gabbia. Di quando in quando la bestia che dimorava nella sua anima cercava di forzare le sbarre della cella e scappare, e in quei momenti, per lei, non era stato facile resistere alla sua natura.

Solo la sera prima, per esempio, quando aveva sentito forte la tentazione di darsi pace con il vino, o con la sua pozione, era stata sul punto di cedere. L'assenza del marito la portava a riflettere più del solito e quel circolo vizioso di pensieri la conduceva inesorabilmente sempre verso ricordi e consapevolezze che avrebbe voluto rifuggire.

Quando, quasi a notte fonda, chiusa nella camera che da più di un anno condivideva con il Medici, aveva sentito la necessità fisica di cercare un uomo, allora aveva capito che convivere con se stessa fino al ritorno di Giovanni sarebbe stata una vera sfida, ed era piombata in un clima di abbattimento e sconforto.

Sentendosi fragile e volendosi impedire a tutti i costi di assecondare i propri istinti per poi pentirsene la mattina dopo, aveva lasciato la stanza ed era andata in quella in cui riposava il figlio Ludovico.

Lì, distratta dal piccolo – che in quei giorni stava facendo impazzire le balie e la nutrice – era riuscita a ritrovare un minimo di tranquillità e si era finalmente addormentata.

“Madre?” la voce di Bernardino, un po' incerta, le arrivò nitida alle orecchie, facendola voltare subito.

Il bambino, sudato e accaldato, teneva nella mano destra una spada di legno da allenamento e osservava con i grandi occhi la Sforza, che, in tutta risposta, gli stava dando di nuovo le spalle, per rimettere nel pozzo il secchio.

Tirando su un po' di acqua fresca, Caterina fece segno al figlio di avvicinarsi. Il bambino, un po' titubante, fece come gli era stato chiesto e quando la donna lo invitò a dissetarsi, visto che era una giornata molto calda, lui lo fece, ma continuando a guardarla di sottecchi, come se si aspettasse qualche rimprovero.

“Sei venuto a chiamarmi?” chiese la Contessa, con la solita spina nel cuore, nel vedere il figlio tanto allerta nell'accostarla.

Bernardino annuì e spiegò: “Galeazzo vorrebbe farvi vedere una cosa...”

La Tigre sospirò e, sistemato il secchio, annuì: “Va bene, andiamo.”

Seguì il figlio fino nel secondo cortile, dove trovò Galeazzo intento a discutere con il maestro d'armi circa un nuovo modo di alzare la guardia che secondo lui sarebbe stato molto efficace, anche con addosso solo una mezza armatura.

Riuscendo, pian piano, a dimenticare per qualche ora Giovanni, Giacomo, i problemi dello Stato, la guerra che cominciava a ribollire e tutti gli altri fantasmi che la perseguitavano, Caterina passò quindi il resto del pomeriggio a provare la difesa proposta dal figlio e, quando fu sera, decretò che Galeazzo aveva avuto un'idea molto buona.

“Sono molto fiera di te.” gli disse, mentre sistemavano le armi nella sala, dopo aver concluso la sessione.

La Contessa era stremata. Si stancava molto più facilmente rispetto a qualche anno prima e le era stato sufficiente menar le mani per qualche ora sotto al sole per trovarsi distrutta.

Galeazzo, invece, forte dei suoi quasi tredici anni e di un fisico che si irrobustiva a vista d'occhio di giorno in giorno, pareva ancora pieno di energie e, quando la madre gli rivelò di essere fiera di lui, il suo petto si gonfiò appena, facendolo apparire ancora più grande di quanto non fosse.

Caterina, che non si era accorta di quel lieve cambiamento, gli dedicò uno sguardo all'inizio un po' distratto e poi più attento. Valutò come il suo viso, lungo e lineare, e il colore dei suoi capelli fossero molto simili a quelli di Carlo, suo fratello maggiore, morto ormai da tanti anni e sepolto da tempo immemore nella sua memoria.

“Assomiglia a tuo zio Carlo.” gli disse, in un sussurro, quasi senza accorgersene.

Galeazzo, gli occhi che si specchiavano in quelli verdi della madre, in quel momento molto più coinvolti e meno distanti del solito, aprì appena le labbra carnose per dire qualcosa, molto colpito da quello che gli pareva un complimento.

Tuttavia, la madre non gli diede il tempo di farlo e, dandogli una pacca sulla spalla, gli disse: “Su, andiamo a mangiare. Ho una fame incredibile...”

Rincuorato, malgrado tutto, dal tono conciliante usato dalla Contessa, Galeazzo la seguì di buon grado e fu ancora più contento quando, uscendo dalla sala delle armi, la donna occhieggiò verso Bernardino e, facendogli un cenno con il capo, gli disse: “Vieni anche tu. Stiamo andando a mangiare. Ti sei meritato una cena con i fiocchi, per come ti sei impegnato oggi.”

I due fratelli, uno per parte alla madre, si scambiarono un'occhiata di sguincio e a entrambi scappò un mezzo sorriso. Non erano abituati a vedere la madre così desiderosa di stare con loro e quel cambiamento, ne erano certi, in qualche modo dipendeva da Giovanni.

'Speriamo che torni sano e salvo.' pensò tra sé Galeazzo, mentre rientravano nelle viscere della rocca e andavano verso la sala dei banchetti iniziando a discutere di trabucchi e battifredi.

 

Sotto il soffitto riccamente affrescato dell'appartamento Borja era radunata una strana piccola folla, o almeno, Lucrecia trovava quell'accozzaglia di gente quanto di più assurdo potesse esistere in natura.

C'erano alcuni suoi parenti, tra cui ovviamente Cesare,poi il Cardinale Sforza, che pareva di nuovo riappacificato con il Santo Padre, perché felice di quell'alleanza con la rediviva Napoli, il Cardinale Lopez, che aveva fatto grandi servigi al figlio del papa, benché il papa ne fosse ignaro o quasi, il Vescovo Marrades... E tutta un'altra serie di uomini, compresa qualche donna, come Sancha, che Lucrecia avrebbe preferito non vedere nemmeno in dipinto al suo secondo matrimonio.

L'unico che le sembrava al posto giusto era Alfonso d'Aragona, il suo sposo. Era bello, bellissimo, secondo lei, dritto di spalle e vestito in modo eccellente. La guardava solo ogni tanto e, tutte le volte che capitava che i loro occhi si incrociassero, le sorrideva in un modo un po' timido, ma anche palesemente rapito.

Il Capitano spagnolo Juan Cervillon tenne la spada snudata sopra le loro teste, mentre si svolgeva il rito e prima che potessero accorgersene, la Borja e l'Aragona furono marito e moglie.

Il matrimonio, fino a quel punto, era stato tranquillo. Però, Lucrecia se ne rese conto nel momento stesso in cui tornò a guardare verso il pubblico, le cose si sarebbero presto scaldate.

Gli occhi di brace di Cesare la dicevano lunga sul suo stato d'animo e anche alcuni dei parenti dello sposo sembravano pronti ad attaccar briga.

Quando fu il momento di entrare nella sala in cui si sarebbe tenuta la festa, cominciò la guerra.

Le voci, spagnole, napoletane e romane, si unirono in un convulso vociare che, pareva, era partito proprio dal giovane figlio del papa ed era arrivato a toccare anche i parenti meno prossimi di Sancha d'Aragona.

Il pretesto, così pareva, era l'ordine di ingresso nel salone, ma tutti quanti stavano rispolverando vecchie e nuove recriminazioni, che andavano dai pettegolezzi su Sancha – veritieri secondo i Borja e fasulli secondo gli Aragona – a quelli su Lucrecia – sacrosanti secondo gli Aragona e deprecabili secondo i Borja – finendo poi con l'arroccarsi su questioni di poco o nullo conto.

Quando dalle parole si passò ai fatti e cominciarono a volare i primi pugni, Alessandro VI in persona si fece largo tra i presenti e si unì alla confusione.

Il segno venne passato quando vennero sguainate le prime spade. Nel momento in cui, per puro caso, una lama finì proprio sotto al grosso naso adunco di Rogrido, il Santo Padre gonfiò il petto e gridò con tutto il fiato che aveva in corpo che era ora di piantarla.

Quando pian piano la situazione si acquietò, ci si accorse che i servi, terrorizzati, si erano rintanati chissà dove e ci volle parecchio tempo, prima che qualcuno di loro ricomparisse e si potesse quindi dare il via al banchetto.

In tutta quella rivoluzione, immuni alle bestemmie lanciate e alle armi brandite, Lucrecia e Alfonso avevano passato ogni istante occhi negli occhi, mano nella mano, un sorriso sempre più sicuro sulle labbra e la voglia di conoscersi che cresceva sempre di più.

 

Il viaggio era stato più complicato di quanto non si fosse prospettato. Giovanni, mentre attraversavano le montagne, aveva avuto un attacco del male della pietra e aveva passato un'intera notte preda dei dolori al fianco e della febbre.

Così, al mattino, tutti, di comune accordo, avevano preferito aspettare e vedere come sarebbe evoluta la situazione. Nessuno voleva contravvenire l'ordine della Contessa, che li voleva celeri e rapidi, ma tutti quanti sapevano che se per caso il fiorentino fosse morto per qualche accidente lungo la strada, nessuno di loro avrebbe avuto salva la vita, una volta che la Tigre l'avesse saputo, dunque era meglio essere il più cauti possibile.

A un certo punto, verso mezzogiorno, Corradini era già sul punto di ordinare il rientro immediato della spedizione, quando, per fortuna, il Medici si era ripreso quasi di colpo, espellendo il calcolo e rinsavendo anche dalla febbre.

Giovanni si sentiva indebolito e aveva un mal di testa indicibile, tuttavia ostentò una salute invidiabile e si mise in sella per primo, spronando tutti quanti a recuperare la mezza giornata persa.

Quando erano infine arrivati in vista di Firenze, però, tutta la finta baldanza mostrata dal Popolano pareva sparita nel nulla.

Nel petto dell'uomo si stava combattendo una dura battaglia. Da un lato, moriva dalla voglia di rivedere la sua città e i suoi cari. Dall'altro, temeva l'una e l'altra cosa.

“Mio signore – disse Corradini, accostandolo con la propria cavalcatura – è quasi sera, dobbiamo sbrigarci, prima che chiudano le porte.”

Il Medici annuì con un cenno della testa e poi aggiunse: “Avete ragione. Questa notte voglio dormire nel palazzo di mio fratello.”

Felice di sentirlo tanto deciso, il Capitano gridò l'ordine di avanzare ai suoi e così la piccola carovana proseguì lungo la strada, andando incontro a quel piccolo diamante di tetti e chiese che era Firenze vista da lì.

 

“E come sta adesso?” chiese Caterina, guardando una delle balie che le aveva appena riferito dell'improvviso malore della nutrice di Ludovico.

“Non troppo bene, mia signora.” ammise la donna, tormentandosi le mani l'una nell'altra, preoccupata: “Il medico ha parlato delle febbri che hanno attaccato nelle campagne...”

La Sforza fece un soffio, cercando di pensare in fretta: “Adesso dov'è?” chiese, meditando come la prima misura da prendere fosse semplicemente quella di allontanare l'ammalata da suo figlio e dalla rocca in generale.

“Nelle stanze della servitù.” rispose la balia.

La Contessa annuì e si congedò in fretta dicendo: “Vado a dare disposizioni affinché la portino fuori città. C'è una famiglia di contadini che non la rifiuterà. La manderò lì e vedremo se si riprende. Voi, intanto, andate in città e cercate subito una sostituta.”

La balia fece un inchino e partì all'istante e così la Tigre si occupò di quel che doveva. Quel giorno si era stancata allo sfinimento portando assieme ai suoi braccianti parecchi sacchi di grano nel centro della città.

La carestia ormai si faceva sentire ed era da sciocchi pensare che la situazione sarebbe migliorata a breve. Anche se la Sforza teneva alle riserve di Ravaldino quasi quanto teneva alla rocca stessa, si era resa conto che quella fosse la soluzione migliore.

Aveva fatto ridistribuire il grano tra le varie famiglie e sperava che a quel modo, per un po', avrebbe placato gli spiriti dei forlivesi.

Mentre scendeva in fretta negli alloggi della servitù per dare ordini e anche dopo, mentre risaliva per andare a controllare come stesse il figlio, sentiva le gambe pesanti e la schiena a pezzi. A quel modo, però, faceva meno fatica a dimenticare certe tentazioni.

Quando arrivò nella stanza di Ludovico, trovò Bianca con il bambino in braccio e Sforzino sulla poltrona, accanto a una delle balie, intento a divorare un pezzo di torta secca.

La Contessa lo guardò di sfuggita, trattenendosi a stento dal ricordargli che per fare tutto il cibo che ingurgitava in un giorno, le cuoche dovevano intaccare sempre di più le loro riserve in dispensa, e poi si dedicò al più piccolo della cucciolata.

Bianca glielo porse con delicatezza, quasi dispiaciuta di doversene staccare e le riferì: “Mi hanno detto che piangeva come un disperato, e temevo avesse preso anche lui la febbre... Però poi, quando l'ho tenuto in braccio io, si è calmato.”

Caterina guardò il piccolo viso di Ludovico e vi riconobbe il taglio degli occhi di Giovanni. Quel dettaglio le strappò un sospiro, nel pensare al marito lontano e le fece chiedere se il Medici fosse già a Firenze in quel momento, o, addirittura, già sulla strada per Pisa.

Si scosse dai suoi pensieri e osservò con occhio critico il piccolo. Era roseo e pacifico e la stava fissando in modo particolare, come se fosse molto contento di vederla. Per molti versi, notare quell'atteggiamento in uno dei suoi figli, la sorprese.

“Mi pare che stia bene...” fece la Tigre cercando di nuovo conferme in Bianca che, accanto a lei, disse subito che lo credeva anche lei.

A quel punto Caterina non vedeva altro da fare, dato che era quasi sera, se non ribadire anche alla balia che stava vicino a Sforzino quanto fosse importante trovare una nutrice in salute al più presto e consigliare: “Dovremmo tutti stare attenti a come stiamo, in questi giorni. Il primo che sentisse il minimo disturbo, dovrà dirmelo.”

I presenti annuirono e poi la Contessa si rivolse alla figlia: “Vai nel mio laboratorio e prendi il ricostituente che trovi nello scaffale alto. L'ho preparato giusto qualche giorno fa. Lo berremo tutti, così, forse, ci difenderemo meglio da queste dannate febbri...”

Bianca chinò il capo in segno di reverenziale obbedienza e poi, quando fu certa che la madre intendeva dare una taglio di immediatezza a quell'ordine, andò alla porta senza aggiungere altro.

“Andatevene. Voglio stare un po' da sola con mio figlio.” fece la donna, rivolgendosi alla balia e poi anche a Sforzino: “Ci vediamo dopo a cena.”

Il bambino, timido e un po' schivo come sempre, abbassò gli occhi e annuì e seguì la balia fuori dalla stanza.

La Leonessa, stringendo al petto Ludovico, si mise sulla poltrona e cominciò a ragionare sul da farsi. Sperava non ci fosse bisogno di prendere altri provvedimenti contro quelle febbri e che non si trasformassero in un'epidemia conclamata.

Sorreggendolo per le ascelle, guardò il figlio. Era robusto, forte e sano. Libero dalle fasce – con grande scorno di una delle balie che aveva insistito senza successo nel provare a fargliele tenere addosso – il piccolo agitava un po' le braccia, mentre le gambe, i piedi posati sul ventre della madre, abbozzavano qualche goffo passo in aria.

“Ludovico...” sussurrò Caterina e, nel dire quel nome, un lampo improvviso le riportò davanti agli occhi il cadavere di Marcobelli: “Ha ragione tuo padre... Dobbiamo trovarti un nome migliore.”

 

Un vento fresco e leggero sollevava un po' di polvere dalla strada e portava alle narici di Giovanni l'odore dello stallatico che sporcava le strade e dei fumi delle osterie, a quell'ora piene di vita e chiacchiere.

Il Medici sollevò lo sguardo verso lo stemma di famiglia che campeggiava in cima al portone del palazzo.

Si era fatto annunciare, ma non era ancora arrivato nessuno ad aprirgli. Cominciava a essere teso e, muovendo nervosamente il peso da una gamba all'altra, iniziava anche ad avvertire in modo più netto il suo dolore sordo di fondo, che l'aveva accompagnato senza tregua fino a lì.

Era ancora intento a scrutare la Via Larga, profondamente commosso nel ritrovarsi nella città che tanto aveva amato, ma allo stesso tempo frastornato dai cambiamenti che vi aveva trovato – molti ancora legati alla tragica ascesa e all'ancor più drammatica fine di Savonarola – quando il portone, finalmente, si riaprì.

Prima che avesse il tempo di capire chi fosse arrivato ad accoglierlo, una donna gli saltò al collo, stringendolo con forza a sé. Giovanni, quasi in automatico, ricambiò l'abbraccio, ma fu solo quando quella parlò, che la riconobbe.

“Siamo tutti così felici di rivederti..! Da quanto tempo... Sembrano secoli...” disse Semiramide, la voce che si spezzava un po', mentre si allontanava da Giovanni, posandogli una mano sulla guancia coperta dalla barba ricresciuta durante il viaggio.

Qualche curioso che passava di lì, osservava la scena commentandola a bassa voce e così la padrona di casa capì che non era il caso di stare lì fuori a dare spettacolo.

Facendogli segno di entrare, condusse il cognato e la manciata di uomini che portava con sé nel cortile interno.

Qui, in un silenzio che al Medici mise quasi i brividi, Semiramide lo abbracciò di nuovo e poi, mentre erano ancora vicini, gli sussurrò all'orecchio: “Mi sei mancato così tanto...”

Con gentilezza, ma anche con fermezza, il Popolano più giovane la convinse a scostarsi da lui e, tenendola ancora per mano – perché quella presa non era riuscito a scioglierla – le chiese: “Dov'è mio fratello?”

La donna guardò meglio il cognato solo in quel momento, alla luce del tramonto e delle torce. Lo trovò molto dimagrito, in ordine, ma apparentemente sofferente. Era sempre uno degli uomini più belli che avesse mai conosciuto, ma qualcosa in lui era cambiato.

La sua attenzione, poi, cadde sulle sue mani. Erano guantate, da stoffa spessa e imbottita, tra l'altro e lei non ne capiva il motivo, visto il caldo che faceva.

“Tuo fratello è nel salone... E non vede l'ora di incontrarti.” gli disse, appena meno espansiva di poco prima.

“Già. È tanto impaziente di vedermi che non è nemmeno sceso nel cortile.” ribatté Giovanni, un'acidità nella voce che sorprese lui per primo.

Semiramide avrebbe voluto dire qualcosa in difesa del marito, ma non le sembrava il caso, visto che la scorta del cognato era in ascolto.

“Voglio darmi una sistemata, prima.” disse il Medici, con uno strano vuoto nel petto: “Prima di cena, lo incontrerò, se vorrà. Altrimenti, lo vedrò a tavola.”

L'Appiani sospirò e, passandogli con fare quasi materno una mano sul braccio, convenne: “Come preferisci. Troverai la tua stanza a posto, come l'hai lasciata.” poi guardò Corradini e gli altri e aggiunse: “Se volete seguirmi, vi mostro le stanze in cui potrete riposare...”

Giovanni li guardò allontanarsi e poi, contravvenendo all'istante all'idea che aveva avuto poco prima, varcò anche lui l'ingresso interno del palazzo, ma non per recarsi in camera sua, ma per raggiungere Lorenzo nel salone.

   
 
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