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Autore: Adeia Di Elferas    28/05/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Buti era caduta dopo due giorni di assedio e bombardamenti di ogni sorta. Con quattordici cannoni e cinquanta falconetti, Paolo Vitelli aveva sfinito i nemici e aveva fatto anche un gran bottino.

A Firenze si viveva un'aria più distesa, come se i prigionieri arrivati dal fronte fossero la prova tangibile della vittoria sempre più vicina e semplice.

Tra i soldati arrivati in catene c'erano sei bombardieri pisani, ai quali vennero tagliate le mani, per essere poi rispediti, con la macabra testimonianza dell'amputazione appesa al collo, a Pisa come monito.

Lorenzo Medici, quel giorno, era di pessimo umore, in netto contrasto con i suoi concittadini che, invece, erano accorsi in piazza per assistere alla condanna a morte degli altri trentatré prigionieri.

In tutte le armerie di Firenze si stavano costruendo spingarde da mandare al fronte e il clima generale di euforia cozzava nettamente con la mestizia dello spettacolo che si stava apparecchiando davanti al palazzo della Signoria.

Il Popolano, che era fiancheggiato da alcuni suoi uomini di fiducia, si era vestito di scuro e se ne stava un po' in disparte.

Osservò le impiccagioni una dopo l'altra, senza mai distogliere lo sguardo e contò precisamente trentatrè condannati, tra i quali c'erano anche dei ragazzini, o meglio, dei bambini.

Quando la folla cominciò a diradarsi, il Medici finalmente abbassò gli occhi tondi e si chiese che razza di Repubblica fosse quella che si vantava di aver catturato dei mocciosi e di averli appesi per il collo.

Tutto quanto andava all'incontrario, per il suo modo di vedere. E, mentre voltava i tacchi per tornarsene a casa, vide Machiavelli entrare quasi di corsa al palazzo della Signoria, uno spesso plico sotto al braccio e il ciuffo di ricci ribelli in piedi in mezzo alla testa.

Che uno del genere fosse Segretario, pensò Lorenzo, scalciando un sasso che aveva davanti a sé, era la prova più schiacciante della direzione scorretta presa da Firenze.

“Meglio andare, adesso...” gli disse uno dei suoi, avvicinandolo: “Se volete fare in tempo a discutere con il notaio per la questione della villa di Castello...”

“Certo, certo...” sussurrò il Medici, iniziando a camminare verso casa.

Sì, il mondo andava al contrario. Suo fratello era in Romagna, stava male e non aveva voluto essere portato a Firenze. E adesso a Lorenzo toccava anche cercare un cavillo legale per mettere al sicuro i beni di Giovanni, in modo che quella sgualdrina della Tigre di Forlì non gli rubasse tutto quanto, dopo averlo ucciso.

Sapeva che Semiramide aveva scritto ad alcuni dottori, pregandoli di andare subito in Romagna da lui, per curarlo. Nessuno di loro, però, aveva accettato un simile viaggio, tanto meno per cercare di curare un male incurabile, e addirittura uno, memore forse della fine fatta dal medico del Magnifico, aveva risposto dicendo che aveva a cuore la pellaccia sua più di quella di un povero gottoso.

 

Caterina stava leggendo una novella di Boccaccio con voce bassa e lenta, sperando di conciliare il sonno del marito.

Di notte, Giovanni non riusciva quasi mai a riposare e solo di giorno i suoi dolori sembravano dargli un po' di tregua anche se, dopo un paio d'ore in cui dormiva apparentemente tranquillo, si risvegliava sempre di colpo, a volte per gli incubi e a volte per il male.

Le aveva confessato che, da quando era stato in battaglia, gli capitava spesso di rivivere in sogno quei momenti e ancora non riusciva a capire se avesse ucciso o meno dei nemici. La Sforza non aveva capito, almeno all'inizio, quanto questo dubbio pesasse sulla sua anima e aveva commentato dicendo che non era una cosa così importante, l'importante, in quel caso, era aver vinto.

Invece il Medici si tormentava, al pensiero di essersi macchiato di quella che per lui era una colpa gravissima e così la moglie, seppur senza esserne molto capace, aveva in un secondo momento cercato di consolarlo, facendogli notare che, se non avesse ucciso il nemico, il nemico avrebbe ucciso lui e dunque era andata bene a quel modo.

Ludovico era stato portato nella sua camera, in quel momento, per permettere alle balie di sfamarlo e cambiarlo. Altrimenti, in quei giorni, era sempre nella stanza dei genitori e si dimostrava con loro tranquillo come non mai.

Quando, invece, arrivava la nutrice o una delle bambinaie a prenderlo, il piccolo piangeva, si dimenava e agitava in aria i piccoli pugni, dando sfoggio di un carattere tutt'altro che remissivo, al contrario di quanto non facesse con la madre e, ancor di più, col padre.

Così, approfittando del fatto che erano rimasti soli e relativamente tranquilli, Caterina si era messa a leggere.

La stanza era calda e immobile. La finestra era un po' aperta, per permettere all'aria di fine agosto di entrare assieme all'odore dei campi e della città, che si mescolavano in un effluvio stranissimo che, però, a Giovanni piaceva.

Il Popolano stava quasi per assopirsi, quando si sentì bussare alla porta. Infastidita, dato che che aveva dato a tutti l'ordine di non disturbarla, o, al massimo, di mandare Bianca, che poteva entrare senza annunciarsi, la Contessa si alzò subito e andò a vedere chi fosse.

“Perdonatemi, non volevo importunarvi, ma sono occorse due cose della massima urgenza di cui dovreste occuparvi.” disse Luffo Numai, i cui occhi svelti erano subito corsi al fiorentino che giaceva inerme nel letto.

“Di cosa si tratta?” chiese la donna, in un sussurro.

“Achille Tiberti. È nel cortiletto e vi attende.” rivelò il Consigliere, aggiungendo poi: “E inoltre c'è anche un altro uomo che vuole incontrarvi, ma quello non lo abbiamo lasciato entrare. Ha con sè tre cavalli.”

Giovanni, anche se discretamente lontano, aveva sentito tutto e, nel vedere la schiena della moglie irrigidirsi in un modo tutto particolare, comprese quanto la Leonessa avrebbe voluto occuparsi subito di entrambe le faccende.

Per cui, quando la sentì dire che lasciava al castellano l'incombenza di prendere decisioni in merito a tutte e due le questioni, il Popolano tirò fuori tutta la voce che riuscì e le disse: “Non preoccuparti... Vai pure a vedere che è successo. Io abbastanza bene. Anche se resto solo qualche ora non muoio.”

Caterina si morse il labbro e poi, incrociando lo sguardo del marito, le iridi chiarissime ancora vivide come quando si erano conosciuti, capì che non stava dicendo tanto per dire e così gli fece un cenno con il capo e provò a dire: “Se vuoi dico a Bianca di...”

“Per favore...” soffiò allora lui, mostrando infine una vaga insofferenza: “Vai e torna.”

La Contessa, allora, seguì Numai fino al cortile, ma passò accanto a Tiberti facendo finta di non vederlo nemmeno, e si fece scortare dall'uomo che aveva con sè i cavalli.

“Che sono queste bestie?” chiese, guardando tre magnifici stalloni da guerra che stavano in fila come fossero stati addestrati per anni.

L'uomo, vestito in modo povero e dal fisico striminzito spiegò di essere un servo di Giampaolo Manfrone di Schio, comandante al soldo della Serenissima, e di aver rubato al suo padrone quei tre cavalli come omaggio per lei. In cambio, disse, inginocchiandosi, chiedeva di poter entrare nel suo esercito.

La Tigre comprese all'istante che da quel furto sarebbe nato un pasticcio, tuttavia, ormai la guerra c'era e, forse, se quel Manfrone che aveva una condotta veneziana li avesse attaccati per vendicarsi di quel danno, lei finalmente avrebbe avuto una scusa valida per attaccare direttamente Faenza, Rimini e Ravenna, alleate del Doge.

Ringraziò il servo e lo fece entrare alla rocca, spiegando a Mongardini che quell'uomo sarebbe stato subito arruolato e i cavalli usati per rimpolpare la scuderia.

La decisione che aveva preso, però, accettando quel dono, le impose di riavvicinarsi a Tiberti con tono diversi da quelli che si era proposta. Era una testa calda e spesso aveva contravvenuto ai suoi ordini, ma se presto la guerra fosse arrivata alle porte dello Stato, Caterina voleva avere gli uomini migliori per combatterla.

“Venite con me.” gli disse e lo portò subito nello studiolo del castellano.

Gli chiese conto di quello che era successo a Pisa e di come poi fosse andato a Cesena senza avvisare e Achille, grattandosi in difficoltà il naso adunco, le rispose che aveva compiuto degli atti di disturbo nel cesenate contro alcune colonne veneziane, per vendicarsi della prigionia subita.

La Tigre finse di credere alla sua buonafede e gli disse di tenersi disponibile per qualsiasi cosa.

Tiberti, che aveva creduto di trovarla molto più rigida e iraconda, annuì e la guardò uscire, mentre il castellano tornava alla sua scrivania.

“Ma che le è successo?” chiese, guardando Cesare Feo stranito.

Questi strinse le labbra e poi, a malincuore, gli spiegò: “Messer Medici sta male. I dottori fanno il caso pericoloso di morte.”

Al cesenate non servì altro per capire. Ora gli era chiaro perché, mentre gli parlava, la Sforza pareva immersa in tutt'altri pensieri.

 

La bastia di Vicopisano era finalmente caduta. Paolo Vitelli aveva impiegato tutto il suo genio militare per prenderla e ce l'aveva fatta.

Aveva spiegato il grosso del suo esercito: seimila fanti, trenta squadre di cavalli, ben duecento pezzi di artiglieria e una quantità notevole di guastatori.

Aveva perso molti uomini, ma la vittoria era stata sua.

Stava calando la sera e con essa il mese d'agosto. Paolo era seduto su uno sgabello da campo, nel centro del salone di rappresentanza della bastia. Era stanco. Aveva mangiato qualcosa, ma più di ogni altra cosa avrebbe voluto dormire.

Non si era risparmiato e adesso gli toccava pure incontrare uno per uno i suoi sottoposti, i Capitani e i vari condottieri, che gli porgevano gli onori per la meravigliosa battaglia che aveva portato a termine.

Mentre sentiva le parole untuose di Ottaviano Manfredi – un ragazzo, ai suoi occhi, che doveva ancora capire che la guerra non era solo menar le mani – la sua mente andò a quello che sarebbe successo dopo.

Aveva vinto, era vero, ma aveva perso molti soldati. Voleva l'appoggio di Giampaolo Baglioni, ma il perugino gli aveva detto che non avrebbe mosso un dito, se la Signoria non gli avesse alzato la condotta.

Trattenendo uno sbadiglio a fatica, Vitelli si ripromise di scrivere a Firenze quella sera stessa, cercando di convincere la Signoria a puntare su Baglioni. Con un po' di fortuna, quell'uomo orribile si sarebbe portato appresso anche il nuovo cognato, quel Bartolomeo d'Alviano sulla cui riservatezza in privato e crudeltà in battaglia tutti parlavano.

Manfredi aveva finalmente terminato il suo discorso e Paolo, che non aveva sentito nemmeno una parola, lo ringraziò e chiese al prossimo di farsi avanti.

Gli venne ancora voglia di sbadigliare, ma, così come imponeva – con successo – ai suoi soldati una disciplina ferrea, così la imponeva anche a se stesso. E dunque, malgrado si sentisse crollare di sonno, restò fino al principiare della notte fermo sul suo sgabello, lasciando che quel teatrino inutile, ma necessario, arrivasse alla sua naturale fine.

 

“È successo qualcosa?” chiese Giovanni, guardando la moglie che rientrava nella camera.

Quelli erano giorni estremamente concitati e il Medici, benché fosse molto preso dalla propria condizione, si era accorto benissimo di quanto Caterina fosse in ansia.

La donna stava già scuotendo la testa, quando incrociò lo sguardo di lui e si sentì scoperta, così, con un sospiro, gli si andò a mettere accanto. Sul letto, accanto al fiorentino, c'era il piccolo Ludovico che, come faceva spesso, dormiva con una manina protesa verso il braccio del padre.

Il Popolano era in uno stato pessimo, anche se, tutto sommato, lo si poteva dire stabile. I dolori c'erano sempre, ma la crisi più acuta sembrava essersi acuita. Ormai il più grande problema che aveva riguardava non tanto i tofi gottosi, quanto tutto il resto. Respirava spesso male, si sentiva oppresso, e le gambe erano sempre gonfie. Mangiava pochissimo e beveva ancor meno, aveva bisogno dell'aiuto costante della Tigre e di una serva per essere aiutato nelle cose anche più piccole e, per fortuna, il suo carattere gli aveva permesso di accettarlo senza troppi pudori, rendendogli se non altro quei momenti un po' meno penosi.

“Ci stanno attaccando sul confine.” spiegò la Sforza, senza troppi giri di parole, con un sospiro.

L'aria dell'inizio di settembre, che sapeva ancora di piena estate, entrava dalla finestra aperta, spazzando via solo in parte il tanfo di malato che appestava la camera, ma la Leonessa non sentiva nè l'uno nè l'altro sentore. Nella sua mente c'era posto solo per due cose in quel momento: la guerra e suo marito.

A quella notizia Giovanni ebbe un piccolo moto di agitazione, ma appena si mosse nel letto, fece una smorfia di dolore e tornò fermo come prima: “Dove? E chi?” le chiese.

“Giampaolo Manfrone. Ha fatto scorrerie a Buganetto, Branzolino, Poggio e Roncadello. Circa duemila ducati di danno. Tutto con la scusa di tre cavalli...” sbuffò la donna stringendo i denti per la rabbia.

Il Medici si fece spiegare che intendesse e, quando la moglie ebbe finito di raccontare quanto accaduto qualche giorno addietro, l'uomo si prese un lungo momento per pensare.

“Mandagli contro Tiberti.” le disse alla fine.

La Contessa aveva pensato esattamente la stessa, ma proprio quella mattina le era stato riferito che Achille aveva avuto degli attacchi febbrili squassanti e, temendo di essere stato avvelenato da qualche spia pisana, si era fatto caricare su un mulo ed era partito per Cesena per farsi curare: “Non posso. Non è qui...” tagliò corto, evitando di spiegare tutto il retroscena.

“Allora mandaci Ottaviano.” propose il fiorentino, apparendo abbastanza sicuro della validità della sua idea.

“Pensi che sarebbe in grado di fare qualcosa?” chiese la donna, avvertendo subito uno strano nodo allo stomaco, all'idea di rispedire in guerra il figlio, con il rischio di vederlo di nuovo trasformarsi nello zimbello di tutta l'Italia.

“Se lo metterai al comando di quattro o cinque squadre di cavalleria scelta...” soppesò il Medici, fermandosi un istante per tossire: “Vedrai che non dovrà nemmeno alzare la spada una volta. Sapere che stai reagendo pattugliando il confine dissuaderà Venezia dall'attaccarci tanto presto.”

“Forse all'inizio.” convenne Caterina, passando lentamente la punta delle dita sulla fronte sudata di Giovanni: “Ma se poi dovessero capire che è solo fumo...”

Il marito aveva chiuso un po' gli occhi, godendosi il tocco leggero della Tigre, quasi sciogliendosi, già indebolito dal suo patire, davanti a quel gesto di affetto, ma quando parlò lo fece con la fermezza di un uomo nel pieno delle forze: “Nel frattempo richiama i nostri cavalieri scelti da Pisa. Là possono cavarsela anche senza, basta la nostra artiglieria. E fai subito un reclutamento di massa, che ci serviranno tutti quanti i soldati possibili. E scrivi a tutti quelli che potrebbero aiutarci, che ci mandino sostegno. E quando Ottaviano Manfredi si farà avanti con le sue proposte, ti prego, ascoltalo, perché credo che possa essere davvero d'aiuto.”

La Leonessa ascoltò tutto e deglutì in silenzio. In altri tempi, le parole del Popolano avrebbero avuto su di lei una presa tutta diversa. Avere un marito così sicuro e intraprendente, pronto a spalleggiarla davvero in una guerra, sarebbe stato un fuoco per lei, da giovane.

Ormai, però, la sua vista si era fatta più breve, valutava più da vicino i contro e non solo i pro di uno scontro così incerto. Anche se il fascino di quella proposta poteva sedurla benissimo, la sua mente le imponeva cautela.

“Lo sai che è la scelta migliore.” insistette Giovanni, prima di fare un altro colpo di tosse: “Ah, e quando verrà il momento stai attenta a Lorenzo. Non è più il fratello che credevo di conoscere. Non ti devi fidare di lui.”

A quell'ultimo inciso, che pareva messo lì a caso, seguì un altro accesso di tosse secca e ostinata, che, dopo un po', svegliò Ludovico.

Il bambino spalancò gli occhietti allungati e tese le braccia e le gambe, guardando perplesso i due genitori.

“Va tutto bene, piccolino...” gli sussurrò il Medici, non appena riuscì di nuovo a parlare.

Mentre il fiorentino muoveva appena la testa verso il figlio, per sentirlo più vicino, nella mente di Caterina cominciò una dura battaglia. Si sentiva ancora debole, per via della febbre che, malgrado tutto, non l'aveva ancora lasciata in pace. Aveva l'impressione che la guerra le stesse sfuggendo di mano, perché non era libera di pensare solo a tattiche e strategie e dunque doveva fidarsi molto anche dei suoi consiglieri. Avrebbe voluto fare in toto quello che Giovanni le aveva suggerito, ma aveva paura che, in tal caso, si sarebbe trovata tanto assorbita dagli affari di Stato da trascurarlo. E non poteva trascurarlo proprio in quel momento.

“Hai poi deciso come ribattezzarlo?” chiese il Popolano, indicando il figlio con lo sguardo.

Ludovico, quasi sentendosi chiamato in causa, fece un versetto e si mise a tirare il camicione del padre, come a voler attirare la sua attenzione.

Caterina, che era accanto a lui, allungò una mano e accarezzò la testa del bambino, su cui stavano crescendo sempre più folti dei riccioli molto simili a quelli di Giovanni: “No, non ho più pensato a come chiamarlo.”

“Non lasciargli come nome Ludovico.” insistette il Medici, la voce appena più flebile: “Per te è un nome troppo difficile da sopportare. Lo so che gli incubi non ti lasciano e io voglio che per te nostro figlio sia solo qualcosa di bello, che non sia collegato a nessuna tragedia.”

“Avremo modo di parlarne più tardi...” prese tempo lei, che leggeva nel tono de marito un che di dimesso che non le piaceva affatto.

Giovanni strinse un po' le labbra e cercò di chiamare a sè un po' d'aria, prima di dire: “Leggimi qualcosa.”

Quando calò la sera, il fiorentino riuscì ad assopirsi abbastanza in fretta, cullato dalla voce della moglie che leggeva per lui Petrarca e dal respiro lento del figlio, che, tranquillo come un angelo, era rimasto al suo fianco praticamente tutto il giorno.

Caterina, appena si accorse che il marito dormiva, si alzò e si andò a mettere alla scrivania. Anche mentre leggeva, non aveva smesso un momento di pensare alla situazione del suo Stato e aveva stilato mentalmente una lista di persone che, forse, avrebbero potuto aiutarla senza chiederle troppo in cambio.

Cominciò a scrivere lettere, in vari toni, a molti dei signori delle terre del Ducato di Milano e non solo. Alla fine, benché non fosse molto certa di quel che faceva, decise di mandare una missiva anche a Francesco Gonzaga. Stimava sua moglie Isabella che, si diceva, fosse una donna di ingegno fino e di grande spessore e sapeva anche, grazie alle sue spie e ai pettegolezzi giunti fino in Romagna, che il Marchese fosse alla disperata ricerca di un modo per tornare nelle grazie dell'Este.

Rimarcò la sua parentela – calpestata – con Alfonso Este, vedovo di sua sorella Anna Maria, e insistette sul fatto che aiutandola nel difendersi, avrebbe ottenuto lustro agli occhi non solo di Milano, ma anche di Isabella. Non sapeva se quella vana promessa potesse funzionare, ma tanto valeva provarci.

Si diceva che il Gonzaga fosse di ritorno da un pellegrinaggio a Loreto. Offrirgli la possibilità di tornare in campo non era una cosa da poco.

Stava già per spegnere la candela e rimettersi a letto, nella speranza di dormire almeno un paio d'ore, quando l'occhio le cadde sul marito. Steso inerme, supino accanto a Ludovico, dormiva con la bocca un po' aperta e il corpo mezzo scoperto, per evitare che le sue piaghe dolessero al contatto con il lenzuolo.

Per quanto volesse rifiutare l'idea, la Sforza sapeva benissimo che Giovanni stava combattendo una guerra a parte e che difficilmente l'avrebbe vinta. Nessuno dei dottori che aveva interpellato aveva saputo dirle che fare. Qualcuno aveva timidamente proposto di provare con le acque delle terme, o con le cure che conoscevano le monache, ma la Contessa per il momento aborriva l'idea di separarsi di nuovo dal Medici.

Anche se la cosa sorprendeva lei per prima, da quando il suo uomo era tornato, anche se non era più in grado di starle accanto come avrebbe voluto, a lei bastava così. Non aveva nemmeno più sentito il bisogno di cercare la compagnia di qualcuno. Era totalmente assorbita da lui e l'unica cosa che le importava era stargli accanto.

Ma sapeva che Giovanni non poteva più difenderla. Sapeva e, parlandole quella sera lui stesso gliene aveva dato conferma, che anche Firenze l'avrebbe abbandonata, se fosse rimasta sola, perchè suo cognato Lorenzo la odiava.

Così, con il cuore pesante quanto un macigno, riprese la penna, la intinse e, su un foglio nuovo, iniziò a scrivere una lunga e dolorosa lettera a suo zio, il Duca di Milano.

   
 
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