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Autore: Nina Ninetta    31/05/2018    7 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 6
Sfumature cromatiche

 
Di domenica la piscina raramente era vuota come piaceva a me e per questo motivo difficilmente mi ci recavo. Quella mattina però mi accontentai di fare qualche bracciata in compagnia di altre persone. Non ce ne erano molte, per lo più era gente sommersa di lavoro durante la settimana che veniva a rilassarsi lì nel proprio giorno libero.
Non c’erano voci nella costruzione, nessun rumore se non lo sciabordio delle braccia che si immergevano nell’acqua fresca, cosa che mia aiutò a liberare la mente da tutti i pensieri che l’assillavano.
Di una sola parola proprio non riuscivo a liberarmene. Quell’aspettami quasi sussurrato da Christian, come una specie di urgenza.
Possibile che si riferisse a me?
A qualcosa che sarebbe potuto accadere in un futuro prossimo tra noi?
Il pensiero mi spaventava, più che rendermi felice.
E Jenny, in tutto questo, quale ruolo avrebbe assunto?
Quando i ricordi diventavano troppo insistenti, aumentavo l’andamento e tornavo a svuotare la mente.
Uscii con il sole che era alto nel cielo e qualche nuvola che iniziava ad addensarsi sulle montagne a nord. Avrebbe piovuto. Ogni volta che le nubi arrivavano da settentrione ci faceva visita la pioggia.
Mi stiracchiai, fermandomi a respirare a pieni polmoni l’odore degli alberi in fioritura, quello delle margheritine selvatiche che stavano spuntando nel prato incolto, poi un brusio di voci attirò la mia attenzione.
Nel campo lì vicino, quello dove avevo tirato per la prima volta calci a un pallone con il mio finto fidanzato, stavano disputando una partita e ripensai alla sera del compleanno di Jenny, quando per la via di casa Willy mi aveva confessato che il mister avrebbe schierato sia lui, sia Cris dal primo minuto.
Trottai fino al campetto, diverse persone erano assiepate intorno alla recensione, soprattutto ragazzi. Cercai un angolo libero e vi sbirciai attraverso.
Christian era in campo, la pelle olivastra madida di sudore, lo vidi urlare qualcosa all’avversario, dare indicazione ai compagni di squadra e arrabbiarsi per un passaggio sbagliato, inveire contro sé stesso per aver sbagliato un goal a tu per tu con il portiere.
Ecco il ragazzo di cui mi ero invaghita, pensai sentendo il cuore battere un po’ più forte nel petto, ecco il ragazzo che con il suo carattere forte mi aveva fatta sentire un po’più sicura di me. Non sarei potuta andare lontano senza l’appoggio della sua amicizia, non sarei potuta andare da nessuna parte senza il suo sostegno e improvvisamente compresi che avevo bisogno di lui, assolutamente, con o senza Jenny. L’avrei aspettato, per sempre, sarei diventata la sua “ruota di scorta”, la sua seconda scelta, se fosse servito a non perderlo.
 
L’arbitro fischiò la fine del primo tempo e simile a un corteo, i calciatori scemarono verso le scalinate che portavano agli spogliatoi sotterranei. Mi feci largo tra i tifosi fino a toccare la rete di sicurezza con le mani, il cuore in gola e il nome di Christian che mi rimbombava in testa “girati Cris sono qui, girati Cris” ma a vedermi non fu lui, bensì Willy.
Trotterellò nella mia direzione con un sorriso idiota stampato sul volto:
«Celeste!» alzò un sopracciglio istigatore. «Sei venuta a fare il tifo per me?»
«Tutt’altro» risposi, guardando oltre la sua spalla la figura di Christian rivolto verso di noi
«Ci sta guardando?» chiese William e io annuì. «Bene» si avvicinò ancor di più, facendomi segno di accostarmi quanto più possibile alla recinzione e mi parlò piano, direttamente nell’orecchio «fingi che ti stia dicendo qualcosa che si dicono gli innamorati.»
«Non ho capito» confessai, ed era la verità. Come facevo a sapere cosa si dicono i fidanzati se non lo ero mai stata realmente?
Lui sbuffò.
«Cielo Cappuccetto, usa un po’ la fantasia!» esclamò, pizzicandomi l’addome da sopra la t-shirt di cotone e quando d’istinto sussultai all’indietro lui mi tenne per la maglia. «Fai la faccia di una a cui stanno sussurrando cose… sconce»
Sbarrai gli occhi e lo guardai dritto in viso, teneva quel suo solito sorrisino di scherno che mi faceva andare di matto:
«Ecco, brava! Così può andare» mi sfiorò la punta del naso con l’indice. «Buona domenica, Rosetta!» e fece per allontanarsi, solo allora vidi Christian riprendere la strada verso gli spogliatoi. Nonostante ci fossimo scambiati un’occhiata, nessuno dei due avanzò un saluto.
«Ah, tesoro!» mi chiamò ancora Willy, qualche metro più in là e attirando l’attenzione dei presenti. «Ho fatto un goal! Se fossi stata qui te lo avrei dedicato!» e disegnò con le mani un cuore.
Avvampai e feci dietrofront, oltrepassando un gruppetto di ragazze sghignazzanti come oche e passarvi di fianco fu l’errore più grave, poiché udii qualcosa del tipo: “io con quei capelli mi sarei già uccisa” consensi generali “oddio, ma è una parrucca? Ditemi che non sono veri” altre risa, “santo cielo, è piena di lentiggini!”
Accelerai il passo e scoppiai in lacrime.
Le parole di quelle ragazze mi avevano ferito mortalmente. Non avrebbe dovuto importarmi perché “erano delle estranee, e delle stupide con un cervello da galline. E delle stronze!” (come mi avrebbe detto in seguito l’ultima persona che credevo mi avrebbe consolato), eppure quelle frasi mi colpirono dritto al cuore, come un proiettile, facendo capitolare la mia già precaria autostima.
Cambiare colore di capelli era una cosa che avevo sempre desiderato fare, ma che non avevo mai trovato il coraggio, perciò cercai un supermercato aperto anche di domenica e comprai un tubetto di tintura. Valutai le varie colorazioni e forse accorgendosi della mia incompetenza in materia un’addetta al reparto iniziò a consigliarmi, anche se non glielo avevo chiesto:
 «Hai la pelle lentigginosa tu, non puoi farti un colore troppo scuro».
Uscii dal negozio con una confezione di castano chiaro, una bottiglia di acqua ossigenata, una ciotola di plastica e un pennello.
Quando rientrai nascosi il tutto nel borsone del nuoto e filai in camera mia, cominciando a mescolare gli ingredienti nel dosaggio che mi aveva raccomandato la commessa. Poi le strilla di mia madre che sbatteva la mano contro la porta della camera di mio fratello, ancora addormentato nonostante fossero quasi le tredici, mi fecero sobbalzare e versai qualche goccia di ossigeno di troppo.
Forse parecchie di troppo.
Feci spallucce e presi a mescolare, lasciandolo in posa per tutto il tempo del pranzo.
Quando mi chiusi in bagno era il primo pomeriggio. Diligentemente divisi i capelli ciocca per ciocca e presi a spennellarvi su la tinta, era fredda sul cuoio capelluto.
Attesi per un’oretta circa e quindi sciacquai con acqua in abbondanza.
Quando mi vidi allo specchio per poco non svenni.
 
William mi trovò rannicchiata all’angolo di una vetrina di un negozio.
Nonostante le giornate si fossero allungate con l’inizio della primavera, il maltempo aveva fatto calare la penombra prima del dovuto.
Quando lo scorsi passeggiare con due amici nascosi immediatamente il viso contro le ginocchia, acconciandomi meglio il cappuccio del giubbotto sulla testa, ma fu del tutto inutile, mi aveva già adocchiato. Lo sentii salutare i suoi compagni e lo immaginai avvicinarsi a me.
Sospirò rumorosamente a un centimetro dalla sottoscritta:
«Cos’è successo ora?» Gli dissi di andarsene. Non volevo farmi vedere in quelle condizioni o mi avrebbe preso in giro a vita (come se non lo facesse già!). «Oggi, quando sono tornato negli spogliatoi, il tuo moroso mi ha dato un pugno.»
Alzai di colpo la testa e vidi il suo occhio livido, misi le mani a coppa sulla bocca.
La situazione stava degenerando. Io mi preoccupavo delle parole di quattro cretine mentre Cris prendeva a pugni Willy, senza un motivo valido.
«Oh, tranquilla Stellina rossa! Fa meno male di quanto sembri» minimizzò lui.
«Mi dispiace tanto» mi sentivo una stupida , credevo di conoscere Christian alla perfezione e invece non riuscivo più a capire i suoi comportamenti.
«Non è colpa tua, Gialla! È lui ad essere un idiota, in tutti i sensi e su tutti i fronti» lo fissai con il muso sporgente, pronta a scoppiare in lacrime alla prima occasione, ma lui lo fece di nuovo, mi toccò la punta del naso e non so perché tirai giù il cappuccio e questa volta a stupirsi fu lui.
«Oh mi Dio ma che hai fatto ai capelli? So-sono rosa.»
«Lo so» dissi iniziando a singhiozzare come una bambina deficiente. «Volevo solo togliermi quel colore di merda dalla testa e invece…» mi aspettavo di sentire la sua risata da un momento all’altro, invece si alzò, aprendo l’ombrello per ripararci entrambi dalla pioggia che aveva ripreso a cadere finemente:
«Dai vieni, conosco una persona che forse può aiutarti.»
Mi fidai e lo seguii.

Camminammo a lungo verso la parte opposta della città, dove era sita la mia casa.
Ci inoltrammo in un quartiere che mi era sempre stato negato dalla mia famiglia, il classico quartiere diffamato, con case per lo più fatiscenti, vagabondi addormentati ai bordi dei marciapiedi e ragazzacci fumaioli.
Una leggera pioggerellina ci accompagnò per tutto il tragitto e l’ombrello di William non era grande abbastanza da coprire entrambi, ma l’idea di appiccicarmi a lui non la misi neanche in discussione e lui non si preoccupò di mettere l’ombrello più dalla mia parte che dalla sua. Di tanto in tanto mi lanciava qualche occhiata sbilenca e con un mezzo sorrisetto diceva:
«Ti stai bagnando.»
Io gli rispondevo di non preoccuparsi.
L’acqua era l’ultimo dei miei problemi, prima di tutto veniva il colore fantascientifico dei miei capelli, poi l’occhio nero di Willy, poi il fatto che se mi trovavo in quella situazione era colpa della storia d’amore fra Jenny e Christian, infine la triste realtà che i miei stavano rompendo, senza fare nulla per nasconderlo ai loro figli.
Davanti all’entrata di un pub illuminato con colori fluorescenti se ne stava un allegro gruppetto di uomini di mezza età. Uno di loro, con in mano una bottiglia di vino scadente, un cappotto che sembrava reduce dalla guerra in Vietnam e un cilindro in testa morsicato dalle tarme (o almeno sperai che a mordicchiarlo fossero state le tarme), alzò il braccio verso di noi, raggiungendoci. Il suo alito era pestilenziale e vedendo la sua pelle raggrinzita mi strinsi a Willy, in automatico:
«Yo!» ci salutò «Ti sei trovato proprio un bel bocconcino! Quand’è che ci organizzi un appuntamento?» mi fece l’occhiolino avvicinando il suo viso al mio.
Willy mi circondò le spalle con un braccio invitandomi a riprendere il cammino:
«Jonny, ma se è la mia ragazza come posso darla a te!» sentii l’uomo ridere di gusto, tossendo e ridendo insieme, mentre acconsentiva alla risposta di William che intanto acconciava il braccio sulla mia spalla destra, facendo penzolare la mano oltre la clavicola.
Se fosse stato il mio vero fidanzato avrei potuto/dovuto incrociare le nostre dita, se fosse stato il mio vero fidanzato quel “mia” non avrebbe dovuto stupirmi, invece mi aveva atterrito. Per un attimo un pensiero si affacciò nella mia mente, fugace come una piuma in balia di una bufera: quanto vorrei che fosse vero!
«Jonny non è una cattiva persona» disse e io caddi dalle nuvole. «Se solo bevesse un po’ di meno e smettesse di frequentare quel locale, forse sua moglie lo riaccoglierebbe in casa.» Doveva riferirsi per forza al pub poiché era l’unico locale che avevo intravisto in quelle luride stradine di periferia:
«Sembra un comune locale, in realtà è un night club dove succede di tutto» non intesi pienamente per “tutto” cosa intendesse, ma non osai chiederglielo, era un mondo quello completamente estraneo per me, mi faceva paura e volevo restarne fuori.
Ogni cosa mi faceva paura a dire il vero. Anche il gruppetto di ragazzi che ci accingevamo a oltrepassare, seduti su un muretto per metà crollato e per l’altra metà sudicio di chissà quali schifezze. Intanto Willy mi teneva ancora stretta a sé e io non volevo che smettesse, forse perché era l’unico appiglio alla mia realtà sicura. O forse semplicemente stavo bene.
Un ragazzo, che avrà avuto al massimo la nostra età, con cerchietti d’oro a entrambi i lobi e sul sopracciglio sinistro, lo salutò con il pugno a mezz’aria. Mi guardò ma io abbassai gli occhi, stava fumando uno spinello e mi sforzai di non tossicchiare per la puzza che mi entrava nel naso.
«Resti cinque minuti?»
«Non posso» Willy alzò la mano che teneva adagiata su di me per salutare il resto della comitiva. «Sarà per la prossima.»
«Wiiiilliaaam!!!» era stata una vocina femminile e cantilenante a parlare, perciò d’istinto alzai lo sguardo proprio mentre una ragazza magrissima si avvicinava, mostrando il broncio. «Ma te ne vai già? È una vita che non ti si vede…» ci guardammo in faccia io e lei «… oh, capisco…»
No, avrei voluto sbottare, invece non hai capito un cavolo di niente!
Sentii qualcosa di morbido solleticarmi il viso e troppo tardi mi accorsi che una ciocca rosa pallido era fuoriuscita dal cappuccio, feci per nasconderla, ma invano:
«Ficooo!» era stata di nuovo la bamboccia. «Hai i capelli rosa!» sembrava davvero entusiasta e la fissai senza riuscire a dire altro.
Willy rise, li salutò e continuammo il nostro cammino che sembrava una via Crucis.
«Fico?» chiesi e lui rise.
«Ginetta è fatta così! Tutto ciò che è fuori dal normale per lei è… fico. Qui spopoleresti con questi capelli, saresti vista come una specie di dio, credimi» e la cosa peggiore e che gli credevo.
«Allora li lascio così» farfugliai, studiando un ricciolo dal colore insolito, mentre entravamo nel vialetto di una casa e lui faceva scattare la chiave nella serratura, poi aprì la porta con una botta di reni, guardandomi in faccia e chiudendo l’ombrello.
«Ma a me non piaci così, Stellina rossa» lo guardai male e l’ammonii di non rivolgersi a me con quel vezzeggiativo, rise e mi invitò a entrare.
 
Il corridoio era buio e la prima cosa che sentii furono gli odori: di caffè, di frittata, di ceci cotti, di dolci. Poi la luce si accese e mi ritrovai di fronte ad un breve corridoio, alla fine del quale c’era una scala a chiocciola che partiva dall’interno del pavimento, quindi dal piano inferiore, salendo fino a quello superiore. Da lontano mi giunse la voce di Willy:
«Vuoi del caffè?»
Lo raggiunsi in cucina, la stanza sulla sinistra, dove al centro era sito un tavolo di plastica bianca, attorniato da quattro sedie dello stesso materiale. Sul tavolo si ergeva un vaso con fiori finti; i mobili erano vecchi e le ante degli stipi sbeccati, alcuni perfino inesistenti. L’odore del caffè mi invase le narici e fissai la tazza che Willy mi stava porgendo:
«É caffè americano. Ti piace?»
«Q-questa è casa tua?» chiesi mentre prendevo la tazza tiepida fra le mani e cercavo di calmare il batticuore. Lui annuì bevendo un sorso di caffè. «D-dov’è la tua famiglia?» iniziavo ad avere paura, seriamente. Le parole di Christian e di Jenny mi stavano fottendo il cervello da quando avevamo messo piede in quella casa e la porta d’ingresso si era chiusa alle mie spalle con un tonfo che sapeva di film dell’orrore.
Lui consultò l’orologio appeso al muro, le lancette segnavano un quarto alle otto:
«Dovrebbero essere qui fra poco.»
«Voglio andarmene» dissi tutto d’un fiato e con la voce tremolante. «Perché mi hai portato qui? In una casa vuota? Voglio andarmene!» adagiai la tazza sul tavolo e mi rialzai il cappuccio che avevo tolto entrando. Lui mi prese per il giubbotto:
«Ma che ti prende, Azzurra!»
«Non-mi-toccare!» scandii alzando le braccia e indietreggiando per allontanarmi dalla sua persona, mi veniva da piangere.
«Ok, ok! Calmati, siediti e parliamone.»
«No!» esclamai, non riuscivo più a controllare le mie azioni, le mie parole, niente. «Mi fai schifo! Cris aveva ragione. Jenny aveva ragione! Fai sempre così? Aspetti il momento giusto e poi le porti qui? In un posto sperduto e dimenticato da Dio in modo che tu possa approfittare di loro in piena libertà?» afferrai il cellulare dalla tasca del giubbotto, mi tremavano le mani, lui si alzò e fece un passo avanti. «Non ti avvicinare o giuro che-»
«Fratelloneee!» la voce di un bambino per poco non mi provocò un infarto, poi lo vidi sbucare dal nulla e correre fra le braccia di Willy che lo accolse, prendendo a togliergli il giubbino. Era la sua fotocopia in miniatura.
«Perché cavolo deve piovere ogni volta che decido di fare la spesa!» sulla soglia della cucina apparve una donna, i capelli biondi e corti erano legati in un codino, fra le labbra teneva una sigaretta sottile, trasportava pesanti borse da supermercato e Willy la alleggerì di quei fardelli, issandole sulle sedie. La donna sembrò non avermi neanche vista, al contrario del bambino che mi fissava senza sosta, prendendosi un leggero scappellotto dalla stessa:
«Dani smetti subito di fissare la signorina! Quante volte devo dirti che non si fissa la gente!» La donna si versò del caffè e lo bevve, facendo proprio quello che stava facendo pocanzi il bimbo: mi scrutava, gli occhi erano ridotti a due fessure, eppure notai che erano gli stessi di Willy: scuri, profondi, ma buoni e vivaci.
«Mamma, Lu è in garage?» intervenne William, lei assentì  inspirando a fondo, mentre il bambino correva fuori dalla stanza.
«Hai bisogno di lei?» disegnò cerchi nell’aria con il fumo della sigaretta
«Altroché!» esclamò lui, tirandomi giù il cappuccio e mostrando tutta la mia stupidità. Lo guardai male:
«Accidenti bambina! Ci vuole impegno per fare una stronzata simile!»
Grazie a quell’unica frase capii perfettamente da chi aveva ereditato quel carattere William. Erano fastidiosi entrambi alla stessa maniera.
Lasciammo la cucina e la signora che la governava per discendere lungo la scala a chiocciola e trovarci all’interno di un negozio di parrucchiere. Rimasi come un pesce lesso a fissare i faretti al soffitto, gli ampi specchi, le tende color glicine, i lavabi bianchi, i divanetti e le decine di riviste di moda.
Willy chiamò a voce alta il nome di Lu, udimmo un tono femminile annunciare che sarebbe arrivata subito, ma non in modo proprio garbato. Il possessore della voce si mostrò a noi dopo diversi minuti - cosa che aveva irritato Willy - sbucando da un angolo e, per l’ennesima volta, rimasi a bocca aperta.
La persona che mi stava venendo incontro era una ragazza che avrà avuto al massimo due anni più di me, con la carnagione olivastra come quella di Willy e dell’altro bambino, i capelli liscissimi e nerissimi e un pancione di parecchi mesi.
«Che vuoi?» chiese rivolta a William, prima di guardare me. «Tutto questo casino per presentarmi la tua ragazza?» feci per replicare, i suoi modi di fare mi davano sui nervi e mi chiesi se non fosse un tratto distintivo di quella famiglia.
«Lu puoi fare qualcosa?» aggiunse lui strappandomi ancora una volta il cappuccio dalla testa, mostrando i miei boccoli rosa. La ragazza mi scrutò, afferrandomi per il mento e muovendo il mio capo a destra e a manca come se fossi stata una bambola.
«Ci penso io. Tu vai a dare una mano a mamma, visto che sono impegnata con la tua ragazza» provai di nuovo a contraddirla, ma Willy mi precedette affermando che ci pensava lui, quindi scomparve. «Io sono Ludovica, la sorella maggiore di Will. Ma chiamami Lu o ti ammazzo!»
«O-ok» bisbigliai stringendole la mano e presentandomi. Non riuscivo a togliere gli occhi dalla sua enorme pancia. Mi mostrò un paio di campioncini di ciocche colorate di rosso, chiedendomi quale fosse quello che si avvicinava di più al mio colore naturale. La guardai a disagio, raccontandole che mi sarebbe piaciuto cambiare colore, che era il motivo vero per cui mi trovavo lì con i capelli rosa e quando mi chiese il perché, le raccontai dell’opinione di quelle ragazze e fu a quel punto che mi disse:
«Innanzitutto non avrebbe dovuto importarti del loro parere perché sono delle estranee. E delle stupide con un cervello da gallina. E delle stronze!» abbozzò un sorriso e io mi spaventai per la somiglianza con il fratello. «E poi a Willy piacciono le cose semplici e naturali, sono sicura che non approverebbe un cambiamento» aprii la bocca, pronta a dirle che io e suo fratello non stavamo insieme (per davvero), ma lei mi incitò a scegliere uno dei due colori.
«Sono di otto mesi» mi spiegò ad un tratto e io mi sentii terribilmente in imbarazzo, era come se mi avesse letto nel pensiero. «Il mio ragazzo mi ha lasciato dopo aver saputo della gravidanza, voleva che abortissi, ma mia madre ha detto che lei non è un’assassina e non lo sarebbe stata neanche sua figlia» mi stava separando i capelli a ciocche e io cercavo di non incrociare il suo sguardo nello specchio. «E se ti stai chiedendo quanti anni ho, sappi che ne ho 19.»
Cambiai argomento.
 
Che avesse ragione lei, che il mio colore naturale era l’unico che mi stava bene, lo capii solo guardandomi allo specchio ad operazione conclusa.
Morbidi riccioli mi ricadevano oltre le spalle e fino a metà schiena. Lu mi spolverò un po’ di fard sulle guancie e una spennellata di mascara.
«Willy sprizzerà testosterone da tutti i pori quando ti vedrà»
Arrossii.
«Hai frainteso, io e tuo fratello non stiamo insieme. Inoltre… non ho soldi con me, te li manderò tramite Willy» Lu mi posò una mano sulla spalla.
«Bastava un grazie» disse e la seguii su per le scale, un tantino confusa.
Erano tutti in cucina, la signora a fumare l’ennesima sigaretta e indaffarata ai fornelli, il piccolo Dani sulle ginocchia del fratello maggiore a guardare i cartoni in tv.
«Ah, eccole! Presto o si raffredda!» la donna versò un mestolo di ceci nel piatto e lo mise davanti a William, con il quale scambiai uno sguardo silente.
Per la prima volta vedendomi non proferì sfottò.
«I-io dovrei a-andare» balbettai.
«La tua famiglia ti aspetta?» mi chiese la donna, un altro piatto raggiunse il tavolo
«N-no» ma quale famiglia? Pensai.
«E allora siediti e mangia con noi!» aggiunse e sentii una leggera pressione al centro della schiena, era Lu che mi stava sospingendo a prendere posto al fianco di Willy. Lo intravidi, con la coda dell’occhio, a schernirmi con un sorrisetto:
«Che vuoi?» farfugliai rivolta a lui che fece spallucce, masticando un cucchiaio di legumi
«Sono contento di riavere la mia Cappuccetto Rosso» lo incenerii con lo sguardo, ma lui sembrava immune ai miei attacchi.
Il profumo dolciastro di quella minestra calda mi spalancò lo stomaco e dopo il primo boccone mi accorsi che non avevo mai assaggiato dei ceci così buoni.
 




NdA 
Di solito è una cosa che non faccio mai, ma questa volta i ringraziamenti ad alessandroago_94, mistery_koopa e Spettro94 sono d'obbligo.
Grazie ragazzi ^^



   
  
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