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Autore: Adeia Di Elferas    06/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quella Caterina Sforza?!” aveva chiesto il messo della Signoria, leggendo preventivamente gli incartamenti portati da Giovanni.

“Sì, quella.” aveva risposto secco il Medici, irritato dal tono sconcertato e incredulo dell'altro fiorentino.

Questi l'aveva guardato di sotto in su, puntellandosi perfino sul bancone su cui aveva appoggiato i fogli e poi, tra l'ammirato e contrariato, aveva commentato a denti stretti: “Se è vero che è vostra moglie... Vi auguro una buona fortuna.”

Il Popolano stava ancora pensando alle parole di quell'uomo e anche allo sguardo che il Gonfaloniere in persona gli aveva dedicato quando aveva capito di che trattava la sua richiesta.

Ripercorrendo la Via Larga assieme al suo seguito, Giovanni stava attirando non pochi sguardi. A Firenze si stavano accorgendo del suo ritorno solo quel mattino. Lo avevano riconosciuto, eppure, l'uomo ne era certo, lo fissavano tutti come se lo trovassero molto cambiato.

Desideroso di andarsene in fretta, guidò i suoi fino all'ingresso del palazzo di famiglia e attese che la cognata e i nipoti arrivassero a salutarlo.

Strinse Pierfrancesco e Vincenzo con forza, raccomandando loro di fare i bravi e di rendere orgogliosi i loro genitori, poi dedicò un abbraccio a ciascuna delle due nipoti, alle quali diede anche un bacio sulla fronte, accompagnato da qualche buona parola.

Quando rimase solo Semiramide, la guardò un momento, il sorriso triste che si spegneva in un'espressione cupa: “Lui non scende?” le chiese.

La donna fece appena segno di no con il capo. Faceva già molta fatica a trattenere le lacrime, all'idea che il cognato se ne stesse andando di nuovo, e proprio non se la sentiva di parlare di Lorenzo.

Aveva cercato in tutti i modi, mentre Giovanni era alla Signoria, a convincerlo a riappacificarsi con il fratello, a non lasciarlo andare in guerra con quella ferita aperta. E invece il marito, ostinato e fermo nelle sue posizioni, le aveva detto a male parole di tacere e si era chiuso nello studiolo.

Con un sospiro pesante, il Popolano più giovane inghiottì quell'amaro boccone, il cuore che correva nel petto come se glielo volessero strappare e, prima di scoppiare a piangere per la frustrazione e la rabbia, strinse tra le braccia la cognata.

I due rimasero vicini per un bel po', lasciando che quella stretta dicesse tutto quello che il nodo alla gola impediva loro di esprimere a voce e poi si riallontanarono.

Semiramide gli accarezzò lentamente la guancia coperta di barba riccia e, guardandolo negli occhi, riuscì solo a dirgli: “Mi mancherai.”

Il Medici fece un cenno con il capo, per dire che per lui era la stessa cosa, e poi tornò verso il cavallo.

Era appena salito in sella, quando un movimento dietro a un tendaggio ai piani alti attirò il suo sguardo. Vide alla finestra il viso tirato e smunto di Lorenzo e per qualche istante i loro sguardi si incrociarono.

“Mio signore...” fece Corradini, avvicinando la sua bestia a quella del Medici, guardando anche lui in alto e intuendo la tensione tra i due fratelli: “Per caso volete... Insomma, anche se ritardiamo di qualche minuto non...”

Giovanni lanciò un'ultima occhiata penetrante a Lorenzo, e poi, imponendosi di essere forte, abbassò la testa e disse: “No.”

Diede di speroni al cavallo, salutò ancora una volta la cognata e i nipoti con la mano e poi voltò la cavalcatura, seguito dai suoi uomini.

Attraversarono parte di Firenze, passando sull'Arno con lentezza, come il Popolano aveva chiesto di fare, per poter salutare il fiume che aveva visto tante volte al tramonto, riposando sulle sue rive, e altrettante all'alba, dopo qualche notte passata fuori dal palazzo a fare il ribelle.

Mentre passavano le porte, Giovanni sentì il groppo alla gola ritornare, mosso forse da una sottile consapevolezza che a Firenze non sarebbe tornato mai più. O meglio, che forse non vi sarebbe mai più tornato.

Asciugandosi con il dorso guantato della mano, il Medici si maledisse per la sua debolezza. Doveva essere la malattia, ad averlo reso tanto fragile da mettersi a piangere come un bambino a quel modo.

Tuttavia quando qualche metro più avanti Corradini lo affiancò di nuovo, dandogli un colpetto sulla spalla e sussurrandogli, con un tono che tutto aveva fuorché una nota derisoria: “Avanti, mio signore. Non siate triste. Vedrete che andrà tutto bene.” il fiorentino si sentì un po' meno sciocco e ragionò tra sé che in fondo anche un uomo può piangere, senza doversene per forza vergognare.

 

“Ed è giusto così!” tagliò corto il papa, asciugandosi il sudore con una pezzuola di lino che portava con sé.

L'aria, nei giardini vaticani, era ferma come in tutta Roma. Sotto quel punto di vista, Dio sembrava molto democratico nel voler affliggere l'intera città – residenza papale compresa – con quell'afa insopportabile.

Cesare, in abiti borghesi, il cappello tra le mani dietro la schiena, stretto dalle sue dita nervose, seguiva il padre con passo svelto, dovendosi fermare spesso per aspettarlo.

La lamentela che gli aveva portato quel giorno era semplice: Lucrecia passava troppo tempo con il novello sposo e lo faceva in modo a suo dire sconveniente.

“Sono sposati da meno di una settimana...” sbuffò Rodrigo, cercando di fare il giusto tra i giusti, benché lui per prima fosse infastidito dall'entusiasmo che la figlia mostrava per Alfonso d'Aragona in modo tanto palese: “E si piacciono. Meglio, no, che passino del tempo assieme?”

“Non lasciano mai la camera da letto!” sbottò Cesare, dandosi un colpo sulla coscia con il capello straziato, la voce resa un po' più acuta dalla rabbia.

Il papa, a quel punto, visto che il figlio aveva usato un tono che non gli piaceva per nulla, si fermò e, puntato lo sguardo in quello del giovane, gli disse, perentorio: “Il matrimonio di Lucrecia non è affar tuo. Hai già fatto abbastanza danni. Stai attento a quello che fai.”

Con una smorfia di insoddisfazione, il figlio cercò di quietarsi quel tanto che bastava per far sì che il padre non lo riprendesse in modo più duro.

Alessandro VI, ogni volta che pensava a quel giovane napoletano che con le sue battute di spirito e il suo modo di fare avvolgente pareva aver conquistato il cuore di Lucrecia, si sentiva tanto teso da rischiare di perdere la testa. Era qualcosa di più forte di lui. Si trovava quasi a rimpiangere quel conigilio di Giovanni Sforza.

Tuttavia, sapeva che c'erano cose più importanti all'orizzonte e che il matrimonio di Lucrecia era solo uno dei tasselli che componevano il grande mosaico che stava preparando.

“Ascoltami bene...” fece l'uomo, chiamando vicino il figlio con un cenno della mano: “Se tutto va come spero, per fine mese istituirò la commissione per il divorzio di Luigi XII di Francia.”

Cesare ascoltava solo con un orecchio, ancora impantanato nel pensiero della sorella ridente e lasciva stretta tra le braccia dell'Aragona, ma quando il padre lo afferrò con irruenza per il bavero, inducendolo a dedicargli tutta la sua attenzione, il giovane si concentrò come non mai.

“L'aiuto che il re ci darà in cambio di questo favore – proseguì il Santo Padre, mentre il suo sguardo rapace indugiava con rammarico sul lato del viso di Cesare coperto di croste, segno di una recente riacutizzazione della sua malattia – sarà molto importante. Lasceremo passare due o tre settimane e allora ti farò spretare. Farai la tua bella recita in concistoro e poi penserò io a sistemare tutto.”

Il giovane Borja, che sapeva già, a grandi linee, della decisione del padre, bevve ogni parola come fosse un elisir. A quel modo, il papa gli stava per dare la libertà. Era pronto a imbracciare le armi, se era ciò che doveva fare per liberarsi del Vaticano.

“Fatto ciò, ti dirò le nostre prossime mosse.” concluse Rodrigo, tornando a tamponarsi la fronte imperlata, il fiato un po' grosso per l'umidità che rendeva l'aria molto pesante: “E speriamo che questa maledetta estate ci dia tregua...”

 

Antonio Maria Ordelaffi si stava mordendo l'unghia del pollice, mentre i suoi occhi cerchiati e arrossati guardavano fuori dalla finestra, più o meno in direzione dello Stato della Sforza.

Era già sera e non si vedeva un granché, eppure la sua mente gli dava l'illusione di poter quasi scorgere in lontananza la rocca di Ravaldino, dove la sua nemica aveva preso dimora, dimostrandosi la donna rozza e paesana che tutti i suoi detrattori dicevano fosse.

Si sentiva messo alle strette da tutte le parti ed essere accusato di non sapere quello che faceva lo metteva ancora più in una condizione di profondo sconforto.

Aveva sentito che Giovanni Medici, l'ambasciatore fiorentino a Forlì, lo stesso che aveva convinto, così si diceva, la Sforza a parteggiare per Firenze piuttosto che per Venezia, qualche giorno prima fosse partito alla volta della sua Repubblica con al seguito dei soldati della Tigre.

Le spie non erano state in grado di dire se fosse andato via di sua spontanea volontà, se fosse in missione, o se per qualche motivo la Contessa avesse deciso di allontanarlo da sé.

Antonio Maria non aveva mai avuto le idee chiare su quella donna e anche in quel frangente aveva il potere di confonderlo.

Dicevano che avesse avuto un figlio dal fiorentino e che i due si fossero addirittura legalmente sposati, tuttavia l'Ordelaffi era poco incline a credervi, perché non riteneva possibile che una cosa del genere – l'unione di una Sforza e di un Medici – sarebbe passata tanto sotto silenzio.

Anche Vincenzo Naldi, che lo aveva raggiunto a Ravenna da qualche giorno, si era detto molto scettico rispetto all'ipotesi che la Sforza si fosse legata mani e piedi a uno dei Popolani, rischiando così di diventare una pedina di Firenze.

Tuttavia, Naldi aveva parlato mettendo ben in chiaro che suo cugino Dionigi, per quanto ne sapeva lui, militava al servizio di Ottaviano Manfredi il quale si era da poco congiunto nel campo pisano a Ottaviano Riario che, tutti lo sapevano, portava con sé lo stendardo della madre, ma anche quello del Medici.

“Avete deciso, mio signore?” chiese titubante il Capitano che stava aspettando le decisioni del suo comandante.

Antonio Maria, che si era completamente dimenticato della presenza di quel veneziano, fece un cenno con la mano e dichiarò: “Aspetto di vedere cosa farà il Malatesta.”

Il riferimento all'apparente disinteresse del Pandolfaccio – in quel momento lontano dalla sua Rimini – ne confronti dei piccoli tumulti che continuavano a scoppiare in città, mettendo a rischio anche la vita della moglie, fece fare un'espressione contrariata al Capitano che, tuttavia, rispose con un mezzo inchino: “Come volete.”

L'Ordelaffi gli fece capire che voleva essere lasciato solo, così l'altro si dileguò e l'esule forlivese fu libero di arrovellarsi sui suoi pensieri, ai quali si era riaggiunta la questione del Pandolfaccio.

Sapeva che era al nord, con i Baglioni e con qualcun altro che stavano cercando di rovesciare Lorenzo il Popolano per riportare alla Signoria Piero il Fatuo, permettendo così a Venezia di manovrare la propria nemica e vincere la guerra senza altri morti.

Tuttavia, per quanto aveva sentito lui, il Malatesta e tutti gli altri avevano chiesto molti soldi, fatto molte parole, ma non ancora mosso un dito per adempire al loro oneroso compito.

 

Caterina teneva la lettera tra indice e pollice, facendola ondeggiare lentamente. L'altra mano era sulle labbra, gli occhi lontani e pensosi e sulla sua fronte si era creata una profonda ruga di preoccupazione.

Quando era giunta una missiva dal campo pisano, la Sforza aveva subito pensato a un messaggio del marito, e, invece, si trattava di una lettera scritta da uno dei suoi uomini, uno dei Capitani partiti con Ottaviano.

La metteva a parte del fatto che Achille Tiberti era stato liberato per mano fiorentina a seguito di uno scambio di prigionieri e che, da un paio di giorni, stava litigando con Ottaviano per riavere il comando delle truppe. Con quella lettera, il Capitano chiedeva ufficialmente a Caterina che fare a riguardo.

Il castellano, intento nei suoi soliti lavori di compilazione e controllo – ingenti, dato che l'assenza di un vero Governatore cittadino aveva fatto ricadere su di lui parte delle incombenze – sollevò lo sguardo verso la Contessa, quando la sentì sospirare.

La donna era seduta scompostamente sulla poltrona che un tempo era stata la postazione preferita di Giacomo. Guardava verso la finestra, ma Cesare Feo dubitava che potesse vedervi qualcosa.

Era lontana, come se la mente e il corpo fossero in due dimensioni opposte. In realtà, da quando il Medici era partito, in molti l'avevano vista spesso in quello stato.

Alternava momenti in cui si stentava a riconoscerla – la si vedeva discorrere amabilmente con il figlio Galeazzo, ascoltare e aiutare negli allenamenti Bernardino, occuparsi con Bianca di Ludovico, perfino cercare di intrattenere qualche breve scambio di battute con Cesare, e condividere con Sforzino qualche spuntino fuori orario – a momenti in cui sembrava tornata la donna che era diventata appena dopo la morte del secondo marito: distante, silenziosa e implacabile.

C'era stato un episodio, per esempio, proprio quella mattina, in cui, dopo aver scoperto una mancanza di uno dei soldati, che si era addormentato nottetempo mentre era di guardia alle granaglie, la Sforza aveva mostrato di nuovo il suo volto più violento.

Trovato l'uomo colpevole, l'aveva strattonato di peso fino nel centro del cortile e da lì, senza che questo riuscisse a difendersi, l'aveva picchiato con forza, tanto da arrivare a stordirlo.

Quando il viso del soldato era infine coperto di sangue, la donna, rabbiosa come non mai e priva di lucidità, l'aveva trascinato di peso fino al primo cortile.

Solo quando l'aveva issato contro il muretto del pozzo e aveva fatto per buttarlo giù, il Capitano Rossetti e il Capitano Mongardini si erano tuffati in avanti per bloccarla.

Per fortuna, il loro intervento aveva fatto sì che Caterina si risvegliasse un po' dallo stato di avulsione che l'aveva presa e, apparendo quasi confusa, aveva dato loro ragione a aveva decretato che all'uomo venisse data una settimana di lavori di fatica e che poi venisse allontanato dalla rocca e mandato a Imola.

Appena la Contessa era andata via, Mongardini aveva fatto una risata amara e, dando di gomito a Rossetti, aveva commentato dicendo: “Intrattabile, taciturna e manesca. Par che la Tigre questa volta stia tornando davvero.”

“Tutto bene, mia signora?” chiese dopo un po' Cesare Feo, mentre davanti agli occhi la vedeva ancora intenta a trascinare il corpo inanime del soldato da un cortile all'altro.

La Leonessa sollevò un sopracciglio e disse solo: “Avrei risposto subito a questa lettera, ma Giovanni sarà quasi a Pisa. Mi fido di lui. Che decida come meglio crede. Non voglio mandare ordini che vadano a intralciare i suoi.”

Il castellano, che nel vedere quella donna, dalle forme tanto morbide e attraenti, si stupiva sempre nel saperla tanto forzuta e risoluta, annuì appena e concordò: “Avete ragione. Messer Medici saprà che fare.”

Caterina fece un altro sospiro e poi, alzandosi dalla poltrona, andò ad appoggiare la lettera sulla scrivania di Cesare e gli disse: “Esco a caccia. Non penso di tornare prima di domani mattina sul tardi.”

Quel genere di comunicazioni non gli era nuovo, anche se, fino a quel momento, la prospettiva di restare fuori per la notte era sempre stata legata alla presenza del Popolano, assieme alla Tigre.

Il castellano fu sul punto di chiederle se fosse intenzionata ad andare a caccia da sola o con qualcuno, quando si morse la lingua, ricordandosi che non era il caso di mettere il naso negli affari della Contessa e così le sue uniche parole furono: “Va bene, mia signora.”

“Cercatemi solo se è cosa molto urgente.” sottolineò la Tigre, andando alla porta.

 

Ottaviano si mordeva nervosamente il pollice, concentrato sulla mappa che aveva davanti e che comprendeva solo in parte.

Non era mai stato bravo, quando i suoi precettori aveva cercato di insegnarglielo, a distinguere bene i confini e gli schieramenti. Gli sembrava tutto confuso e caotico e ovunque guardasse, ogni segnalino – che avesse i colori nemici o amici – gli richiamava solo l'idea della morte.

Si vedeva infilzato da una picca, decapitato da una spada, trafitto da una freccia. Ogni immagine era peggiore della precedente e la consapevolezza che sarebbe morto alla sua prima battaglia pareva farsi tangibile.

Non riusciva a mangiare da giorni. Aveva lo stomaco chiuso. Faticava anche a bere. Quando il suo amico Manfredi gli chiedeva di accompagnarlo a fare bisboccia di notte, lo faceva, ma a volte gli risultava difficile anche quello.

E poi, adesso, il faentino era molto sottotono, da quando, durante una scaramuccia da poco, aveva perso uno dei suoi uomini migliori: Giovanni Macarone. E così, il forlivese aveva visto ridursi gli inviti, e anche le chiacchiere, trovandosi sempre più spesso da solo a rimuginare sul suo tragico futuro.

Inoltre, da qualche giorno, Achille Tiberti, tornato al campo, si era pian piano ripreso e stava alzando la cresta, pretendendo che l'esercito della Tigre riconoscesse lui e non Ottaviano come comandante.

“Mio signore...” uno dei Capitani che facevano da scorta personale del Riario si affacciò nel padiglione.

Ottaviano sollevò lo sguardo dalla mappa e, spostandosi una ciocca di lunghi ricci – che avevano perso nel soggiorno al campo il loro classico aspetto a cavatappi – dietro l'orecchio, chiese: “Che c'è ancora?”

Il soldato, che non sopportava più il figlio della Contessa, così flaccido e inutile, ma che si guardava bene dal farlo capire, per paura che la Leonessa lo venisse a sapere e lo punisse in qualche modo, rispose: “Sta arrivando al campo un drappello che porta lo stemma dei Medici e quello di vostra madre.”

Tanto bastò al Riario per schizzare fuori dalla tenda tanto in fretta da spaventare il Capitano che, da quando erano al campo, non l'aveva mai visto correre una sola volta.

I lunghi capelli al vento, Ottaviano mosse veloce le sue lunghe e secche gambe, andando in direzione della strada che portava a Firenze, convinto che il Medici stesse arrivando da lì.

“Giovanni!” esclamò senza fiato Ottaviano, appena riconobbe la figura del patrigno alla testa del manipolo di cavalieri in avvicinamento: “Giovanni!”

Il Popolano sentì e riconobbe il grido strozzato del figliastro e, man mano che si avvicinava, vedeva come alcuni dei soldati presenti lì al limitare del campo lo stessero additando, deridendolo.

Però, quando lo vide, sperduto e quasi disperato, corrergli incontro, non si badò dei curiosi, ma solo di dargli conforto. In fondo, si disse, era arrivato lì anche per quello.

Scese da cavallo con un po' di fatica, quando era ancora abbastanza distante dal ragazzo che stava correndo verso di lui.

Quando alla fine Ottaviano lo raggiunse, lo strinse a sé con tanta veemenza che il Medici non cadde per puro caso.

Quello che aveva tra le braccia, si rese conto il fiorentino, non era un uomo di quasi vent'anni pronto per la guerra e per difendere la sua terra e il suo nome, ma un bambino spaventato a cui avevano messo in mano armi che non sapeva come usare e di cui aveva una paura folle.

Ripensò fugacemente a tutto il male che quel ragazzo aveva fatto a Caterina, ma anche a tutto il male che Caterina aveva fatto a lui.

Battendogli con fare paterno una mano sulla schiena, mentre lo sentiva piangere sommessamente, gli disse: “Avanti. Adesso sono qui. Non avere più paura. Sono qui.”

 

La Tigre aveva preso la lancia da cinghiali, arco e freccia e il suo stallone preferito ed era partita alla volta dei boschi prima che scendesse la sera.

Prima di andare, era stata un'oretta con Ludovico, da sola. La compagnia di quell'ultimo figlio la rilassava. Entrambi parevano acquietarsi, come il cielo che tornava azzurro dopo la tempesta, quando stavano assieme.

Tuttavia, quando aveva sentito la notte avvicinarsi, la Contessa non aveva visto altra soluzione che andare verso i boschi, come aveva annunciato al castellano.

Aveva sfuggito Bernardino che, le aveva detto, voleva farle vedere alcune nuove posizioni di scherma che aveva imparato, e aveva preso il necessario per la caccia, lasciando la rocca a spron battuto.

Stava riuscendo nel suo intento di essere fedele a Giovanni, che era lontano, ma preferiva essere lontana dalle tentazioni, quella notte.

Era da tutto il giorno che si sentiva più nervosa del solito e, quella mattina, aveva anche passato il segno, nel punire una guardia che si era addormentata mentre avrebbe dovuto controllare la dispensa.

Si conosceva troppo bene e sapeva che non sarebbe riuscita a frenarsi se, quella sera, le fosse capitata qualche occasione. Così, si era detta, avrebbe trovato più facile starsene lontana dagli uomini della rocca.

Quando aveva cominciato a fare buio, con solo un coniglio come preda – indice dello scarso impegno messo nella battuta – aveva raggiunto la Casina.

Entrarvi da sola le aveva fatto uno strano effetto, tuttavia, se l'era ripromesso, quella che era l'alcova prediletta da lei e Giovanni non avrebbe mai fatto la fine del Paradiso. Qualsiasi cosa fosse successa, non voleva trasformarla in un mausoleo, chiuso e impolverato. Era stata troppo felice, tra quei quattro muri, per abbandonarla.

Mise sul fuoco il coniglio, dopo averlo scuoiato e pulito e poi lo mangiò accompagnandolo con un po' del vino che si era portata appresso.

Quando aveva finito, si era coricata sul piccolo letto che stava nel centro del rifugio e aveva affondato il viso nel cuscino. Aveva ancora addosso l'odore dell'ultima volta in cui era stata lì con suo marito.

Cullata da quel sentore, la mente che navigava tra i ricordi di Giovanni e quelli di Giacomo – come sempre impossibili da ricacciare indietro, per quanto lo volesse – la donna lasciò che il poco vino che aveva ingerito facesse il resto e, tutto sommato con una certa facilità, si addormentò, augurandosi di non avere i suoi soliti incubi e di risvegliarsi solo a giorno inoltrato.

   
 
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