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Autore: Kim WinterNight    10/05/2018    2 recensioni
Scappare non è sempre simbolo di codardia. Ognuno di noi ha un motivo valido per cui vorrebbe scappare da qualcuno o qualcosa: chi per dimenticare, chi per liberare la mente, chi per accompagnare qualcun altro nella fuga, chi per uscire di casa, chi per volere di un'entità superiore...
Ma tutti, forse, lo facciamo per cercare un po' di libertà e per rendere noi stessi più forti e capaci di ricominciare a lottare.
DAL TESTO:
Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. [...]
Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte. [...]
«Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato. [...]
«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.
«Avresti rifiutato» si giustificò.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, John Dolmayan, Nuovo personaggio, Serj Tankian, Shavo Odadjian
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ReggaeFamily

Touches

[Daron]




Circondato da un gruppetto di persone, stavo seriamente cominciando a innervosirmi. Avevo fatto di tutto per arrivare puntuale all'appuntamento, ma evidentemente quella ragazzina si era presa gioco di me. Era già passata circa mezzora da mezzogiorno, il sole batteva su Sunset Boulevard come un incendio indomabile, e io morivo di caldo e di fame. La gola mi si stava seccando sempre più e non riuscivo a stare fermo.

Eppure, una massa informe di fan mi si era assiepata attorno, pretendendo foto, autografi e futili chiacchiere con il sottoscritto. Mi sarebbe piaciuto sprofondare o liquefarmi nell'asfalto rovente, ma continuavo a rimanere fermo a subire con un sorriso falso le grida e le sollecitazioni di quei pazzi. A volte erano davvero fastidiosi e inopportuni.

«Daron, Daron! Una foto, per favore!»

«Daron, ehi, ci sono anche io!»

«Oddio, Daron! Daron! Daron!»

«Daron, fratello! Facciamoci un selfie!»

«Daron, mi puoi autografare questo?»

«Prima io, Daron, ho qui il disco degli Scars!»

Se sento ancora pronunciare il mio nome, giuro che vomito, pensai in preda all'esasperazione.

Spingevano, volevano tutti raggiungermi, toccarmi, baciarmi, abbracciarmi. Mani sudaticce, corpi sudaticci, capelli sudaticci.

Trattenni a stento l'impulso di scappare via come un pazzo, non era il comportamento giusto da adottare con degli ammiratori. I miei colleghi me l'avevano sempre detto, ma per me era davvero difficile certe volte.

Ripensai ai ragazzi che avevo conosciuto fuori dal centro commerciale qualche mese prima, e rimpiansi quel momento. Rimpiansi la compagnia di quei tre simpatici ragazzi che erano entrati nel backstage al Dodger Stadium, chiedendomi perché non tutte le persone fossero capaci della stessa discrezione e dello stesso buon senso.

«Ragazzi, scusate, ho fretta» bofonchiai.

«Daron, una foto!»

«Daron? Daron? Ci sono anche io! Mi chiamo Tiffany, puoi farmi una dedica? Ah, anche una per mia sorella Beth e una per mio cognato, lui si chiama Daniel! Daron, mi ascolti?»

«Ci sono prima io, fatti da parte! Daron, oddio, sei bellissimo!»

«Non penso proprio, stupida! Spostati!»

Due tizie cominciarono a battibeccare e spintonarsi a vicenda, intente a decidere chi mi si dovesse spalmare addosso per prima. Come se facesse chissà quale differenza. Quando si comportavano così, per me erano tutti uguali; li vedevo soltanto come una massa informe senza alcuna distinzione.

Le due tizie cominciarono a tirarsi i capelli e insultarsi pesantemente, ma io non mossi un dito. Rimanevo inerme con le mani in tasca e l'esasperazione a stringermi la bocca dello stomaco, mentre un paio di altri ragazzi si facevano avanti per chiedermi qualcosa. Qualcuno ebbe la decenza di separare le due psicopatiche e di trascinarle via, intimando loro di non fare le cretine.

Mi parve surreale ritrovarmi nuovamente solo sul marciapiede, quando tutti furono felici e soddisfatti di avermi importunato. In realtà ero circondato da un sacco di persone, come succedeva sempre in strade come Sunset Boulevard; tuttavia nessuno badava a me, se non per rivolgermi occhiate rapide e stranite.

Sapevo cosa vorticava nella mente dei passanti: mi vedevano come un alieno, abbigliato con una camicia in jeans a maniche lunghe e un cappello nero in testa, nonostante l'estate imperversasse su Los Angeles e il caldo fosse quasi asfissiante. Per questo l'abbigliamento della maggior parte della gente che mi vorticava attorno non era quasi mai al limite della decenza, come se tutte quelle persone non avessero aspettato altro per svestirsi e girare seminude per la città.

Controllai che ore fossero sul mio cellulare e sospirai. Mancavano circa dieci minuti all'una, ma di Layla ancora non c'era traccia. Ero incazzato nero, sia per il suo ritardo che per l'incontro fastidioso con quei fan rompicoglioni.

Alzai gli occhi al cielo e venni accecato dal sole, alto e cocente sopra la mia testa. Per arrivare in orario a quel fottuto appuntamento, avevo dimenticato gli occhiali da sole a casa e adesso ne stavo pagando le conseguenze. Sbuffai e imprecai tra i denti.

Decisi di andarmene, ormai Layla aveva sprecato la sua occasione. Se credeva che io fossi il suo giocattolo, si sbagliava di grosso. Volevo soltanto tornare a casa e buttarmi sotto la doccia per cercare di lavare via la sensazione di disagio che il contatto con tante persone mi aveva procurato.

Mi avviai lungo il marciapiede in direzione del parcheggio in cui avevo abbondonato il SUV e ripensai a quanto fossi stato stupido. Mi ero fidato di Dolly, di sua figlia e delle loro buone intenzioni, ma come spesso accadeva dovevo ricredermi. Probabilmente la mia ex amante aveva qualche interesse a livello economico nei miei confronti, e stava soltanto cercando di usare sua figlia per spillarmi un po' di quattrini. Bella fregatura.

Mentre camminavo, qualcuno alle mie spalle mi si scaraventò addosso e mi trattenne per le braccia, ansimando pesantemente.

Il primo istinto che ebbi fu di scrollarmi di dosso chiunque avesse deciso di importunarmi ancora, tuttavia mi trattenni e mi limitai a irrigidirmi. Mi voltai con l'intenzione di chiarire all'ennesimo fan che non avevo tempo da perdere, ma rimasi in silenzio nel riconoscere il viso di Layla, completamente stravolto e ricoperto di sudore.

«Io... scusa... è successo un disastro, Dar... Daron...» balbettò in preda al panico, stringendo convulsamente il mio braccio destro.

«Sei in ritardo. Io me ne vado» sbottai, ponendo fine al nostro contatto. Arretrai di un passo e feci per voltarmi.

«Aspetta! Non è... non è colpa mia, io...» strillò, tentando nuovamente di afferrarmi.

Sollevai le mani come per proteggermi e la fissai con freddezza. «Non toccarmi» ordinai in tono piatto. Non riuscivo a capire perché la gente non sapesse tenere le mani a posto.

«Ma Daron! Ascoltami, ti prego!» mi implorò Layla, stringendosi le braccia attorno al corpo. Sembrava avere freddo, nonostante l'aria attorno a noi fosse sempre più rovente e quasi irrespirabile.

«No, basta.» Mi voltai e ripresi a camminare, ignorando le sue proteste. Mi bloccai soltanto quando lei riuscì nuovamente ad afferrarmi per un polso.

Seccato, tornai a guardarla e persi definitivamente la pazienza. «Ti ho detto di levarmi le mani di dosso, hai capito? Non mi interessa...»

Layla sgranò gli occhi e indietreggiò leggermente, abbassando il capo. «Scusa, non pensavo ti desse così fastidio. Ascolta... mia madre ha cercato di impedirmi di uscire di casa!» Sollevò nuovamente lo sguardo su di me. «Mi ha chiuso a chiave in camera, e non ti dico cosa ho dovuto fare per uscire! Daron, mi nasconde qualcosa, non vuole che io e te facciamo il test... capisci?»

Sbattei le palpebre più volte e il peso di quelle parole si abbatté su di me, mandandomi ancora più in bestia. «Cosa? Mi prendi in giro?»

Layla scosse vigorosamente il capo. La osservai e notai che era completamente stravolta: il viso dai lineamenti orientali era pallido e sudato, i capelli risultavano scarmigliati e disordinatamente legati in una coda di cavallo, gli occhi neri sgranati e colmi di disperazione. La sua maglia gialla era completamente sgualcita e gli shorts in jeans parevano essere la cosa più ordinata del suo aspetto.

«Daron, ti prego! Andiamo via da qui, lei sa dove dovevamo incontrarci. Non appena si accorgerà che sono scappata, verrà a cercarmi» mi implorò in preda al panico, facendo per allungare ancora una volta una mano nella mia direzione.

Le lanciai un'occhiataccia, poi mi guardai intorno e annuii. «Okay, ma tieni giù le mani. Per favore.»

Lei borbottò delle scuse e mi seguì per qualche altro metro su Sunset Boulevard, finché non svoltai a destra e mi lasciai alle spalle la strada più trafficata e chiassosa, cercando riparo in qualche altro luogo più tranquillo. In realtà avevo deciso di raggiungere il parcheggio e recuperare l'auto, in modo da potermi spostare più in fretta e allontanarmi dal luogo in cui io e Layla ci eravamo dati appuntamento.

Raggiungemmo la nostra meta in silenzio, senza che lei provasse a spiegarmi cosa diamine stesse succedendo e io le ponessi alcuna domanda in merito. Ci sarebbe stato tempo per questo.


«Ormai è fatta, lei non può più impedirci di scoprire la verità» osservai, mentre io e Layla riemergevamo dalla struttura sanitaria in cui ci eravamo recati per lasciare i campioni del nostro DNA da analizzare.

Lei piangeva a dirotto e non riusciva a calmarsi, scossa da profondi singhiozzi e da un'agitazione che riuscivo a stento a comprendere.

Mi afferrò per un polso e io mi bloccai in mezzo al parcheggio sotterraneo, lanciando un'occhiata di fuoco alle sue dita strette sulla stoffa della mia camicia. «Cosa ti ho detto prima?»

«Ho paura. Lei non si era mai comportata così, Daron!» Ignorò le mie proteste e cercò il mio sguardo. «Io e lei abbiamo sempre avuto un rapporto fantastico. Ci siamo sempre confidate tutto, come due amiche... invece adesso...» Scosse il capo e mi lasciò andare, immergendo nuovamente il viso tra le mani.

«Evidentemente ha qualcosa da nascondere» le feci notare, facendo spallucce. Ripresi a camminare verso il mio SUV e, una volta raggiunta la meta, aprii l'auto e mi sedetti al posto di guida. «Salta su, ho una fame terribile» buttai lì, mettendo in moto prima che lei chiudesse lo sportello.

«Dove andiamo?» domandò Layla, sbirciando cautamente nella mia direzione.

Ci pensai su mentre guidavo all'interno dell'enorme parcheggio, dirigendomi alla rampa d'uscita. «Ho un'idea» ammisi.

«Cioè?»

«Sorpresa.»


Da Avetisyan era un piccolo ristorante armeno che si trovava nascosto nell'area di Little Armenia. Ogni tanto ci andavo con alcuni amici che avevano le mie stesse origini, ma a volte qualcun altro si innamorava della cucina del luogo e si convertiva al cibo della mia terra, accompagnandomi volentieri.

Layla era spaesata e stazionava sulla soglia, dietro di me, incerta se entrare o meno nel piccolo locale completamente ricoperto di tappeti persiani. Le lanciai una rapida occhiata e mi resi conto che teneva gli occhi socchiusi e saggiava l'aria con le narici dilatate, sul viso un'espressione indecifrabile.

Quando il misto di profumi si faceva largo in me, era sempre un'emozione grandissima. Avevo bisogno di qualcosa che mi tirasse su di morale, e se Layla fosse stata mia figlia, tanto valeva cominciare a farle conoscere le mie tradizioni e le mie radici.

Avevo già deciso cosa avrei mangiato: un zhingyalov hac ripieno di carne, verdure e salse. Mi piaceva esagerare quando andavo là, amavo mischiare il maggior numero di sapori della mia terra, nonostante fosse un po' dissacrante per quella pietanza aggiungere tanti condimenti tutti insieme. Il zhingyalov hac era un piatto pressochè vegetariano, ma ormai tutti là dentro sapevano che io amavo sperimentare e pasticciare, stavolgendo le ricette tradizionali.

Layla sussurrò: «Mi sento a disagio, vestita così e, insomma, così americana».

Stavo per rassicurarla, quando notai Alina avvicinarsi a me con un enorme sorriso stampato sulle labbra. Mi raggiunse e mi strinse in un forte abbraccio, e tra quelle braccia forti e materne mi sentii subito meglio. Conoscevo Alina da una vita, fin dai tempi in cui i miei genitori avevano cominciato a portarmi in quel posto magico quando ero ancora molto piccolo. Per quanto mi riguardava, Alina aveva sempre fatto parte della mia esistenza, non ricordavo un primo incontro con lei, perché semplicemente c'era sempre stata.

Era una donna possente e dolce, con il cuore grande e tenero, nonostante cercasse sempre di mostrarsi severa nei confronti dei suoi dipendenti e di suo marito Tigran.

«Daron!» sussurrò Alina, mentre mi accarezzava la schiena come fossi suo figlio. Parlò in armeno: «La fanciulla è la tua nuova fidanzata? Mi sembra un po' troppo giovane, figliolo».

«No, Alina, non è la mia fidanzata. È una lunga storia.» Poi mi voltai verso Layla e ripresi a parlare in inglese, notando che ci fissava con espressione confusa. «Alina, lei è Layla, una mia amica. Layla, ti presento Alina, una persona magnifica che per me è come una seconda madre» spiegai.

Le due si scrutarono con attenzione, poi Alina avanzò verso la ragazzina e le accarezzò il mento con fare affettuoso. «Ciao Layla, benvenuta in questa piccola parte di Armenia. La nostra è una terra molto antica, e la nostra cucina è stata tra le prime a nascere nell'area mediterranea e del Medio Oriente. Noi qui cerchiamo, nel nostro piccolo, di tenerla viva, vogliamo evitare che si perdano le nostre radici. Ci siamo molto legati, il nostro popolo ha subito tante angherie nel corso della storia, ma noi non vogliamo arrenderci. Gli armeni sono forti.»

Layla la guardava ipnotizzata, proprio come succedeva a me quando ero piccolo e stavo per un po' di tempo ad ascoltare i racconti di Alina, le sue storie sull'Armenia, sognando di poter un giorno conoscere di persona i luoghi che lei mi aveva sempre descritto con amore e passione. Lei non era come mia madre, che cercava con disperazione di non parlare troppo del passato, perché questo le costava molta fatica. E non era come mio padre, che era ormai abituato alla vita negli Stati Uniti e non badava più di tanto a certi discorsi. Alina era una donna armena e ne andava fiera, ecco perché lei e Tigran mandavano avanti il ristorante senza timore.

«Signora... la ringrazio, io...» Layla balbettò, fissando con imbarazzo i propri abiti sgualciti e zuppi di sudore. «Non credo di essere all'altezza di...»

«Tesoro, non pensare a niente e accomodati pure dove vuoi. Il nostro Daron è venuto qui con elementi ben peggiori di te» minimizzò Alina, rivolgendomi un'occhiata un po' troppo severa. Poi mi parlò in armeno: «Fai il gentiluomo e non far sentire a disagio la ragazza, mi sembra molto spaventata. Ma è carina, dove l'hai conosciuta?».

«Lascia stare, ne parliamo un'altra volta» mormorai, poi sorrisi a Layla e la condussi a un basso tavolo in legno, circondato da enormi cuscini con decorazioni orientali che trovavo meravigliose.

La ragazza si accomodò incerta su uno di essi, quasi temesse di rovinarlo. Si allungò sul tavolino basso di fronte a sé e afferrò un rudimentale menu scarabocchiato su un cartoncino beige. Aggrottò subito le sopracciglia non troppo sottili e mi fissò, rivelando una certa confusione.

«Che c'è?» feci.

«Non capisco queste cose. Ci sono dei geroglifici e poi... anche le parole in caratteri occidentali sono impronunciabili» sussurrò. «Per esempio...» Gettò un'occhiata al menu, poi aggiunse: «Cosa sarebbe un... dolma?».

Ridacchiai. «Hai scelto il piatto con il nome più semplice. Prova a leggera questo.» Allungai un dito e lo posai su un'altra pietanza.

Lei alzò gli occhi al cielo, poi sospiro. «Allora... ar... arfe? Che roba è?!» sbottò.

Risi piano. «Si legge urfa kabob» spiegai con calma.

«Daron, mi dici che roba è? Per me questo è arabo!» si arrese, lasciando cadere il cartoncino sul tavolo.

«Io prenderò un zhingyalov con carne di agnello, verdure e salse a volontà. Sapessi che bontà!» annunciai.

Lei sgranò gli occhi e mi lanciò uno sguardo stranito. «Carne di... agnello?» balbettò.

«Sì, perché?» Mi strinsi nelle spalle.

«Io non mangio carne» affermò in fretta, scuotendo il capo con forza.

Mi portai una mano al mento e riflettei per un attimo, poi mi lasciai sfuggire un sospiro. «Non puoi essere mia figlia allora» dichiarai in tono serio. Poi un'idea mi balenò in mente e scoppiai a ridere.

«E ora che succede?» sibilò Layla.

«Magari sei figlia di Serj. Il cantante della mia band, sai, è vegetariano» sghignazzai.

«Oddio» mormorò.

«Ehi, scherzavo» la rassicurai, evitando di farle notare che la mancanza di senso dell'umorismo in lei non faceva che confermare che non poteva essere sangue del mio sangue.

Alina ci raggiunse al tavolo e si accovacciò accanto a Layla. «Tesoro, cosa vuoi mangiare?» le chiese, accarezzandole piano un braccio.

La ragazzina sospirò e mi rivolse un'occhiata terrorizzata. «Io non so se...»

«È vegetariana» spiegai in tono piatto.

«Vegana» mi corresse. «Sono vegana.»

Mi venne da ridere, ma mi trattenni poiché Alina mi lanciò uno sguardo ammonitore. Finsi di grattarmi il collo e distolsi lo sguardo dalle due.

«Non c'è problema. Posso prepararti un dzhash vegetariano. Preferisci lenticchie o ceci?» propose Alina con dolcezza.

«Uh... non so cosa sia, ma sarebbe fantastico» biascicò Layla sempre più confusa.

«Oh, certo! Daron non ti ha spiegato niente, c'era da aspettarselo.» La donna mi incenerì con lo sguardo, poi spiegò alla ragazzina che il dzhash era un brodo che poteva essere accompagnato da diverse verdure e salse. «Posso fartelo con un legume a tua scelta, poi posso aggiungere fagiolini, piselli... o preferisci le zucchine? Se non ti va la zuppa, posso proporti delle polpette vegetariane con contorno di riso e un po' di pane. Cosa ne pensi? O preferisci pomodori? O patate?»

Layla ci pensò su. «Credo che le polpette vadano bene, sì, grazie» ammise.

«Certo, perfetto. Bene, ti porto anche un antipasto. Si chiama topik ed è una sorta di polpettina vegetariana. Ti piacerà.»

«Se lo dice lei...» borbottò Layla.

«A me un po' di formaggio e di pasta di pane fritta» aggiunsi, pregustando già ciò che avrei mangiato.

Finimmo di ordinare il nostro pranzo e Alina si dileguò, lasciandoci immersi nell'atmosfera orientale del locale e in una leggere musica di sottofondo che non riuscivo a distinguere.

«Mi hai portato all'inferno» brontolò Layla in tono contrariato, guardandosi attentamente intorno.

Stavo per ribattere, quando Tigran fece il suo ingresso nella sala semivuota. C'era qualche altro cliente che stava già finendo di mangiare, visto che noi eravamo arrivati piuttosto tardi e avevamo fatto giusto in tempo ad accomodarci prima che la cucina chiudesse.

Erano già le tre meno un quarto del pomeriggio.

Tigran era un uomo corpulento, in linea di massima un gigante buono dai lineamenti orientali molto marcati e l'atteggiamento autoritario che avrebbe spaventato chi non lo conosceva. Portava i capelli lunghi e grigi legati in una treccia e indossava sempre abiti tradizionali armeni.

Quando Layla si accorse di lui, si appiattì contro la parete che stava dietro di lei e ammutolì, distogliendo lo sguardo da quell'omone che tanto la metteva in soggezione.

Sorridendo, mi alzai e mi accostai a Tigran, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla. Contrariamente a quanto si potesse immaginare dal suo modo di vestire e dai suoi tratti, l'uomo non parlava quasi mai in lingua armena e il suo accento era appena percettibile, perciò mi rivolsi a lui in inglese. «Ciao Tigran, sono onorato di essere venuto qui. Come stai?»

«Daron» mi salutò lui con calore, utilizzando la sua voce sottile e pacata, che subito faceva intendere a un estraneo che il timore che stava provando non aveva alcun senso. «Ragazzo, dovresti passare più spesso a trovarmi. Ti offro una Kotayk Gold, ho sempre qualche bottiglia da parte apposta per te» proseguì l'uomo, regalandomi un sorriso appena accennato.

Mi venne da ridere, nel ricordare le bizzarre sfide che io e Shavo organizzavamo tra John e Tigran, in modo da decidere chi dei due riuscisse a mantenersi più serio dopo qualche bicchiere di troppo. Inutile dire che aveva sempre vinto John.

Layla intanto era immobile e ci fissava confusa.

Le rivolsi un'occhiata e poi dissi: «Layla, lui è Tigran, il marito di Alina. Il mio secondo padre. Tigran, Layla, è un'amica» spiegai per la seconda volta.

«Ragazza, spero ti trovi bene nel nostro ristorante. Ora vado a prendere qualcosa da bere, vogliate scusarmi» si congedò infine l'uomo, dirigendosi nuovamente verso la cucina.

Tornai a sedermi accanto a Layla e sorrisi tra me e me. Non sapevo come sarebbe andato a finire quel pranzo, se a Layla sarebbe piaciuta la cucina della mia terra o se avrei scoperto di essere suo padre.

In quel momento volevo soltanto godermi ogni singolo istante, circondato da tappeti persiani e sicuro di essermi finalmente scrollato di dosso il disagio che avevo provato nell'essere toccato da un sacco di estranei.

Era bastato un abbraccio di Alina per annullare ogni cattiva sensazione.

Allungai una mano sul tavolo e afferrai quella di Layla, facendola sobbalzare un poco.

Mi guardò stranita e confusa, poi spostò gli occhi sulle mie dita, e infine ricambiò titubante la stretta.

Ci scambiammo un'occhiata.

Forse non mi dispiacerebbe se tu fossi mia figlia.




Cari lettori, eccomi qui con un capitolo che per me è stato molto impegnativo. Non tanto per le tematiche trattate, ma per tutte le ricerche che ho fatto mentre lo scrivevo.

Direte voi: «Kim, potevi anche non concentrarti su tutte quelle informazioni sulla cucina armena, chi te l'ha fatto fare?». Be', il punto è che non dobbiamo dimenticarci le radici dei nostri amati System: loro sono armeni, e in quanto tali in un certo senso sono legati alle loro tradizioni e alla loro terra, e non solo a livello culturale o storico.

Insomma, ho voluto immaginare un Daron un po' insolito, un po' nostalgico, un Daron con la voglia di sentirsi a casa e di assaporare i gusti e i profumi della sua Armenia, nonostante lui sia l'unico della band a essere nato negli Stati Uniti ^^

Mi scuso fin da ora se ci sono inesattezze per quanto riguarda le pietanze citate, ma ci ho messo davvero tanto impegno e ho dovuto fare un lavoro di traduzione di molti termini perché ho trovato le informazioni solo su Wikipedia in inglese. In quella italiana non c'è praticamente niente -.-”

Se qualcuno di voi è bravo in inglese – riferimenti a una certa StormyPhoenix sono puramente casuali XD – potrebbe prendere in considerazione l'idea di aggiornare la pagina di Wikipedia in italiano sulla cucina armena... toh, io la butto lì, poi ditemi voi se sono pazza :D

Che ne pensate? A voi la parola!

Grazie per essere ancora qui e per leggere tutto ciò che scrivo, perché mi sostenete e mi tenete compagnia da più di un anno in questo folle progetto!!

Alla prossima ♥

  
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