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Autore: Adeia Di Elferas    14/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Siccome si attendevano armi e rifornimenti da Firenze, i lavori al campo di Paolo Vitelli sembravano andare a rilento.

Il duro colpo inflitto ai veneziani sembrava aver fiaccato molto il nemico che, a parte una piccola zuffa avvenuta tra degli esploratori fiorentini e ricognitori della Serenissima, non avevano più dato segno di vita.

Giovanni ne stava approfittando per riprendersi e per intessere qualche conoscenza. I limiti del suo fisico lo inducevano a stare spesso seduto, se non addirittura sdraiato, ma, grazie a Ottaviano che seguiva i suoi consigli come fossero stati ordini, riusciva sempre a trovarsi nel padiglione degli ospiti interessanti con cui intrattenere discorsi molto utili.

Quando il giovane Riario aveva insistito per fargli conoscere Ottaviano Manfredi, il Medici aveva accettato e, benché come tipo il faentino gli stesse abbastanza antipatico, una volta rimasto di nuovo solo con il figliastro aveva dovuto ammettere che le idee che proponeva non erano malvagie.

“Se il suo piano andasse a buon fine – aveva detto il Popolano, ripensando al tono ottimista con cui l'esule Manfredi aveva esposto il suo progetto – non solo riusciremmo a pacificare quella striscia di terra, ma riusciremmo anche a liberare Bianca da Astorre. E credo che per tua madre questo sarebbe davvero importante.”

Nel citare Caterina, Giovanni non era riuscito a non fare anche un altro genere di pensiero. Il suo corpo si stava stremando, in quei giorni. Che lo volesse o no, gli era chiaro che prima o poi – forse molto prima che poi – sarebbe stato poco più di un rottame.

Faceva fatica a camminare, salvo le mattine in cui si sentiva in forma, e anche le attività quotidiane gli diventavano penose.

Ottaviano Manfredi, invece, era giovane, forte e anche bello. Aveva ancora la tracotanza di un ragazzo, benché avesse già ventisei anni.

Con una spina di dolore nel cuore, il fiorentino era arrivato a pensare che a sua moglie non sarebbe dispiaciuto poi molto, avere a che fare con un uomo del genere, quando sarebbe arrivato il momento.

Oltre al faentino, poi, Giovanni aveva cercato di tastare il polso di altri comandanti, più importanti di lui, e aveva cercato con discrezione di propugnare l'idea che lui e la Sforza avevano in merito alle guerra tra i signorotti italiani.

Quella sera, per esempio, mentre stava seduto accanto a Ottaviano, al tavolo attorno al quale si discuteva la campagna, il Medici aveva esordito di nuovo dicendo: “Perché se ci unissimo, rispettando a vicenda i rispettivi interessi...”

“Parlate da favole.” l'aveva zittito all'istante Paolo Vitelli, agitando una mano: “Siamo qui a far guerra a Pisa e voi vorreste un'Italia unita...”

Quando la riunione si era sciolta, il comandante generale delle truppe repubblicane, aveva preso da parte un paio di suoi fedelissimi e, guardando Giovanni che, zoppicando vistosamente, tornava con Ottaviano verso il loro padiglione, aveva sussurrato: “Quel Medici parla troppo. Ma adesso è di suo cugino Piero che dovremmo preoccuparci. Notizie da Baglioni?”

Il suo secondo, che era l'incaricato ufficiale di tenerlo al corrente sull'esito della condotta di Giampaolo Baglioni, fresco acquisto dello schieramento fiorentino, che aveva saputo già bloccare al castello delle Piscine Guidobaldo da Montefeltro, scosse il capo: “Le solite, mio signore. Lui è pronto a dare una scossa al fronte nord, ma vuole più soldi.”

Paolo Vitelli strinse i denti e, occhieggiando verso il cielo che si scuriva, sbuffò: “Tirchi fiorentini...”

 

L'Oliva alzò le spalle e continuò: “Capite bene che non è il mio campo. Spiate politiche, quello sì, ma rintracciare figli illegittimi...”

La Contessa lo mise a tacere con un cenno stizzito della mano. Da qualche tempo aveva ordinato al capo delle spie di indagare sulla ragazza di cui si sparlava in città, quella che doveva essere rimasta incinta dopo una violenza di Ottaviano.

Quello che ne era emerso era stato poco, o meglio, troppo. Sembrava non fosse un caso isolato, benché spesso le testimonianze fossero difficili da vagliare e ritenere valide, e, a ben guardare in più di un bordello c'erano ragazze con figli già nati o in procinto di nascere che, parlandone spesso in lacrime con le spie messe in giro dall'Oliva, non escludevano l'ipotesi che il padre potesse essere il Riario.

Caterina sapeva bene che il milanese non aveva colpe, tuttavia, come spesso accade, sull'impeto della rabbia, se la prese con lui: “Parlate, parlate, ma quando serve non sapete cavare un ragno da un buco! Andatevene, adesso, e cercatemi solo quando avrete notizie concrete da darmi!”

L'Oliva fece un profondo inchino e lasciò lo studiolo del castellano senza aggiungere altro, ben sapendo che, in quel caso, avrebbe solo acceso di più una fiamma già divampante, facendo solo danno.

Appena l'uomo si chiuse la porta alle spalle, la Sforza andò a sedersi sulla poltrona che stava accanto alla finestra. Da quando aveva avuto l'accesso febbrile che l'aveva tenuta stesa a letto per una notte intera, quasi priva di sensi, si sentiva molto più nervosa di prima.

In parte era per colpa della stanchezza, che le annebbiava il corpo e si ripercuoteva di quando in quando anche nella mente. E in parte sentiva i nervi a fior di pelle perché dal fronte non erano arrivate altre notizie.

Le importavano relativamente le elucubrazioni del suo medico, che non riusciva a capire se il febbrone che l'aveva colpita potesse essere di origine malarica o, piuttosto, una strana manifestazione del morbo che stava minacciando anche il resto della città.

Tutto quello che avrebbe voluto, sarebbe stato avere Giovanni accanto a sé.

Con fare abbastanza scocciato, la donna battè il palmo della mano sul bracciolo della poltrona, la testa immersa nei suoi pensieri, e poi si rialzò.

Andò alla scrivania, controllò un po' di carte, senza davvero capire cosa vi fosse scritto, e poi si diresse verso la porta, pensando che l'unico modo che aveva per calmarsi un po' sarebbe stato andare nella stanza di Ludovico e stare con lui.

Cesare, quel giorno, era uscito molto presto per andare al Duomo. A pregare per Ottaviano, così aveva detto. Sua madre, ormai, era certa che il secondogenito avrebbe preferito dormire in chiesa, piuttosto che stare nella rocca in cui lo aveva fatto vivere fin da ragazzino. L'avrebbe anche lasciato fare, ma preferiva averlo sotto il suo controllo, almeno per qualche ora nell'arco dell'intera giornata.

Sforzino era coi precettori, a lottare con una lezione di matematica che probabilmente non avrebbe mai capito. Quel bambino seguiva con interesse solo le storie dei Santi e i testi sacri e forse, pensava la Sforza, era un bene. Era un tipo tranquillo, pacifico, dedito solo al cibo e alle sue fantasticherie idilliache sulla fede. Per lui, intraprendere la strada ecclesiastica al momento e con gli appoggi giusti, sarebbe stato più indolore che per altri.

Galeazzo era nel cortile d'addestramento assieme a Bernardino. Alla Contessa faceva piacere vederli andare così d'accordo. Il piccolo pendeva dalle labbra del grande che, con una certa umiltà, faceva del suo meglio per tirarselo sempre dietro e insegnargli quello che sapeva.

Bernardino l'aveva pregata di andare con loro in cortile, per vedere quanto fosse bravo, ma la Leonessa aveva declinato. Non aveva alcuna voglia di stare sotto al sole cocente degli ultimi giorni di luglio a cuocere come carne sulla brace. Non dopo il malessere che l'aveva presa. E poi c'era anche un motivo molto meno scusabile, che la stava tenendo lontana dai soldati in quegli ultimi giorni: la lontananza del marito si stava facendo sentire molto più violentemente di quanto avesse sperato e, malgrado la salute non proprio eccellente, vedersi davanti aitanti ventenni che le avrebbero detto di sì senza il minimo indugio, era una prova di forza morale a cui non voleva rischiare di sottoporsi.

Bianca doveva essere con Ludovico. Quando non era nelle cucine o a cucire con le sue amiche, era ormai più facile trovarla con il fratellino, piuttosto che a leggere un libro o giocare ai dadi coi soldati. In un certo senso, il fatto che la figlia stesse pian piano riducendo le sue frequentazioni coi ragazzi e gli uomini che vivevano a Ravaldino aveva tranquillizzato la Tigre, anche se, lo sapeva per certo, di quando in quando Bianca era stata vista parlare in tono intimo o baciare qualcuno di loro. Questo fatto poneva la Contessa in una condizione molto delicata e scomoda. Da un lato era felice di vedere che la figlia si prendeva le sue libertà, dall'altro avrebbe voluto chiuderla a chiave e impedirle di complicare le cose. Perché sapeva che, prima o poi, sarebbero arrivati i guai e non voleva che Castagnino e Astorre Manfredi trovassero anche solo una scusa per costringere Bianca ad andare a Faenza. Ormai il ragazzino era quasi in età per reclamare i suoi diritti, e a quel punto...

Caterina sospirò e si passò una mano sulla fronte, appoggiando l'altra allo stipite della porta. Un lieve capogiro la fermò per qualche istante, ma poi, quasi imponendosi di riprendersi all'istante, la donna si rimise dritta e uscì in corridoio.

“Vi ho trovata...” la voce del Capitano Numai la raggiunse dalla tromba della scale e così, benché non avesse alcuna voglia di dargli ascolto, la Contessa si voltò e gli chiese che volesse.

“Sono appena arrivati due messaggi dal fronte.” spiegò l'uomo, raggiungendola: “La staffetta vi aspetta giù. Non li abbiamo letti, ovviamente, ma ci ha anticipato che vostro figlio Ottaviano ha riportato una grande vittoria!”

La Tigre trasecolò. Mai avrebbe creduto di sentire dire da qualcuno le parole 'Ottaviano' e 'vittoria' nell'ambito della stessa frase.

“Portatemi da questa staffetta, allora.” disse subito, seguendo di fretta Numai che, nel breve tragitto che li portò fino al primo cortiletto, continuò a ribadire che il Riario aveva gestito quella campagna in modo eccellente.

La Contessa si fece leggere ad alta voce la lettera ufficiale, tenendo quella privata per sé, e, man mano che la staffetta enunciava le parole dettate da Giovanni, la donna comprese sempre di più quanto peso avesse avuto suo marito nella riuscita di Ottaviano.

“Dovremo far coniare una medaglia commemorativa.” disse, quasi di sfuggita, rivolgendosi al cancelliere Cardella, accorso per sentire le novità.

Mentre questi annuiva e cominciava a chiederle come volesse questa medaglia, la Sforza si congedò da tutti e si ritirò veloce nelle sue stanze per leggere il messaggio del Medici.

Aperta la missiva si accorse subito che la grafia – eccezion fatta per la firma in fondo – non era quella del marito e quel dettaglio le fece stringere il cuore.

Quando poi lesse le sue parole, la stretta si fece ancor più tenace, perché, malgrado avesse usato toni abbastanza morbidi e quasi vaghi, era chiaro il tormento che Giovanni provava. Per la sua salute, per il dramma spirituale dell'aver impugnato armi contro altri esseri umani e, ancor di più, per la lontananza da lei e da Ludovico.

Asciugandosi la guancia con il dorso della mano, Caterina ripiegò la lettera e poi, sentendosi in dovere di ripagare gli sforzi del marito con altrettanto impegno, si vestì di tutto punto e andò, a passo sicuro e spedito, al palazzo, dopo aver dato ordine di richiamare un Consiglio Cittadino straordinario, affinché tutti i membri e i notabili di Forlì sapessero come stesse andando la guerra e quale fondamentale contributo stesse dando Giovanni Medici, ambasciatore di Firenze nonché suo marito.

 

“E allora? Non ne sei contenta? Ho fatto quello che mi hai detto.” fece Lorenzo, appoggiando il coltello da carne al tavolo.

Quel giorno, per tanti motivi, avevano finito per mangiare tardissimo e, messi a letto i figli, il Medici e sua moglie avevano dovuto far accendere una dozzina di candele per illuminare la tavola.

“Lo sai che Giovanni non lo avrebbe voluto.” fece la donna, tenendo lo sguardo basso, mentre con un pezzo di pane sciocco raccoglieva il sugo dello stufato nel fondo del piatto: “Aveva dato disposizioni precise per questa cosa e tu...”

“Se voleva che le cose si facessero come dice lui, doveva star qui fino alla fine, invece di correre da quel rintronato di Ottaviano Riario.” la zittì Lorenzo, grattandosi un po' la guancia sempre più incavata e coperta di ispida barba castana.

Aveva saputo, come tutti, ormai, della vittoria ottenuta nei pressi di Cascina e gli era arrivata voce che il Conte Riario avesse fatto una figura migliore di quanto tutti si aspettassero e che, dopo l'euforia iniziale nel vederlo capace di combattere, in molti avevano ridimensionato l'entusiasmo dando più meriti a Giovanni che non a lui.

“E poi – riprese il Popolano, le labbra sporte in fuori e una piccola fitta al petto nel pensare che suo fratello era stato in battaglia, era sopravvissuto, aveva vinto e non gli aveva nemmeno scritto due righe per rassicurarlo – a lui importava che quella cagna della Sforza avesse la cittadinanza, no? E quella l'ha avuta.”

“Ma tu lo sai che ci teneva che il suo nome fosse su quel documento.” insistette Semiramide, mentre il pane si faceva tanto zuppo di sugo da rompersi in tanti pezzetti gonfi: “Non vedo perché tu abbia voluto a tutti i costi toglierlo e lasciare in un documento tanto importante una dicitura vaga come 'sposata con un nobiluomo fiorentino'...”

Lorenzo riprese il coltello e recuperò un altro pezzo di carne dal vassoio: “Al diavolo, Semiramide!” sbottò: “Quella vipera del Cardinale Sansoni Riario ha già guidato la congiura contro il secondo marito di quell'assassina! Vuoi che faccia ammazzare anche mio fratello?!”

La donna restò interdetta da quella strana spiegazione e così, mentre abbandonava una volta per tutte il pezzo di pane nel piatto, chiese, a voce bassa: “Ma cosa..? Che ne sai tu...”

“Ho pagato delle spie che hanno saputo fare il loro lavoro. Ho molti soldi. So usarli.” fece il Medici, apparentemente calmandosi un po' e addentando il pezzo di cinghiale che aveva infilzato poco prima.

“I soldi...” sbuffò la moglie, tirando un po' indietro la sedia e facendola grattare sul pavimento di cotto: “È per quelli che hai fatto tutto: i soldi.”

“Non ti permetto di usare quel tono con me.” fece l'uomo, fissandola con una luce venefica negli occhi.

L'Appiani, in momenti come quelli, non lo riconosceva più: “Ammettilo, Lorenzo. Hai voluto cancellare il nome di Giovanni da quel documento solo perché hai paura che muoia e che quel pezzo di carta sia la prova che la sua eredità deve andare alla Sforza!”

A quelle parole, il Popolano picchiò il coltello sul tavolo, lo stomaco tanto attorcigliato che non avrebbe più potuto buttar giù nemmeno un sorso di vino.

Era così furente che avrebbe anche potuto fare uno sproposito, tuttavia, quando già si era alzato, fronteggiando la moglie con fare minaccioso, ebbe la prontezza di andarsene, evitandosi una colpa che non avrebbe potuto sopportare. In sedici anni di matrimonio non aveva alzato le mani verso sua moglie nemmeno una volta, né mai aveva cercato di farle davvero del male.

Quella sera aveva rischiato di passare il limite, ma si era fermato appena in tempo.

Sola al tavolo, il viso pallido come un lenzuolo, l'Appiani ascoltò i passi pesanti del marito allontanarsi e poi, come se la paura provata fosse esplosa tutta assieme, iniziò a piangere, scossa dai singhiozzi.

C'era stato un istante, uno solo, ma era stato sufficiente, durante il quale era stata certa che Lorenzo le avrebbe stretto le mani al collo e l'avrebbe strozzata.

L'aveva capito dal modo in cui l'aveva guardata.

Ma poi ce n'era andato e, la fretta con cui l'aveva fatto, un po' aveva confermato il dubbio di Semiramide.

Con le mani che tremavano vistosamente, la donna si appoggiò al tavolo e si alzò dalla sedia. La nausea che l'aveva presa era simile a quella che insorge per un forte dolore e, nel camminare, si rese conto di avere anche poco equilibrio.

Si risedette appena fuori dalla sala da pranzo, di una delle ottomane che erano accanto alla porta.

Si appoggiò una mano sul petto e sentì il cuore battere veloce come quello di un pulcino. Cercò di fare respiri fondi, per tranquillizzarsi, ma la verità che doveva affrontare era così pesante da renderle molto difficile quell'esercizio di autocontrollo.

Quando fu sicura di riuscire a camminare di nuovo dritta, Semiramide si rimise in piedi e andò nella sua camera. Non volle l'aiuto di nessuna serva per cambiarsi e, appena ebbe congedato anche la più insistente, chiuse la porta a tre mandate.

Malgrado tutto, si fidava ancora di Lorenzo e lo amava più di quanto sapesse dire. Però, da donna pratica quale da sempre era, ritenne opportuno prendere quella semplice precauzione.

 

“Non crediate che la guerra finirà solo perché hanno vinto una battaglia.” fece Tommaso Feo, scuotendo la testa con fare pessimista: “Che poi non era nemmeno una battaglia, ma un agguato. E vorrei vedere chi tende un'imboscata senza essere sicuro di vincerla.”

Quel giorno l'ex Governatore era al palazzo in cui ormai da tempo abitavano la sorella Lucrezia e Simone Ridolfi. Il fiorentino lo aveva invitato a pranzo e poi, dopo mangiato, si era ritirato con lui in uno dei salotti e l'aveva messo a parte delle fantastiche notizie arrivate dal fronte pisano.

Tommaso, però, aveva accolto quelle novità dapprima con una sorta di freddo distacco e poi, più se ne parlava, con cupo scetticismo.

“La Contessa si lascia gettare fumo negli occhi.” disse il Feo, seduto in poltrona, gli occhi un po' incavati e la barba grigia incolta: “Se non fosse così attenta a tenere alto il nome di suo marito e a fare la balia a suo figlio, capirebbe che è dal papa che dovrebbe guardarsi.”

“Che intendete?” chiese Ridolfi, che invece era in piedi, vicino al camino spento.

Tommaso lo guardò un momento, quasi con commiserazione, come se lo ritenesse un autentico stupido: “Secondo voi è normale che Rodrigo Borja se ne stia con le mani in mano mentre Venezia e Firenze mettono le basi per spartirsi la Romagna?”

Simone non fece troppo caso a quello sguardo né al tono ruvido usato dal cognato. Lui e Lucrezia avevano discusso spesso sullo stato in cui verteva Tommaso ed entrambi erano giunti alla conclusione che occuparsi della tenuta del Bosco da solo non gli stava facendo bene.

Era tetro, sempre aspro e il suo fisico sembrava quello di un vecchio e non quello di uomo che non aveva ancora quarant'anni.

“Il papa non...” prese a dire il Governatore di Imola, ma l'altro lo interruppe quasi subito.

“Vi prego, fate presente alla Contessa il mio punto di vista. Lei ha parenti in Vaticano. Che cerchi di scoprire le prossime mosse del papa.” concluse il Feo, mettendosi le mani in grembo e sospirando.

“Forse dovreste dirglielo voi stesso, quello che pensate.” provò a dire Simone, scompigliandosi i capelli che davano sul rossiccio: “Scommetto che la Contessa vi ascolterebbe. Di me, si fida solo per i calcoli.”

Tommaso strinse il morso e per un istante strinse anche gli occhi e un pugno. Sembrava quasi tentato di fare come il cognato gli suggeriva, ma poi, sbuffando, scosse la testa.

“Io non la voglio vedere più.” sussurrò, per poi sollevare gli occhi scuri verso Simone e schiudere appena le labbra, quasi fosse stupito delle sue stesse parole e si vergognasse di averle dette davanti a Ridolfi.

Deciso a chiudere quella situazione imbarazzante, il Feo lasciò la poltrona e, con un goffo cenno del capo, chiuse quella discussione dicendo: “Mi è venuto in mente che dovevo incontrami con alcuni braccianti. Perdonatemi...” e senza dare il tempo a Ridolfi di fermarlo, se ne andò.

“Mio fratello è già andato via?” chiese Lucrezia, quando vide il marito arrivare nella loro camera.

Simone la guardò un momento. Si stava cambiando per il pomeriggio. Era in vestaglia ed era come sempre bellissima.

“Dove stai andando?” le chiese, vedendo che aveva messo sul letto l'abito che di norma usava per uscire.

“Devo vedere uno dei miei fittavoli...” fece lei, sbrigativa, per poi sorridergli e chiedergli, quasi ridendo: “Non sarai geloso, spero...”

“No, quando mai.” ribatté il Governatore e poi, passando a riferirle quello che Tommaso gli aveva detto, l'aiutò a vestirsi e, mentre le sfiorava la pelle calda e sentiva il profumo degli olii che aveva usato per farsi un bagno, un po' riuscì a capire suo cognato e il tormento che portava sempre nel cuore.

Essere innamorati di una donna tanto non curante da non capire quante ferite lascia nel cuore di un uomo, a volte era un vero strazio.

 

   
 
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