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Autore: Adeia Di Elferas    01/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Portatelo in cella.” disse piano Caterina, senza sollevare lo sguardo sul ragazzo per più di una manciata di secondi.

Non le piaceva, dover arrivare a tanto e trovava ingiusto che un innocente ci andasse di mezzo, tanto più che quel giovane era un ottimo artigiano e a Forlì cominciava a farsi un nome. Tuttavia Manfrone aveva tirato troppo la corda e l'unico modo che le era rimasto per cercare di farlo smettere era stato arrestare il figlio di uno dei suoi più fedeli armigeri, che viveva lì da qualche anno.

Questi, avulso dalla politica e da tutto ciò che ne concerneva, non aveva opposto resistenza, quando aveva visto arrivare nella sua bottega Mongardini e un paio di soldati. Non aveva capito perché lo volessero portare via e, quando la Contessa emise a mezza bocca la sentenza di condanna, restò altrettanto muto e incapace di reagire.

La Tigre guardò le guardie che trascinavano via il giovane, tanto attonito da non riuscire neppure a ribellarsi, e poi andò alla finestra. Era nel palazzo in cui aveva vissuto per anni con il suo primo marito. Aveva preferito stare lì, per sbrigare quella faccenda.

Alle sue spalle, Luffo Numai, che l'aveva accompagnata assieme al suo cancellieri e a un altro paio di Consiglieri, cercò di darle forza, dicendole: “Suvvia, mia signora. Prima di tutto, un figlio di un soldato tanto caro al Manfrone era un rischio, per Forlì. E poi dovevano aspettarselo, qualcosa di simile, dopo quello che hanno fatto.”

Caterina guardò ancora un momento verso la piazza. Come un lampo, rivide il cadavere di Girolamo che veniva buttato giù dal davanzale della stanza delle Ninfe e poi la folla che lo faceva a pezzi.

“Che questo arresto non abbia pubblicità.” decretò: “Non voglio che la popolazione pensi che sto mettendo in carcere della gente solo per il cognome che porta.”

“Anche se di fatto è quello che state facendo.” sussurrò pensoso il Capitano Rossetti.

La Sforza lo fissò per un istante, indecisa se prendersela o meno con lui, ma poi preferì ribattere, con voce abbastanza calma: “Suo padre ha attaccato le mie terre, creandomi un danno enorme e ufficialmente l'ha fatto solo per tre cavalli che secondo il suo padrone io avrei voluto rubare. Ho scritto al Podestà di Ravenna per querelarlo, e in tutta risposta mi sento dire che suddetto Podestà ha dato credito a Manfrone, che mi ha tacciata di aver ordinato che Tiberti facesse razzie nei villaggi che sono sotto il comando di Venezia. Vediamo se adesso, con un figlio ai ceppi, Manfrone si dimostrerà meno propenso ad attaccarmi.”

“Ma per quello non c'è già messer Ottaviano?” chiese Cardella, che, come sempre, sembrava un passo indietro a tutti gli altri, nel capire le cose.

“Se volessimo vincere una guerra affidandoci a mio figlio – rise amaramente la Leonessa – allora dovremmo dichiarare guerra a un esercito di statue di vetro. E forse anche in quel caso riusciremmo a perdere.”

Nessuno osò dire più nulla e così, dopo che la donna si fu presa ancora qualche istante per ragionare, guardando in silenzio la città che si apriva nella piazza, tornarono tutti alla rocca.

Ottaviano si stava preparando a partire in ricognizione e la Contessa era attesa alla rocca per il saluto ufficiale.

Mentre tornava verso Ravaldino, però, Caterina stava pensando a tutt'altro. Innanzi tutto, si era detta, avrebbe dovuto fare un salto da Bernardi. Se voleva che si mascherasse la notizia dell'arresto, era da un centro nevralgico come la sua barberia che doveva far partire il silenzio.

 

Ridolfi era stanco morto e quando riuscì finalmente ad arrivare alla poltrona, vi si abbandonò con uno sbuffo.

Gli ordini arrivati da Forlì un paio di giorni prima lo avevano subito preso e non aveva più avuto un momento di riposo. La Contessa lo aveva informato del frettoloso ritorno a casa di Giovanni, sottolineando come la sua vita fosse in pericolo, ma pregando Simone di pensare prima al proprio dovere e solo in un secondo momento all'amicizia che lo legava al Medici.

Gli aveva chiesto accoratamente di non correre a Forlì per stare accanto al fiorentino, ma di rimanere a Imola e dare inizio a un arruolamento di massa, sia in città sia in campagna, curando personalmente la redistribuzione delle risorse e la suddivisione dei nuovi soldati tra le varie mansioni.

“Sei arrivato, finalmente...” fece Lucrezia, raggiungendolo nel salone.

Il palazzo del Governatore era abbastanza fresco, e stava dando subitaneo sollievo al povero Ridolfi, che era rimasto sotto il sole – settembrino, ma ancora cocente – fin dalle prime luci dell'alba.

“Lucrezia...” la salutò lui, con un sorriso un po' tirato, facendole segno di sederglisi sulle ginocchia.

La moglie apprezzava quel genere di attenzioni da parte del marito e così, rispolverando i suoi modi un po' civettuoli, fece come le veniva suggerito, sorridendogli.

Gli accarezzò il viso coperto di barba rossiccia e gli diede un rapido bacio, ma il sorriso le si tramutò in fretta in un'espressione un po' preoccupata.

“Che c'è?” chiese il fiorentino, capendo che doveva esserci qualcosa che non andava.

“Mentre eri via è arrivata questa lettera da Firenze.” gli disse, estraendo dalla grande tasca del suo abito una lettera dal sigillo rotto.

Simone la prese, senza aver nulla da recriminare sul fatto che lei l'avesse già letta, dato che era stato lui stesso a dirle di farlo con tutta la corrispondenza, in modo che, se vi fosse stato qualche messaggio urgente, avrebbe potuto o provvedere direttamente lei a dare risposta o mandarlo a cercare il più celermente possibile.

“Di cosa parla?” le domandò, cominciando a chiedersi chi mai poteva scrivere a lui da Firenze, dato che coi suoi familiari aveva praticamente tagliato ogni ponte e che Lorenzo non gli mandava più lettere da mesi.

“Leggi.” lo invitò lei, alzandosi e dandogli un'ultima carezza sulla fronte, prima di mettersi a sedere sulla poltrona davanti a lui.

L'uomo guardò per prima cosa la firma in calce, che era di Semiramide. Perplesso, cominciò a leggere dall'inizio e si rese conto che la donna che aveva scritto quella missiva doveva averlo fatto molto in fretta e con la paura di essere intercettata. Gli diceva che aveva preferito mandare la lettera a Imola, piuttosto che a Forlì, per non incappare nel divieto stretto che Lorenzo aveva imposto ai servi della casa di far partire messaggi alla volta della città della Tigre.

Dopodiché gli spiegava che la cittadinanza chiesta da Giovanni per la moglie e i figli – ne parlava così, al plurale – era stata accettata, ma che il nome di lui non compariva e che Lorenzo avrebbe usato quel dettaglio per reclamare interamente per sè l'eredità del fratello, dato che nel documento non si specificava che fosse davvero lui il marito della Sforza.

Oltre a ciò lo metteva a parte delle turbolenze che si vivevano alla Signoria e all'incertezza che aleggiava sulla guerra. Benché Vitelli stesse raccogliendo una vittoria dopo l'altra, il malcontento di una frangia politica si stava facendo sempre più pesante e Lorenzo e i suoi erano in difficoltà.

Chiudeva chiedendogli di mettere in guardia di persona la Sforza su quello che stava capitando e di mandare un saluto a Giovanni da parte sua, assicurandogli che, per quel che poteva, avrebbe sempre cercato di proteggere il suo piccolo Ludovico.

“Devo andare a Forlì.” sussurrò Ridolfi, ripiegando la lettera.

“Sì, lo credo anche io.” annuì Lucrezia, per quanto l'idea di lasciarlo partire non le piacesse.

Riteneva che il momento fosse troppo confuso e che passare i territori di Faenza – per quanto Simone fosse abile nell'attraversare le terre di Manfredi tagliando per i boschi, quindi senza farsi scoprire – fosse oltremodo un azzardo. Però sapeva anche che suo marito non avrebbe rinunciato a quell'occasione per andare dal cugino e vedere coi suoi occhi in che stato realmente vertesse.

“Fammi preparare un cavallo.” disse piano lui, alzandosi e andando verso il piano di sopra, per cambiarsi.

 

Caterina era assorta nei suoi pensieri e non si era resa conto che suo marito si era svegliato. Era alla scrivania e stava rileggendo le lettera del Marchese di Mantova, che le era stata recapitata giusto quel giorno.

Il Gonzaga era cauto, le faceva capire con mezze parole che la sua fedeltà, per quanto vincolata al Duca di Milano, di fatto era in discussione. Le metteva dinnanzi tutti i problemi da darle aiuto, sottolineando come lei, di fatto, stesse appoggiando Firenze, quando lui, a conti fatti, stesse cercando di non urtare Venezia.

La Tigre comprendeva molto bene la sua posizione e non avrebbe voluto insistere, se non fosse stato che, di tutti quelli a cui aveva scritto, lui era stato l'unico a risponderle.

Alla fine Francesco le proponeva in soccorso settanta balestrieri a cavallo a patto che venissero pagati in anticipo e, se le fosse stato possibile, che l'aiutasse a non attirare le ire del Moro.

I balestrieri che il Marchese poteva fornirle le sarebbero stati più che utili. Tuttavia, la richiesta era per lei tutt'altro che vantaggiosa. Era anche vero che, accettando e mettendo in bella mostra i soldati di Mantova, avrebbe potuto ingannare in parte il nemico, rafforzando l'idea che Milano fosse dalla sua parte e che avesse una cifra di soldi tale da potersi comprare le truppe migliori d'Italia da affiancare al suo esercito personale.

Con un sospiro si abbandonò contro lo schienale e guardò il soffitto, ignara che dal letto, con Ludovico accoccolato contro il fianco, suo marito la stesse osservando.

Giovanni guardava nella luce tenue del mattino i capelli ormai quasi del tutto bianchi della moglie, mentre questa gettava indietro la testa e respirava a fondo, come faceva quando era particolarmente indecisa su qualcosa. Vedeva il modo nervoso in cui le sue gambe, sotto le gonne del suo abito da casa, si agitassero senza sosta, tradendo la sua inquietudine.

Avrebbe voluto poterle essere più d'aiuto, mentre si rendeva conto di essere solo un intralcio. In quel momento la guerra stava per raggiungere un punto cruciale, uno di quei momenti in cui si decide la direzione che prenderà l'intero conflitto. E la sua Caterina, una delle persone più abili nell'arte della guerra che Giovanni conoscesse, era incatenata lì, a prendersi cura di lui.

La conosceva e sapeva che, se avesse potuto, sarebbe andata di persona a controllare i posti, le truppe, a parlamentare con questo o quel signore di questa o quella città. E invece doveva occuparsi di lui e lo faceva senza tregua, allontanandosi da lui nemmeno due ore al giorno, giusto per far fronte alle necessità più impellenti dello Stato.

La mente della Tigre, nel frattempo, era tornata al colloquio avuto il giorno prima con Bernardi.

Quando era andata nella sua barberia, aveva aspettato con pazienza che il Novacula finisse di sbarbare l'ultimo cliente e poi gli aveva parlato del giovane che aveva fatto arrestare.

“Ma si può sapere che ha fatto, quel poveraccio?” aveva chiesto il barbiere, guardandola un po' accigliato.

Caterina gli aveva spiegato i motivi politici e militari che l'avevano convinta a prendere quella misura precauzionale e non le era sfuggito il piccolo moto di contrarierà che aveva attraversato il volto di Andrea.

“Sia come sia...” aveva soffiato lui, cominciando a ripuliva il rasoio: “Cosa volete che faccia? Che metta in giro notizie false su di lui per far digerire meglio il suo arresto a quelli che andavano nella sua bottega?”

La Sforza non aveva voluto riprendere il Novacula per il tono aggressivo con cui aveva parlato. In fondo aveva già tanti problemi per conto suo e non aveva alcuna voglia di scontrarsi con qualcuno che aveva sempre ritenuto amico.

“Dovete mettere a tacer ogni voce su di lui, nel bene e nel male.” aveva detto la Tigre, la schiena contro il muro, seduta su uno sgabello in fondo alla barberia, una mano che le sfiorava le labbra, mentre gli occhi correvano pensierosi verso la porta: “Se qualcuno prova a dire che è stato arrestato, voi insistete con il dire che è partito di sua volontà perché ha avuto degli screzi con me. O al massimo dite che s'è arruolato per Venezia, tradendo la nostra terra. Ma soprattutto cercate di far sì che Forlì se ne dimentichi.”

Andrea aveva deglutito e poi, con una certa difficoltà, aveva annuito: “Come comandate, mia signora.”

Era seguito un lunghissimo momento di silenzio, durante il quale la Contessa aveva fissato assorta l'uscio e Bernardi la punta dei propri piedi.

Alla fine, facendo uscire dal petto un rospo che lo tormentava da quando la sua signora era entrata nella sua barberia, l'uomo aveva chiesto: “Piuttosto... Pochi giorni fa ricorreva l'anniversario della morte del povero Barone Feo. Non avete fatto dire nemmeno una Messa, per lui?”

Quella domanda aveva fatto mancare la terra sotto i piedi a Caterina: si era completamente dimenticata di quella ricorrenza.

La donna aveva balbettato qualche parola molto confusa, per poi alzarsi in fretta e andare alla porta, dicendo che sarebbe tornata il prima possibile per discutere anche di altre questioni.

Uscita dalla bottega di Bernardi, la Leonessa era andata filata fino alla chiesa di San Girolamo, ma, appena prima di entrare, aveva lasciato perdere ed era tornata di corsa a Ravaldino, da Giovanni.

Ludovico si era appena svegliato e aveva fatto uno dei suoi piccoli gorgheggi per attirare l'attenzione del padre. Quel suono fece voltare di scatto Caterina, che uscì di colpo dai suoi pensieri e si accorse con un solo sguardo che il marito era sveglio probabilmente da un po'.

“Piccolino...” stava sussurrando il fiorentino al figlio: “Guardalo... Cerca di mettersi sul fianco...”

Mentre il Medici diceva così, il bambino, con un certo sforzo, riuscì davvero a mettersi sul fianco da solo e così anche Caterina si andò a mettere sul letto e, accarezzando Ludovico, commentò con un certo orgoglio: “Scommetto che tra tutti i miei figli sarà anche il primo a camminare.”

“Io mi auguro solo di non avergli passato la malattia della mia famiglia.” commentò mesto Giovanni.

La moglie sollevò gli occhi verdi verso quelli molto più chiari del marito e cercò le parole per rassicurarlo, come aveva già fatto tante volte in passato. Ma si accorse che Giovanni era di umore troppo nero, per cogliere il suo sforzo.

“Che faccia il soldato o il prete – riprese a dire il Popolano, con la voce che si faceva un affannosa per lo sforzo di dire tante parole tutte di fila – mi auguro solo che quando arriverà il suo momento non possa fare in tempo ad accorgersene. Che sia un colpo di falconetto nel petto o un accidente nel suo letto da prelato...”

“Non devi parlare di queste cose.” lo zittì Caterina, che lo vedeva agitato e più sudato di poco prima: “Stai calmo. Devi riposare e pensare solo a riprenderti.”

A quelle parole, Giovanni fece un respiro profondo, mentre Ludovico gli stringeva con la manina corta il bordo del camicione che aveva addosso, e poi sussurrò: “Caterina..?”

La Contessa si schiarì la voce e, passandogli la punta delle dita sulla fronte – soprattutto per sondare in modo discreto la sua temperatura – rispose: “Sì?”

“Se dovessi restare sola con lui...” la voce del Medici venne rotta da qualche colpo di tosse secca e insistente e prima di poter proseguire, l'uomo dovette deglutire qualche volta: “Ti prego, fagli sapere quanto l'ho amato e quanto l'abbiamo desiderato. E cerca di tenerlo al sicuro, finché ti sarà possibile... Al sicuro anche da Lorenzo.”

La Tigre annuì in silenzio, con un cenno secco del capo, stringendo i denti e poi cercò di concludere il discorso con un semplice: “Fidati di me.”

“L'ho sempre fatto.” fu l'eco del marito, che riuscì a dedicarle un sorriso abbastanza disteso.

Quando, più tardi, il castellano bussò con delicatezza alla porta, temendo di disturbare il fiorentino, Caterina lasciò lentamente il letto, su cui dormivano sia Giovanni sia Ludovico e andò a sentire che volesse.

“Il Governatore di Imola – bisbigliò il castellano – è nel mio studiolo e vi attende perché deve parlarvi di importanti novità.”

La Sforza guardò di sfuggita il marito che dormiva profondamente. Da qualche giorno il suo sonno era diventato molto spesso e sordo, tanto che a volte aveva addirittura temuto di non vederlo risvegliare.

Il medico di corte sosteneva che il fisico del Popolano fosse troppo stanco e che anche il suo cuore stesse facendo fatica a supportarlo. Inoltre, malgrado tutte le cure che stavano cercando di approntare, le sue gambe erano sempre gonfie e il respiro difficoltoso. Ormai, più che i dolori della gotta, era la stanchezza delle sue membra a volerlo trascinare nella fossa.

“Fate venire qui Bianca.” decise Caterina: “Quando arriverà, allora incontrerò il Governatore. Non voglio lasciare mio marito da solo.”

Cesare Feo lanciò uno sguardo verso il Medici, quasi irriconoscibile, che dormiva accanto al figlio di appena cinque mesi e chinò brevemente il capo in segno di assenso.

 

Bianca era seduta in poltrona, nella sala delle letture, le Georgiche di Virgilio aperte in grembo e l'unghia del pollice tra i denti. Non stava seguendo nemmeno una riga di quel che leggeva.

La sua mente era un turbinio scostante di pensieri che la confondevano e basta.

Tutto, quel giorno, era partito da un mezzo scontro che aveva avuto con Bernardino. Il bambino aveva appena bisticciato con alcuni suoi amici in città ed era tornato alla rocca ancora arrabbiato.

La giovane Riario, vedendolo tanto scosso, l'aveva seguito e alla fine era riuscita a fermarlo a metà corridoio e gli aveva chiesto cosa fosse successo.

A fatica, Bernardino le aveva detto che aveva attaccato briga con alcuni bambini, perché quel giorno Galeazzo non l'aveva voluto appresso in allenamento e così lui aveva voluto sfogarsi in un altro modo. Però questi, dopo un po', avevano cominciato ad attaccarlo non solo con le mani, ma anche con le parole.

Gli avevano detto cose orribili su suo padre e anche su sua madre e così lui aveva cominciato a picchiarli di più e alla fine aveva tirato fuori dalla piccola fodera il suo stiletto.

“Però – aveva confessato alla sorella, rosso in viso e con i grandi occhi che si stavano quasi riempiendo di lacrime – non ho avuto il coraggio di usarlo.”

Bianca aveva cercato di consolarlo, ma soprattutto di riprenderlo. Gli aveva detto che non sarebbe stato giusto, usare un'arma e rischiare di fare veramente del male a qualcuno per un motivo del genere.

Il fratello, quando aveva sentito la sorella dire: “E poi non tutte le voci su nostra madre e su tuo padre sono completamente false...” aveva avuto un moto di ribellione molto violento.

L'aveva scansata, riuscendoci, malgrado non avesse ancora otto anni, ed era corso via.

Bianca aveva cercato di scoprire dove stesse andando, per paura che potesse commettere qualche sciocchezza, e quando l'aveva visto cercare riparo da Galeazzo, e quest'ultimo accoglierlo a braccia aperte – metaforicamente – e permettergli di allenarsi con lui e i soldati, allora si era ritirata nella stanza delle letture.

Mentre sfogliava distratta Virgilio, si era trovata a ripensare a Giacomo e a come sua madre l'avesse sempre tenuto in palmo di mano e difeso a spada tratta anche quando era un'impresa pressoché impossibile.

Da lì aveva cominciato a ripensare a quello che era stato, a come lei stessa avesse avuto la sua parte nella morte di quell'uomo e si chiese cos'avrebbe fatto lei, al posto di sua madre.

Quando stava giungendo a conclusioni molto spiacevoli, sentì qualcuno bussare alla porta e subito dopo vide entrare Cesare Feo: “Vostra madre chiede se potete recarvi nella stanza di messer Medici per qualche tempo, mentre sbriga alcuni importanti affari di Stato.”

Bianca chiuse subito il libro e, senza dire una parola, annuì al castellano e andò subito nella stanza del Popolano, pronta a vegliare su di lui e anche sul piccolo Ludovico che gli dormiva accanto.

 

Caterina, che nel tragitto tra la stanza del marito e lo studiolo aveva cominciato a chiedersi che potesse esserci di così urgente, per Ridolfi, da contravvenire al suo ordine e presentarsi all'improvviso a Forlì, era arrivata a destinazione.

Fece un paio di respiri profondi e poi entrò nello studiolo. Trovò Simone in piedi, nel centro della stanza, la barba lunga come sempre e i vestiti impolverati, testimoni di un viaggio che pareva più lungo del semplice tragitto tra Imola e Forlì.

“Governatore.” lo salutò, chiudendo la porta e raggiungendolo.

“Contessa.” rispose lui, con un rapido inchino.

Prima di dire quello che aveva da dire, però, l'uomo prese fiato e chiese: “Giovanni come sta?”

Lo sguardo evasivo della Tigre rispose prima delle sue parole: “Non bene.”

Ridolfi fece una smorfia e poi si passò una mano sulla fronte, come se quella conferma gli avesse lasciato un macigno sul petto.

“Come mai siete qui?” chiese la Sforza, cercando di ritrovare un po' di contegno.

La reazione del fiorentino le aveva fatto sentire una volta di più il peso che aveva nell'anima. La consapevolezza di non poter far nulla se non aspettare la stava distruggendo. L'incertezza, poi, della guerra stava anche peggiorando le cose, lasciandola in una sorta di bolla sospesa.

“Sono partito da Imola per riportarvi delle notizie che ho avuto da madonna Semiramide, la moglie di Lorenzo.” spiegò Simone, ma invece di cominciare con le nuove giunte da Firenze, scosse un po' il capo e proseguì: “Ma dovete sapere che il mio viaggio è durato parecchio di più del normale.”

“Come mai?” domandò la Contessa, credendo subito che i faentini l'avessero intercettato e avessero cercato in qualche modo di fermarlo.

“Mentre passavo per i boschi, per sfuggire i controlli della frontiera – rispose il Governatore – ho visto degli strani movimenti. Mi sono nascosto e ho osservato.”

Caterina, intuendo che qualcosa di grosso le stava per essere rivelato, si appoggiò con una mano alla scrivania del castellano e fissò con attenzione il viso di Ridolfi. Per quanto ancora pieno e giovanile, portava già i segni delle preoccupazioni che quei tempi lasciavano. Era incredibile come, lui tanto quanto chi l'aveva preceduto, fosse invecchiato in fretta per colpa del suo lavoro.

“Ci ho messo un po' a capire, ma poi ho riconosciuto le armi che portavano e il modo in cui erano vestiti...” disse Simone, mentre il suo racconto si faceva un po' confuso, come la sua espressione.

“Di chi state parlando?” chiese la Tigre, cercando di orientarsi meglio nella spiegazione del Governatore.

“Da Faenza sono passati degli stradiotti veneziani. Non so dire quanti di preciso, ma nei boschi ne ho visto a centinaia.” soffiò Ridolfi, puntando gli occhi in quelli della sua signora, prima di distoglierli e soffiare: “Stavano andando verso Firenze, di certo, e sono pronto a scommettere che li useranno anche contro i nostri uomini.”

Caterina sentiva il bisogno di sedersi, ma rimase in piedi, aggrappandosi solo un po' di più alla scrivania con la mano.

Se davvero Venezia stava mandando dei rinforzi ai suoi – e delle truppe scelte per altro – e lo stava facendo utilizzando Faenza a quel modo senza che lei, non fosse stato per Simone, se ne avvedesse, allora la situazione era più grave del previsto.

Ridolfi e la Leonessa si guardarono per un lungo istante. Entrambi sapevano cosa significava, quello sguardo. La preoccupazione per Giovanni e quella per la guerra si stavano mescolando in un unico tormento che li angosciava tanto da far abbassare per un momento a entrambi le difese che fino a quel momento li avevano portati a mostrarsi distaccati.

Si abbracciarono per qualche minuto, cercando appoggio l'una nell'altra, e poi quando si allontanarono di nuovo, la Contessa gli diede un colpetto sulla spalla e, tornando risoluta come sempre – eccezion fatta per gli occhi lucidi – ordinò: “Parlatemi di quello che scrive mia cognata. E poi convochiamo un consiglio di guerra urgente.”

   
 
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