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Autore: Adeia Di Elferas    23/05/2018    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“...è l'unica cosa che si possa fare. Tutto il resto sarebbe solo uno sforzo inutile.”

“Ma nemmeno Firenze è molto vicina.”

“Firenze è comunque più vicina di altre città.”

“Ma siete certo che potrebbe sopravvivere al viaggio?”

“Non so nemmeno se sopravvivrà a questa notte, cosa volete che ne sappia..!”

“Se non dovesse riprendersi...”

“Avete già mandato qualcuno ad avvertire la Tigre di quello che sta succedendo?”

“No, no... Non ci ho pensato... Nella concitazione del momento...”

“Forse sarebbe il caso...”

“O forse sarebbe meglio aspettare di vedere se muore o no...”

“Intanto fate preparare un carro per Firenze... In un modo o nell'altro portarlo lì credo sia la soluzione più logica, al momento...”

Giovanni sentiva delle voci maschili che riconosceva solo in parte. Sentiva la testa pulsare, e per qualche istante non ebbe coscienza del dolore che pervadeva ancora il suo corpo.

Poco per volta, mentre quelli che gli stavano attorno ancora discutevano come se lui non fosse presente, tornò padrone di sé e sentì il fiato entrargli e uscirgli dal petto quasi con fatica, il cuore che pulsava arrancando e gli occhi che riuscivano a mala pena ad aprirsi.

“Non sono ancora morto...” disse, con un filo di voce, benché il suo intento fosse quello di gridare per metterli tutti a tacere.

Sentirlo parlare mise a tacere quasi tutti i presenti e in pochi istanti il Medici cominciò a riconoscere qualche volto alla luce stentorea delle torce.

Il cerusico del campo lo aiutò a sollevare un po' il capo, salvo poi farlo ritornare giù, completamente abbandonato sulla branda: “Dovete stare tranquillo, messere...” gli disse, con tono apparentemente molto calmo: “Vi abbiamo cosparso le piaghe con unguento e...”

Giovanni cercò con lo sguardo Ottaviano e lo trovò accanto a Corradini, poco lontano da lui. Era visibilmente spaventato e parlottava con il Capitano molto concitatamente, probabilmente in cerca di conferme riguardo a cosa sarebbe accaduto, se il fiorentino fosse morto quella notte.

“Come credete che stia?” chiese l'uomo, rivolgendosi al cerusico.

Questi, abituato a soccorrere i moribondi scampati alle battaglie, fu franco: “Faccio il caso pericoloso di morte, mio signore.”

Il Popolano sentiva un dolore tanto fondo e sordo dalla vita in giù e alle mani, che quasi il corpo gli pareva staccato dalla mente. Era come se a provare quel tormento fosse un'entità staccata da lui.

“Allora voglio tornare a casa.” disse solo, chiudendo gli occhi.

“Stiamo giusto organizzando il vostro trasporto fino a Firenze, così...” cominciò a dire il Capitano Corradini, muovendo un passo avanti.

Giovanni, che sentiva la coperta unta di creme e fradicia del suo sudore, schiuse di nuovo le palpebre e, cercando di apparire fermo nel suo proposito, ribatté: “Ho detto che voglio tornare a casa.”

Il soldato finse di non capire e così ripeté: “Certo... Manderemo una staffetta a vostro fratello per...”

“Credo che lui voglia tornare a Forlì.” si intromise Ottaviano, con un tremito nella voce che tradiva la sua tensione.

“Dalla mia Caterina.” confermò il Medici, tornando a chiudere gli occhi, come se sottraendosi alla luce delle torce facesse meno fatica a sopportare il dolore fisico: “E da mio figlio.”

Ci fu un momento di tensione tra quelli che si erano assiepati attorno alla branda di Giovanni. Gli sguardi che gli uomini si scambiavano tradivano una profonda inquietudine. Nessuno, men che meno il cerusico, sembrava convinto che il malato potesse arrivare vivo a Forlì. Già pareva a tutti un azzardo spostarlo a Firenze, figurarsi attraversare le montagne.

“Messer Medici, con tutto il rispetto...” si fece avanti il Capitano Corradini che, sentendosi più responsabile degli altri, essendo stato scelto dalla Sforza come guardia speciale per il marito, aveva il terrore di vederselo morire davanti non appena si fossero messi per strada: “Firenze è più vicina, sarebbe più prudente... Una volta che vi sarete ripreso, allora potremmo anche pensare di...”

“Ho detto che voglio tornare a Forlì!” sbottò il Popolano, liberando una voce ben udibile e quasi collerica.

Siccome, malgrado l'idea paresse folle, era chiaro che gli uomini più fedeli alla Tigre, che avevano avuto da lei l'ordine perentorio di seguire tutto quello che il fiorentino avesse comandato loro, Ottaviano capì che avrebbero fatto quel che il Medici chiedeva.

Sentì un vuoto all'altezza dello stomaco. Solo il giorno prima Paolo Vitelli aveva prospettato a breve un attacco di massa, per distruggere una volta per tutte le velleità veneziane e sarebbe toccato anche a lui farne parte.

Non poteva scendere di nuovo in battaglia senza sentire la protezione del Popolano su di sé.

Così, aprendo la bocca prima che la mente potesse vagliare le parole che ne uscivano, il Riario fece un passo avanti e, con tono quasi autoritario, disse: “Vi dico io che cosa faremo. Voi – e indicò Corradini – che siete il più esperto e valido Capitano rimasto al campo, guiderete i nostri soldati in battaglia finché sarà necessario. Io scorterò, assieme a un manipolo di uomini, messer Medici a Forlì.”

Giovanni aveva sentito queste frasi e fu sul punto di chiedere a Ottaviano se fosse impazzito, anzi, fu quasi in procinto di dire che allora preferiva morire lì dov'era, ma poi, una volta tanto, decise di essere egoista.

Voleva rivedere sua moglie e suo figlio prima di morire e se per farlo avesse rischiato di far fallire mesi di accorti maneggi atti a creare un'aura di rispettabilità attorno a Ottaviano... Ormai non gli importava più.

Corradini sembrava quasi spaventato dall'idea, ma non perché non si sentisse pronto a prendere l'incarico, quanto più perché terrorizzato al pensiero di come la Leonessa di Romagna avrebbe preso quella novità.

Tuttavia si rese conto che per essere ligio al suo dovere era necessario seguire le decisioni in primis del Medici e in secundis del Riario. Dunque, dopo un attimo appena di esitazione, chinò il capo e assicurò che avrebbe fatto del suo meglio.

“Preparate carro e cavalli.” continuò allora Ottaviano, che provava un insieme sconclusionato di emozioni, non ultimo un senso di profondo sollievo all'idea che, in un modo o nell'altro, in meno di un giorno sarebbe stato abbastanza lontano dal campo fiorentino da non poterlo nemmeno più scorgere all'orizzonte: “Corradini, scegliete un manipolo di soldati che ci segua. Fate partire una staffetta rapida alla volta di Forlì, affinché annunci il nostro arrivo.”

L'ultima disposizione il ragazzo l'aveva data per un unico motivo. Sapeva già che sua madre, nel vederlo tornare a casa, e, per di più, accompagnato da Giovanni in quello stato, sarebbe stata come minimo furente. Sapendo con un po' di anticipo del loro ritorno, forse, si sarebbe risparmiato almeno la prima sfuriata.

“E voi – aggiunse dopo un istante il Riario, guardando il cerusico – so che non potete lasciare l'accampamento, ma forniteci il necessario per il viaggio, in caso dovessimo placare i dolori di messer Medici.”

Giovanni sentì a mala pena il cerusico rispondere affermativamente e poi, mentre una nuova fitta gli trafiggeva le gambe, sentì ancora una volta la coscienza venir meno e si lasciò svenire, sperando di riaprire gli occhi solo quando fosse già nel suo letto, vicino a sua moglie, con suo figlio accanto.

 

Pandolfo si passò una mano dalle dita secche sul viso sudato. Era metà agosto e il caldo e l'afa sembravano aver trovato il loro apice.

Il suo ritorno frettoloso a Rimini lo aveva stremato. Anche se le trattative per riportare Piero Medici in Firenze stavano andando per le lunghe e, probabilmente, non avrebbero portato a nulla, il Malatesta avrebbe preferito mille volte essere ancora con Guidobaldo da Montefeltro e Paolo Orsini a pontificare, che non nella sala di rappresentanza del suo palazzo riminese a difendersi.

Il vero problema, nel restaurare il potere del Fatuo stava nei due Popolani. Con uno in pianta stabile in Romagna, dove, dicevano – e anche Pandolfo cominciava a crederci – avesse ormai sotto il suo controllo la Tigre di Forlì e fosse in grado di farle fare tutto quello che voleva, e l'altro saldamente inquadrato nella Signoria, era quasi impossibile trovare un varco da forzare per far implodere il loro sistema di comando. L'unica speranza sarebbe stata una fatalità. Se almeno uno dei due fosse morto...

Il messo veneziano stava aspettando una sua risposta, ma il Pandolfaccio non sapeva che cosa dire.

Da un lato sentiva il disperato desiderio di accettare la mano tesa da Venezia, ma dall'altro subodorava che dietro quella proposta si celasse la sua fine definitiva.

“Ho... Ho bisogno di un minuto.” concluse il Malatesta, scuotendo il capo e facendo così ondeggiare i lunghi capelli neri e unticci.

Il veneziano fece un inchino molto affettato e lo guardò uscire, tenendosi sulle labbra un ghigno divertito che sfuggì al padrone di casa, ma non alle guardie che erano nel salone a controllare che tutto filasse per il verso giusto.

“Dov'è mia moglie?” chiese Pandolfo, incrociando il suo cancelliere sulle scale.

“Immagino sia nelle sue stanze...” fece questi, perplesso: “Perché?”

“Niente, devo...” borbottò l'altro, senza nemmeno smettere di salire i gradini.

Arrivato alla camera di Violante, il Pandolfaccio fece un respiro profondo e poi, in uno slancio di educazione che sorprese molto la Bentivoglio, bussò prima di entrare.

La donna era seduta in poltrona, con una serva che le faceva aria con un telo. La sua pelle era cerea ed era chiaro che quella gravidanza la stesse prostrando più del previsto. Non era ancora di sette mesi, eppure il pancione si vedeva più che bene e, sia per via di quello che del suo patimento, si sarebbe detto che fosse prossima al parto.

“Uscite.” fece l'uomo rivolgendosi alla cameriera.

Questa lanciò uno sguardo teso alla sua padrona che, però, le diede il permesso di andare con un cenno del capo.

Rimasto solo con la moglie, il Malatesta appoggiò un pugno sul fianco e una mano al bordo del camino spento e, dandole le spalle, cominciò a spiegarle la proposta veneziana.

Il messo del Doge aveva chiaramente detto che la Serenissima era stufa dei continui tafferugli che scoppiavano a Rimini. Gli veniva data una scelta, arrivati a quel punto: o rinunciava a incarichi più delicati e importanti e restava a Rimini a occuparsi del suo Stato, tenendolo saldamente in mano e usandolo come protezione per Venezia, oppure doveva far fagotto e accettare di scambiare la sua città con Bassano o Conegliano.

“E tu preferiresti lasciare Rimini e i suoi ribelli al Doge e scappare, vero?” chiese Violante, atona come tutte le volte in cui si rivolgeva al marito.

“Sbaglierei, a farlo?” chiese Pandolfo, già conoscendo la risposta.

La Bentivoglio si passò lentamente una mano sul pancione e poi concluse: “Se accetti lo scambio darai loro conferma della tua inettitudine e stai pur certo che la tua carriera militare, se non addirittura la tua vita, finiranno nel momento in cui lascerai Rimini.”

“Ho capito.” soffiò il Malatesta e, senza nemmeno osare guardare la moglie, lasciò in fretta la stanza.

Riconvocato all'istante il messo veneziano, lo fece condurre di nuovo nel salone di rappresentanza.

“Ho valutato la proposta del Doge.” cominciò a dire il signore di Rimini, le gambe lunghe e secche che non trovavano requie, portandolo a camminare avanti e indietro senza tregua come un'anima in pena: “E ho deciso che resterò qui e difenderò i miei e i vostri interessi. Sederò la rivolta usando il mio esercito. Non c'è bisogno che i Serenissimi si scomodino per me.”

“Dunque dell'offerta di scambio non se ne fa nulla?” chiese il messo, sinceramente sorpreso.

“Non se ne fa nulla.” confermò il Malatesta, e nello sguardo con cui trafisse il veneziano cercò di metterci tutta l'aggressività di cui era capace.

“Molto bene.” fece l'altro, abbassando il capo ed esibendosi in un profondissimo inchino: “Il Doge sarà molto lieto di sentirlo.”

 

Sulle merlature di Ravaldino spirava un vento bollente, ma in fondo piacevole. Caterina, convalescente e a rischio ricaduta, teneva i palmi delle mani stesi sulla pietra scaldata dal sole e guardava verso la sua città.

I casi di febbre parevano in diminuzione e, forse, si era rivelata una buona idea quella di non chiudere le porte. Ridistribuire il cibo e lasciare che la popolazione continuasse a far circolare beni e moneta aveva permesso di arginare una crisi che, in quel momento, sarebbe stata troppo pesante per lo Stato.

Le spese militari si stavano dimostrando ingenti, anche più del previsto, ma la Sforza trovava non solo prudente, ma addirittura necessario rimpolpare di munizioni e armi il suo arsenale. Presto, se le voci delle spie dicevano il giusto, ci si sarebbe dovuti guardare anche dai francesi e a quel punto le armi sarebbero state difficili da trovare, soprattutto per uno Stato piccolo come il suo.

Quando le guerre si avvicinavano, infatti, c'era la corsa ad armarsi e i prezzi salivano. Anche se poteva contare sui fondi di Giovanni, forse, preferiva comprare quel che le serviva quando ancora non si erano toccate cifre folli.

“Come state, mia signora?” chiese il Capitano Golfarelli, arrivandole alle spalle.

Era di turno per la ronda e, malgrado il caldo torrido, indossava l'elmo e la piastra pettorale, in modo da essere sempre pronto a qualsiasi evenienza.

La Tigre gli dedicò un brevissimo sorriso e, voltando le spalle a Forlì, lo fronteggiò: “Molto meglio, grazie. Ho avuto ancora un po' di febbre questa mattina, ma secondo il medico le cose miglioreranno ancora.”

Golfarelli parve sollevato da quella notizia e così passò al messaggio che doveva riferirle. Aveva dovuto percorrere quasi tutto il perimetro dei camminamenti, prima di trovarla, ma finalmente c'era riuscito.

“Vostro figlio Bernardino vi stava cercando...” disse l'uomo, indicando vagamente con il capo l'interno della rocca: “Dice che vuole farvi vedere non so cosa...”

Caterina sospirò e, dando un ultimo sguardo al panorama di Forlì e, involontariamente, anche alla statua di Giacomo che si ergeva proprio nella piazza antistante Ravaldino, ringraziò Golfarelli e andò alle scale.

Trovò Bernardino nella sala delle armi e in meno di due minuti il bambino aveva già cominciato a riempirla di chiacchiere sulle nuove tecniche che aveva imparato per maneggiare meglio lo stiletto.

La Contessa si era seduta su uno degli sgabelli, la schiena appoggiata al bordo del tavolo per sostenersi un po' e osservava abbastanza compiaciuta i progressi del figlio.

Da quando si stava riprendendo, Bernardino si era fatto con lei meno scontroso dei giorni precedenti, come se, assicuratosi che la madre non fosse in punto di morte, si stesse permettendo di avvicinarlesi di nuovo senza paura di soffrire.

Gli esercizi del piccolo erano andati avanti per quasi un'ora, impegnandolo tanto che alla fine i suoi capelli castani e dai larghi ricci erano tutti incollati alla fronte e al collo e le guance erano rosse come il fuoco.

Caterina, in uno slancio di affettuosità, l'aveva tirato a sé e aveva cominciato a sistemarlo un po', visto che anche il camicione che portava, nell'impeto, gli si era storto tutto, uscendo in parte dal bordo delle brache.

Quando Cesare Feo entrò nella sala delle armi e vide madre e figlio sorridenti, la prima intenta a prendersi cura del secondo che, con occhio riconoscente, si lasciava sistemare come un neonato, si sentì quasi in colpa nel doverli interrompere.

“Mia signora.” disse, stando sulla porta.

Il tono grave con cui parlò mise subito i brividi alla Leonessa che, sollevando gli occhi verso di lui, attese che parlasse.

“È appena arrivata una staffetta veloce dal campo pisano.” disse piano il castellano: “Non ci sono buone notizie.”

“Mio marito?” chiese subito lei, alzandosi dallo sgabello e andando verso Cesare Feo.

Bernardino la guardò stranito e, quando sentì l'uomo rispondere: “Sì, mia signora. È vivo, ma dovete venire a sentire cosa ha da dire la staffetta, perché...” avvertì una morsa all'altezza del cuore e un presentimento che fece svanire in un colpo tutta la dolcezza del momento che aveva appena vissuto, trasformando ogni cosa in rabbia.

Mentre la madre e il castellano si allontanavano quasi di corsa parlottando fittamente tra loro, il bambino riprese in mano lo stiletto e se lo assicurò alla cintola. Non aveva idea di cosa potesse essere successo a Giovanni, ma aveva capito che era qualcosa di grave. Così come era successo a suo padre.

Sentendosi sul punto di piangere e non volendolo fare, tradusse la sua paura e la sua ira in una corsa a perdifiato. Uscì dalla sala delle armi a gran velocità e da lì attraversò entrambi i cortili, il portone e il ponte.

Passò sotto la statua di suo padre e arrivò in un lampo in uno dei quartieri dove spesso si recava a giocare con alcuni bambini di strada – anche se ultimamente di solito ci andava accompagnato da Galeazzo – e, per nulla intenzionato a giocare, dopo poco si trovò subito in mezzo a una piccola rissa di suoi coetanei. Non usò lo stiletto, solo i pugni e i calci, ma non lo fece per calcolo: la collera gli aveva fatto dimenticare perfino di essere armato.

 

Cesare Borja si passò nervosamente una mano inanellata sulla porpora cardinalizia, senza nemmeno notare la delicatezza del tessuto con cui era stata confezionata.

Era così teso che non sentiva nemmeno il pizzicore sulle guance, laddove, tra le croste, memoria del suo ultimo sfogo luetico, la barba stava ricrescendo a chiazze. Sollevò lentamente le dita e vide che tremavano.

Le riabbassò subito e chiuse un momento gli occhi. Fece un respiro profondo e si diede dello stupido.

Era il figlio del papa. Quello che diceva Alessandro VI era legge, in Vaticano. Se, dunque, la sua decisione era quella di farlo spretare, non sarebbe certo bastato un concistoro per vietarglielo.

Tuttavia, ed era questo che al Borja metteva più ansia, gli aveva scritto quel maledetto foglietto pieno di appunti su cosa dire e su come dirlo. Se fosse stato così semplice e automatico ottenere quel che voleva, che bisogno ci sarebbe stato, per il Santo Padre, di tutta quella sceneggiata?

La realtà, Cesare ne era cosciente soprattutto in quel momento, mentre aspettava che gli aprissero la porta per dargli udienza, era che i Borja erano odiati da tutti. Anche chi non lo dava a vedere, avrebbe preferito vederli tutti annegati nel Tevere, com'era successo a Juan.

Juan... Il solo ricordo del fratello che tanto aveva odiato e invidiato fu una stilettata nel petto del giovane Cardinale.

E subito dopo, quel nome, Juan, scelto nella forma più italiana e prosaica – Giovanni – da Lucrecia per battezzare il figlio che aveva fatto nascere in un convento...

E poi, come nulla fosse, Lucrecia aveva sposato Alfonso, e l'aveva fatto senza peso, come fosse una cosa bella, quasi fosse uno scherzo divertente. I sorrisi complici che scambiava con il marito tutte le volte che si incontravano, il modo in cui si sfioravano quando passavano uno vicino all'altra, la loro ostinazione nel condividere ogni notte e non solo la camera...

Cesare deglutì e sentì una goccia di sudore gelato scendergli lungo il collo. Stava per fare un respiro molto fondo per calmarsi, quando la porta si spalancò.

Con passo malfermo, molto diverso da quello spavaldo che mostrava di norma nei palazzi vaticani, dove si comportava sempre come un principe, più che come un religioso, il Borja si mise laddove gli venne indicato e attese che gli dessero la parola.

Quel 17 agosto i Cardinali facenti parte del concistoro poterono vedere il figlio del papa in gran difficoltà, forse per la prima volta da che indossava la porpora. L'abito rosso che portava gli stava stretto, in senso metaforico, e si vedeva che ormai non era più fatto su misura per lui.

Adocchiando di quando in quando, con maldestra discrezione, il foglietto che suo padre aveva scritto per lui, Cesare cominciò a dire con voce incerta che la vita religiosa non era mai stata la scelta giusta per lui. Confessò di non aver mai avuto la vocazione per quella strada, che era stata imboccata per volere d'altri quando ancora lui era troppo giovane per capirne la serietà e la gravità.

“Per la salvezza della mia anima, dunque – concluse, gli occhi che saettavano dall'uno all'altro dei presenti, quasi ne avesse paura – vi chiedo e domando di poter tornare a vivere da laico. In questo caso mi metterei subito a servizio di Santa Madre Chiesa come ogni laico può, senza più peccare di falsità nei miei intenti.”

Qualcuno dei Cardinali presenti si sistemò sulla sedia, altri si scambiarono sguardi perplessi e un paio tossicchiarono.

Chiudendo appena gli occhi e alzando la voce, Cesare si permise l'arringa finale: “Sono anche pronto a recarmi immediatamente in Francia, di persona, per cercare di placare l'animo di re Luigi, che, come sapete, ha in animo di portare di nuovo la guerra in Italia.”

Il concistoro gli fece attendere la delibera per qualche ora e, alla fine, per mezzo del portavoce, fece sapere che ogni decisioni in merito veniva rimessa al papa.

Il più, pensò Cesare, era fatto. Alessandro VI arrivò quasi subito e, fingendo di sentire per la prima volta dalle parole dei Cardinali, le intenzioni del figlio, si dilungò in lunghi ragionamenti e lamentose prediche, per poi, dopo aver rimarcato un'ultima volta quanta saggezza fosse necessaria per giungere a una delibera, dare formalmente il permesso al figlio di togliersi la porpora e tornare a vivere da laico come desiderava.

Quella notte, mentre vagava senza sosta da un'osteria dei sobborghi all'altra e, più tardi, da un bordello all'altro, Cesare si sentì il cuore leggero.

Levarsi l'abito talare dalle spalle gli aveva tolto il peso della vita. Era pronto a qualunque cosa, quella calda notte di metà agosto. Nemmeno il Tevere, con il suo sciabordare nero e tetro, che lo fiancheggiò per gran parte del suo laico peregrinare, riuscì a metterlo di cattivo umore o a intristirlo.

Anzi, dopo essere uscito da un lupanare in cui aveva dissipato non pochi denari, prese una moneta d'oro e la getto tra i flutti scuri del fiume, gridando come un pazzo, il viso rivolto prima alla luna e poi al Tevere: “Per i servigi che m'hai reso!” e, con una risata sguaiata, tornò verso i suoi appartamenti, arrivandoci, però, solo quando già i tetti di Roma venivano bagnati dai primi raggi del sole.

   
 
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