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Autore: Adeia Di Elferas    12/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quel giorno il caldo aveva cominciato a tormentare i soldati già prima che nascesse il sole. I preparativi al campo erano stati meticolosi e curati nei dettagli e Paolo Vitelli era stato capace di orchestrare il tutto affinché gli uomini scelti fossero pronti con addirittura un'ora di anticipo rispetto al progetto iniziale.

Dopo essersi messo da solo gli abiti di lana pesante e la cotta di maglia, Giovanni aveva baciato il nodo nuziale che portava con una catenina al collo e poi si era fatto aiutare a indossare l'armatura e aveva subito capito che sarebbe stata una giornata infernale.

Non si trattava solo del caldo che, già insopportabile stando in camicione, diventava pessoché disumano con addosso tutte quelle vesti e tutto quel ferro. Il vero problema, almeno per lui, era un altro: il corpo che, caricato a quel modo, minacciava di non supportarlo e cedere prima ancora di andare sul campo di battaglia.

Le sue giunture protestavano a ogni movimento, trovando solo un illusorio sollievo nel momento in cui montò a cavallo. Sistemò la spada al fianco, decidendo di sguainarla solo se vi fosse stata una reale necessità, e tenne una mazza chiodata – arma più rozza, ma, aveva notato durante i suoi allenamenti a Ravaldino, più semplice da usare per le sue mani – assicurata al lato della sella.

Malgrado il suo viso fosse scavato dalla preoccupazione e anche dalla fatica, il Medici sembrava realmente un uomo avvezzo alle armi, benché fossero passati anni dall'ultima volta in cui aveva indossato un'armatura completa.

Ottaviano, invece, sembrava un'altra persona, quella mattina. Il patrigno, con parole calme e ben studiate, lo aveva convinto nottetempo a farsi sistemare i capelli, in modo che l'elmo non gli desse noia e dunque, con una pettinatura che finalmente appariva degna di un guerriero, e la schiena tenuta dritta da tutto il ferro che portava addosso, il Riario dava realmente l'illusione di essere pronto alla guerra.

La colonna di uomini si portò abbastanza rapidamente fino al limitare della località Valiceno, quasi in vista di Cascina.

Grazie agli osservatori, Vitelli era certo che i carriaggi veneziani sarebbero passati di lì, assieme a una nutrita schiera di uomini che si spostavano seguendo le indicazioni del comando generale.

Ludovico della Mirandola, accanto a lui, non parlò per tutto il tragitto, comunicando a stento perfino con i suoi secondi, tradendo un'agitazione che fece venire i brividi anche al Medici.

Quella non sarebbe stata una scaramuccia come le altre. La tensione era palpabile. Tutti avevano capito che il comandante si stava giocando forse l'intera campagna, con quella prova di forza.

Giovanni sentiva un vago senso di nausea, e il cuore che correva, ma, avendo accanto a sé Ottaviano, pallido come un cencio, si sentiva in dovere di mostrarsi forte e sicuro di sé e così, stringendo i denti, non faceva una piega nemmeno quando, assecondando la strada un po' scoscesa, il suo cavallo gli dava qualche piccolo scossone che risvegliava i suoi dolori.

Il piano di Paolo Vitelli aveva un che di geniale e un che di folle, il Popolano ne era sicuro. Poteva tramutarsi in una disfatta o diventare motivo di vanto e chiave di volta per riprendere Pisa. La decisione di mandare in avanscoperta buoi e asini era degna di un pazzo, ma non era da escludersi che quel tocco di teatro si sarebbe tramutato in un colpo da maestro.

E ormai, per capirlo, bastava solo aspettare.

 

Marco da Martinengo si asciugò il sudore dalla fronte, mentre controllava i suoi uomini che uscivano dalle porte di Cascina.

Era ancora nero di rabbia per le accuse mosse contro di lui dai veneziani. Un'inchiesta aperta contro di lui con l'accusa di essere stato poco incisivo, specie dopo la battaglia di San Regolo, era per lui un'onta difficile da dimenticare.

A sommarsi a quello, c'era stata la mezza rivolta di trecento suoi soldati, che, una volta riparati con lui a Cascina, avevano fatto un gran fracasso perché pretendevano di essere pagati in largo anticipo.

C'erano volute le armi, per rimetterli in riga. Le armi e un sacco di tempo.

“Ci sono tutti?” chiese Marco, guardando Giovanni Gradenigo con un velo di insofferenza nella voce.

L'altro condottiero riassunse: “Millecinquecento fanti, duecento balestrieri a cavallo, quaranta schippettieri a cavallo, cinquanta stradiotti e centosettanta armigeri. Sì, ci sono tutti.”

L'altro annuì e poi, guardando un po' sconsolato gli ultimi effettivi della sua truppa, commentò a denti stretti: “Ma guardateli... Senza elmo, quasi senza armatura, in disordine... Ma che razza di esercito mi hanno dato...”

“Fa molto caldo, oggi... Cercate di capirli. In fondo è solo uno spostamento. Non stiamo andando in battaglia...” fece Gradenigo, cercando così di placare un po' il livore del suo comandante.

Questi, in tutta risposta, strinse le labbra e ribatté, acido: “Questo non è uno spostamento e basta, ma un lavoro di scorta ai rifornimenti diretti a Pisa. Questi soldati dovrebbero essere pronti a difendere i muli da...”

“Ma chi volete che ci attacchi?” sbuffò Franco dal Borgo, arrivandogli alle spalle, un mezz'elmo sotto al braccio e l'espressione ancora assonnata: “Avanti, muoviamoci.”

Marco da Martinengo allargò le braccia, quasi in segno di resa e andò fino al suo stallone scuro e, malgrado tutte le sue perplessità, ripercorse la colonna fino a mettervisi alla testa.

 

“Madre... State bene?” la voce di Bianca suonò lontana, alle orecchie di Caterina che, senza accorgersene, aveva appena rovesciato il calice di vino che aveva in mano.

Erano nella stanza di Ludovico e la ragazza stava aiutando la balia a cambiare il fratellino, quando aveva notato quel momento di cedimento della madre, preoccupandosene subito.

La Sforza non sapeva dire cosa le fosse successo. Aveva avvertito solo una sorta di vuoto all'altezza dello stomaco, quasi una somatizzazione di una grande paura, e per una manciata di secondi non era stata presente a se stessa.

Tuttavia, per quanto si sentisse madida di sudore gelato, era tornata in sé: “Sto bene... Sto bene... Io non so come...” fece, guardando la macchia rossa che si era allargata in terra accanto al calice rovesciato.

“Non temete, mia signora, pulisco io...” fece la balia, servile, lasciando a Bianca la cura di Ludovico e affrettandosi a rassettare.

La Contessa, un po' in imbarazzo per quanto successo, accarezzò pensierosa con la punta delle dita il nodo coniugale che portava all'anulare e poi preferì lasciare la stanza, dicendo che aveva bisogno di stendersi un attimo. E in effetti era vero. Appena si era alzata, la testa le era girata e aveva dovuto aggrapparsi alla balia per non cadere.

La donna, sentendo la mano bollente della Tigre sul proprio braccio, si permise di dire: “Mia signora, scottate...”

“Non è nulla.” disse Caterina, con una nota di ostinazione nella voce.

E così, sotto lo sguardo silenzioso di Bianca e della balia, la donna andò alla porta, senza nemmeno salutare Ludovico. E fu quest'ultimo dettaglio a impensierire la figlia perché, malgrado con tutti gli altri la Leonessa fosse sempre stata molto distante, con il più piccolo era diventata man mano sempre più premurosa e affettuosa, tanto che vederla uscire dalla stanza senza nemmeno guardarlo era di certo la spia di qualcosa di grave.

 

Le truppe veneziani stavano vociando in modo sconclusionato, procedendo senza seguire un ordine preciso, quasi fossero intenti in una scampagnata di piacere.

Il caldo torrido aveva portato anche i più prudenti a levarsi l'elmo e molti, addirittura, avevano abbandonato parti dell'armatura e qualche arma nei carriaggi che stavano in coda.

Quando, più o meno nella zona di Valiceno i veneziani videro arrivare sulla strada qualche bue e qualche asino solitario, dapprima tutti presero con una risata quell'apparizione, poi qualcuno cercò di prendere le bestie per unirle a quelle che già avevano.

Solo Marco da Martinengo capì subito che in quello che sembrava un caso fortunato si nascondeva un diversivo molto pericoloso.

“All'armi!” fece appena in tempo a gridare, che subito un urlo feroce di battaglia si alzò sul loro fianco e dalla boscaglia uscì un'orda di soldati, per lo più a cavallo, che li travolse.

Nella confusione, Giovanni Medici era riuscito a tenersi vicino a Ottaviano. Il ragazzo, malgrado il terrore che gli scendeva nel petto, aveva avuto la forza di unirsi al grido degli altri e, sospinto dal cavallo, che aveva seguito l'incedere impetuoso di quello delle cavalcature degli altri soldati, era partito a gran velocità.

Il Popolano aveva un solo obiettivo, quel giorno: tenerlo in vita. Perciò, quando arrivarono ad impattare, presa nel pugno la mazza chiodata, mulinò un paio di colpi, tanto per tenersi lontani un paio di fanti che avevano cercato di ammazzargli il cavallo, e si limitò solo a seguire Ottaviano come meglio poteva.

A discapito di quanto creduto da Vitelli, attaccando a quel modo la colonna, il Riario si era trovato nel punto più tranquillo, lasciando il grosso del lavoro a Ludovico della Mirandola, che si era trovato a embricare proprio contro gli stradiotti, gli unici, nello scomposto corteo di veneziani, che fossero ancora discretamente armati e protetti da armature.

“Veloci! Veloci!” gridava Paolo Vitelli, il naso lungo che fremeva, sotto la celata a becco: “Fateli scappare e prendiamoci i carri! Gli stradiotti! Uccideteli! Prendete loro!”

Il caos che si stava consumando sotto il sole cocente di fine luglio stava confondendo anche i più saldi.

Ottaviano, Giovanni lo notò con meravigliato piacere, sapeva difendersi meglio del previsto. I suoi gesti erano mossi dalla paura, tuttavia colpiva il nemico con violenza, con tanta forza che spesso riusciva a uccidere sul colpo quelli che cercavano invano di tirarlo giù di sella.

Il Medici, invece, intento nel suo lavoro di controllo, disturbava come poteva i nemici a cavallo che tentavano di avvicinarsi. Nei suoi colpi, mirava più alle teste degli animali che non a quelle dei cavalieri, tuttavia, quando dalla mazza – che gli cadde rovinosamente per un fortissimo dolore alla mano, dopo aver colpito uno scudo molto robusto – passò alla spada, non fu più sicuro nemmeno lui di aver solo ferito e non anche ucciso qualche soldato veneziano.

Mentre la fisicità dello scontro si faceva sempre più ferale, e molti passavano alla lotto all'arma bianca, mentre tanti veneziani già fuggivano disordinatamente, il Medici si trovò a ricordare un discorso fatto con la moglie, una notte con la luna nuova, alla Casina, immersi in un buio quasi perfetto.

“Se si va in guerra – gli aveva detto lei, dopo aver ricordato le sue battaglie al fianco degli Orsini, quando ancora era una ragazza – si deve prendere in considerazione due idee estreme.”

“Quali?” aveva allora chiesto Giovanni, passandole con lentezza una mano – ancora armoniosa ed elegante – sulla spalla.

La Tigre aveva fatto un piccolo sospirò e poi aveva risposto, con tono di ovvietà: “Uccidere o essere ucciso. O entrambe le cose.” l'aveva baciato e poi, mentre ricominciava a cercarlo, aveva aggiunto: “Se non si accettano questi due estremi, meglio non impugnare nemmeno la spada.”

Finalmente Giovanni capiva e, quando vide da oltre i forellini della celata la sua spada rossa di sangue, rilucente ai raggi del sole, si rese conto di cosa intendesse davvero parlare Caterina. La vita e la morte mescolate insieme. Quella era la guerra, secondo lei. E aveva ragione.

La situazione per gli uomini della Serenissima pareva già disperata. Marco da Martinengo, il volto porco di terra e sangue, si era rialzato da terra a fatica dopo una rovinosa caduta e aveva anche recuperato un cavallo errante.

Quella che doveva essere una cosa da nulla, si stava per trasformare in una catastrofe: “Ritirata! In fuga! In fuga!” gridò Marco, cercando di farsi sentire dai suoi.

Qualcuno gli fece eco e, finalmente, almeno quelli ancora a cavallo e gli appiedati più veloci, cominciarono a seguirlo.

Franco da Borgo, stordito dopo essere stato colpito alla testa con uno scudo di legno mezzo rotto, si sentiva molto stordito, ma si accorse che il suo comandante stava chiamando la ritirata. Ormai disarmato, afferrando con ambo le mani le redini, voltò il cavallo, travolgendo, nella manovra anche un paio dei propri fanti, e iniziò a dare di speroni verso la salvezza.

Il suo animale, però, inciampò nella ruota distrutta di un carriaggio e si ruppe la zampa, disarcionando Franco, che volò a qualche metro di distanza, tanta era la velocità della sua bestia.

“Prendetelo!” gridò Paolo Vitelli, ancora in sella, l'armatura chiara completamente lorda di sangue.

Poco lontano da lui, Ottaviano Manfredi fece segno a qualcuno dei suoi di mettersi all'opera e così un paio di soldati afferrarono Franco da Borgo di peso e lo portarono in disparte, come prigioniero.

Giovanni Gradenigo, che stava per raggiungere Marco da Martinengo, si voltò nel sentire le urla del commilitone, ma quella distrazione gli fu fatale. Quando tornò a guardare davanti a sé, ebbe appena il tempo di notare un soldato fiorentino che lo caricava, che già aveva una punta di lancia conficcata nel fianco.

Nel vederlo crollare in terra morto, il ravennate Gorlino Tombesi, l'ultimo Capitano rimasto sul campo, abbandonò definitivamente l'idea di salvare almeno qualche derrata alimentare e, raccattata da terra una spada corta, prese a correre come un lampo, in cerca di salvezza.

Passarono ancora minuti di fuoco e poi, quasi all'improvviso, il fragore delle armi e delle grida terminò.

Rimasti sul campo solo i soldati di parte fiorentina e i morti, Paolo Vitelli finalmente si levò l'elmo, mostrando la testa coperta dai sottili e corti capelli fradici di sudore e, guardando un istante il sole sopra di lui, dichiarò: “Abbiamo vinto! La giornata è nostra! Uccidete i morenti, catturate i feriti e recuperate armi e cibo! Portiamo tutto al nostro campo!”

Giovanni, era smontato da cavallo. Nel farlo, però, una gamba gli era ceduta, facendolo cadere a terra per qualche istante. Si rialzò con un po' di fatica, e poi si avvicinò a Ottaviano, che invece era ancora in sella.

“Avanti... Cavati l'elmo.” disse il fiorentino, respirando a fatica.

Ancora non credeva possibile di essere sopravvissuto a quelle ore di fuoco. Non si era mai trovato in una situazione del genere e gli sembrava un miracolo, l'essere ancora vivo.

Il Riario, con le mani che tremavano, rimise la spada lorda di sangue nella fodera e poi si levò l'elmo, come gli stava dicendo di fare il patrigno.

Era visibilmente sconvolto, tuttavia, quando sentì il Medici battergli una mano sulla coscia e dirgli con voce un po' arrochita dalla stanchezza: “Sei stato bravo. Te la saresti cavata benissimo anche senza di me.” riacquistò un po' di colore.

Ottaviano si schiarì la gola e gli disse: “Senza di voi non avrei mai avuto il coraggio di...” ma non fece in tempo a finire, perché Manfredi – i lunghi capelli biondi completamente intrisi di sangue e impastati di polvere – e altri gli si stavano avvicinando, assieme ai suoi stessi soldati, e in breve il giovane forlivese si trovò inghiottito dai loro motti e complimenti.

Era stato per tutti tanto sorprendente vedere l'efficienza del figlio della Tigre, che perfino Vitelli sentì il bisogno di dire la sua.

Appiedato e con mezza armatura tolta, si avvicinò a Giovanni, che se ne stava in disparte, e gli disse: “Il ragazzo se l'è cavata davvero bene. Temevo che scappasse, tirandosi dietro i suoi. Invece ha resistito fino all'ultimo e credo che abbia fatto bene la sua parte.”

Il Medici chinò appena il capo. Aveva solo voglia di spogliarsi e coricarsi. Bere acqua e raffreddare le articolazioni dolenti. Benché gli facesse piacere vedere che il figliastro si fosse tolto dai piedi quella fama da vigliacco che si era guadagnato in mille modi, in quel momento non aveva molta voglia di ascoltare il Vitelli.

“Certo – riprese Paolo, i piccoli occhi freddi che si puntavano in quelli del Popolano – senza di voi credo che non sarebbe nemmeno riuscito a mettersi in marcia, questa mattina... E anche adesso, se non gli aveste tenuti lontani quasi tutti quelli che gli si avvicinavano, non so... Tuttavia...” e, con un ultimo sguardo eloquente, gli voltò le spalle e tornò a dare ordini.

Mentre gli altri si organizzavano, recuperando il bottino e conteggiando le perdite, Giovanni si fece da parte e cercò un po' di ombra sotto gli alberi più vicini. Abbandonandosi con la schiena in terra, respirò a fondo e chiuse un momento gli occhi.

Non c'era un punto del suo corpo che non gli facesse male e i suoi occhi continuavano a mostrargli scene che aveva vissuto fino a pochi minuti prima.

Si chiese se avesse ucciso degli uomini, quel giorno e se sì quanti e non trovò risposte. Nessuna che gli piacesse, per lo meno.

Quando la colonna fiorentina tornò al campo allestito nei pressi di Pisa, le notizie che portava con sé erano ottime: centocinquanta cavalleggeri come prigionieri, Giovanni Gradenigo morto, Franco da Borgo catturato, cinquantaquattro muli di vettovaglie presi e centocinquanta morti per parte.

Dei centocinquanta caduti veneziani, però, quasi un terzo erano stradiotti, e questo dava valenza doppia a quella che si era rivelata una grande vittoria.

 

“E quanti ne avete uccisi?” chiese la donna, tenendo stretto Manfredi per il fianco e porgendogli un boccale colmo di vino.

Il faentino ridacchiò. Era a petto nudo, metteva in mostra tutte le cicatrici del suo corpo con un certo vanto – benché molte fossero solo ricordi di risse da osteria – e di quando in quando si sistemava i lunghi capelli che erano venuti puliti con grande fatica.

Appena scesa la sera, al campo fiorentino erano iniziati i festeggiamenti. Dopo aver pianto rapidamente i morti del proprio schieramento e aver messo al sicuro i prigionieri nemici, i superstiti della battaglia e quelli che non vi avevano nemmeno preso parte avevano cominciato a bere, mangiare, cantare e cercare donne.

Come sempre quando un esercito di stanziava per qualche giorno in più in una zona, il seguito che si accampava attorno alle salmerie era cresciuto esponenzialmente e quindi c'erano abbastanza ragazze disponibili per tutti quanti.

“Oh, parecchi.” rispose Ottaviano Manfredi, che era stato tra i primi a mettersi a festeggiare.

Le tende improvvisate di quelli che si erano messi al seguito dell'esercito pullulavano quella sera di coppie improvvisate appartate in modo più o meno discreto e anche il faentino, che stava ancora tenendo banco assieme a qualcuno dei suoi uomini e al Riario, stava cercando con lo sguardo un posto tranquillo dove andare con la giovane che si era scelto.

La donna, nel sentirgli dire così, gli passò una mano sul petto scalfito da una bella quantità di sottili cicatrici e sussurrò: “Siete molto coraggioso...”

“Ma anche lui se l'è cavata bene.” fece il faentino, indicando con la mano che portava il calice Ottaviano Riario: “Pensavamo tutti che se la sarebbe fatta sotto, e invece ha dato il suo contributo ammazzando un bel po' di cani veneziani.”

Gli altri soldati risero e anche il forlivese, suo malgrado, fece un sorriso storto. Si sentiva in imbarazzo, quella sera.

Sapeva che essere sopravvissuto era già una grandissima fortuna, ma non si sentiva meritevole di tante lodi. Avere i capelli tagliati lo faceva sentire nudo e la sensazione di folle paura che aveva provato la prima volta che un nemico gli si era avventato contro non l'aveva ancora lasciato.

Manfredi gli puntò addosso i suoi occhietti svegli, mentre gli altri andavano avanti a bere e ridere, e poi fece segno alla donna che gli stava aggrappata di andare a tenere un posticino in una tenda che sembrava ancora vuota, promettendole che l'avrebbe raggiunta subito.

Accucciandosi accanto al Riario, che come molti altri era seduto in terra con una coppa di vino speziato tra le mani, il faentino gli posò una mano sulla spalla e gli chiese: “Ma che hai? Sembri uno spettro... Non dirmi che fare la guerra non ti ha messo voglia di fare anche altro, perché non ci credo. Tutti, dopo aver ammazzato dei cristiani in battaglia cercano il calore di una donna.”

“Sì, sì... Adesso...” fece evasivo il figlio della Tigre che, in realtà, nel ripensare a quanto fosse andato vicino alla morte provava solo una fortissima nausea.

“Ma dov'è il Medici?” chiese Manfredi, rendendosi conto solo in quel momento che la costante ombra del suo amico non era nei paraggi: “Scommetto che ha già trovato qualcuna con cui...”

Ottaviano scosse il capo e, bloccandolo, spiegò: “Non stava troppo bene ed è rimasto nel mio padiglione a riposare.”

Il faentino a quel punto si rimise in piedi e, dopo averlo guardato un momento con fare perplesso, sollevò le spalle e soffiò: “Siete strani, voi due.” e andò dalla giovane che lo stava aspettando.

 

Giovanni aveva impiegato molto tempo a recuperare un minimo di forze, dopo lo scontro. La tensione, finché era durata, gli aveva permesso di far funzionare il suo corpo bene o male come voleva lui, durante la battaglia, ma poi, appena il furore del momento si era spento, tutto era tornato come prima, o, meglio, tutto era peggiorato.

Prima di svestirsi, aveva chiamato uno dei suoi che fosse in grado di scrivere e aveva dettato una puntuale missiva per la moglie dove descriveva con precisione la vittoria di quel giorno, soffermandosi molto sia sull'efficienza invidiabile dei soldati addestrati da Caterina, sia sul successo di Ottaviano che, restando in vita e non fuggendo, aveva scansato, almeno per il momento, alcuni dei pregiudizi che lo accompagnavano.

Avrebbe poi voluto scrivere di persona un'altra lettera, molto più intima, destinata a Caterina, ma le sue mani parevano di marmo. Così, pur vergognandosene un po', si abbassò a dettare pure quella.

Il soldato, un uomo discreto che il Medici aveva già conosciuto tempo prima alla rocca, vergò una parola dopo l'altra senza fare una piega, benché di quando in quando le sue guance barbute si tingessero appena per l'imbarazzo.

Alla fine, il Popolano aveva dato ordine di far partire quelle lettere il prima possibile e lo aveva congedato.

Rimasto solo si era cavato con lentezza e fatica i pezzi d'armatura che portava ancora, poi i calzari e gli abiti. Alcuni dei tofi ai piedi e alle mani si erano aperti, sanguinando. Per fortuna non per un attacco acuto di gotta, ma si erano comunque infiammati e facevano male.

Lottando contro il dolore, era andato alla bacinella d'acqua che si era fatto portare e, poco per volta, si era terso il viso e il collo dal sudore e dalle macchie di sangue che lo imbrattavano.

Con difficoltà, poi, era arrivato alla branda e, coricatosi, aveva cercato subito di dormire. Aveva chiuso gli occhi da pochi istanti, però, quando le immagini di quel giorno gli si erano riproposte.

Cercò di scacciarle, pensando a sua moglie e a suo figlio, ma ogni volta che sembrava riuscirci, la paura della morte e l'odore del sangue tornavano presenti e vivi come non mai.

Capendo che non sarebbe riuscito a chiudere occhio, tanto per i pensieri quanto per il dolore diffuso che lo tormentava, il fiorentino si rialzò e andò al tavolo su cui giaceva una brocca di vino nero.

Bevve finché riuscì e quando si sentì completamente ubriaco, tanto da essersi anestetizzato pressoché del tutto, tornò in branda e, come perdendo i sensi, finalmente trovò un sonno duro e sordo.

 

La Contessa non si era più vista per tutto il giorno, nemmeno a pranzo o a cena. Bianca era preoccupatissima, ma non aveva trovato il coraggio di andare a vedere come stesse la madre fino a che non scese la notte.

Dopo mangiato, aveva aiutato le balie a mettere a dormire Ludovico – che senza di lei o senza i genitori non riusciva mai a prendere sonno, disperandosi piuttosto in pianti e lacrime come un vitello che doveva essere macellato – e poi era andata verso la stanza che sua madre occupava da quando era con Giovanni.

Non era certa di trovarla lì, visto che da quando il Medici era partito la si trovava a dormire negli angoli più disparati della rocca, come un'anima in pena, tuttavia siccome non stava bene – o così sembrava – era probabile che si fosse messa a letto.

Bianca si tormentò le mani l'una nell'altra per qualche minuto e poi, in uno slancio di coraggio, bussò.

Non ottenne risposta, così bussò ancora e ancora. Stava per convincersi che sua madre non fosse lì o non le volesse aprire, quando sentì la la sua voce darle il permesso di entrare.

Quando fu nella stanza, immersa nel buio, vide la Tigre stesa a letto ancora vestita come quel giorno e così, tesa, si affrettò ad accendere qualche candela per vederla meglio.

Aveva un'espressione dolente, la fronte imperlata di sudore e sembrava scossa da un lieve tremore. Bianca le si avvicinò e le toccò il viso, trovandolo caldo come quando era bruciata per le sue febbri malariche anni prima.

“Vado a chiamare il dottore.” disse, mentre Caterina, confusa, sembrava far fatica a capire quello che le veniva detto.

La ragazza corse fuori e arrivò fino allo studiolo del castellano, trovando Cesare Feo ancora chino sulle sue carte. Gli chiese di recuperare in fretta il medico e poi, mentre l'uomo si attivava, corse nelle cucine e prese una brocca di acqua fresca.

Mentre stava tornando su, incrociò una delle serve con cui era più amica e le disse: “Ti prego, vai nella ghiacciaia e portami la neve che trovi ancora...”

“Ma non credo che ce ne sia molta...” fece quella, spaventandosi di rimando al tono all'armato della figlia della Contessa.

“Fai quello che puoi, ma sbrigati.” la implorò Bianca: “E quando l'hai preso, corri nella stanza di mia madre!”

Quando arrivò al capezzale della Leonessa, il dottore la visitò e lodò Bianca per aver subito pensato di raffreddare la madre con la poca neve rimasta in quella torrida estate. Fu vago sulle spiegazioni di quell'accesso febbrile, dicendo che non sembrava la solita malaria, ma non fu capace di dare letture migliori al quadro.

L'unica certezza fu che, al mattino dopo, quando il sole iniziava ad alzarsi, la Tigre si svegliò completamente sfebbrata e, per quanto debole, perfettamente lucida.

   
 
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