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Autore: Adeia Di Elferas    03/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Simone aveva lasciato la Contessa impegnata in un veloce consiglio di guerra convocato per discutere le ultime novità, ed era andato verso la stanza di Giovanni.

Caterina gli aveva detto di andare a salutarlo, che era certa che il marito sarebbe stato contento di vederlo, così il Governatore non se l'era fatto ripetere. Anche se da un lato temeva di vedere il cugino in una condizione pessima, dall'altro sentiva il bisogno di dirgli alcune cose e dunque si fece coraggio.

Quando arrivò alla camera di Giovanni, bussò un paio di volte e andò ad aprirgli Bianca. La ragazza parve un po' sorpresa, nel vederlo, ma lo accolse con un inchino e con qualche parola di rito.

Il Medici, che stava steso a letto, con accanto quello che doveva sicuramente essere suo figlio, intravide dietro la figliastra il fiorentino e così disse subito: “Simone...”

Nella voce un po' roca e stentata che l'aveva chiamato, Ridolfi fece fatica a riconoscere quella del suo conterraneo. Tuttavia, facendo finta di non essere rimasto di sasso, nemmeno quando lo vide meglio e si rese conto di cosa intendesse dire la Sforza, quando lo descriveva come molto patito, Simone si fece avanti e, con un sorriso abbastanza convincente ricambiò il saluto.

“Puoi lasciarci soli un momento?” chiese il Popolano, rivolgendosi a Bianca.

La Riario annuì e chiese se doveva portare con sè anche Ludovico. Dopo un momento di incertezza, Giovanni le disse di sì e così lui e Simone rimasero del tutto soli.

Il Governatore sentiva l'odore pungente della malattia, mitigato appena dalla finestra lasciata aperta. Per quanto volesse apparire superiore, i suoi occhi non riuscivano a soffermarsi sul Medici per più di pochi secondi e poi correvano di nuovo via, come a rifuggire la realtà dei fatti.

“Non sono un bello spettacolo, lo so.” fece il Popolano, con un mezzo sospiro che si spezzò subito per via della sua fatica a respirare.

Simone cercò di minimizzare, ma l'altro tagliò corto e gli chiese in modo preciso come mai fosse lì.

Ridolfi, dapprima tentato di non dire nulla, per risparmiare all'altro fiorentino dei grattacapi che, nel suo stato, sarebbero stati solo un peso inutile, quando capì che Giovanni era molto più presente di quanto le sue iridi sperse lasciassero intuire, gli raccontò tutto quanto.

Quando il Governatore ebbe concluso il suo resoconto, il Medici chiuse gli occhi e scosse appena il capo. Si sentiva in difetto, nei confronti di sua moglie. Avrebbe voluto essere d'aiuto e invece non faceva altro che farle perdere tempo.

Caterina era una donna abile, molto più abile di lui, nelle questioni di guerra. Ma non poteva ribaltare le sorti del conflitto standosene chiusa in una stanza con lui a leggere Catullo.

“Piuttosto... Come stai? Ti stai riprendendo un po'?” chiese Simone, nel disperato tentativo di ottenere almeno una mezza buona notizia.

Giovanni fece una smorfia e poi, impantanato nei suoi pensieri, rispose con una domanda: “Hai mai sentito parlare delle cure termali che fanno a San Pietro in Bagno?”

Ridolfi si accigliò. Quella richiesta improvvisa gli sembrava dettata da altro, che non la preoccupazione per la propria salute.

Con cautela, cominciò a rispondere: “Che io sappia adesso lo governa Gherardo Gambacorti...”

“Sono sempre fedeli a Firenze, vero?” chiese il Medici, apparendo quasi confuso.

Vedere l'amico in quello stato quasi spaventò il Governatore di Imola, che, convintissimo che Giovanni in merito ne sapesse ben più di lui, rispose: “Sì, sì, immagino di sì.”

“Bene...” soffiò l'altro, chiudendo gli occhi: “Ti spiace, Simone... Ora... Ho bisogno di riposare.”

L'altro gli si avvicinò e gli posò una mano sulla fronte, trovandola rovente. Tuttavia non lo fece notare ad alta voce, ma si limitò a salutarlo, anche se, gli sembrava, il Popolano si era già addormentato.

 

Francesco Barisello si era allontanato un po', lasciando studiatamente Polidoro e Achille Tiberti da soli, convinto che un discorso franco tra due fratelli fosse la cosa migliore, a quel punto.

“Pensaci – stava dicendo il primo, prendendo tra indice e pollice un filo d'erba ancora molto verde e rigoglioso – avesti concluso i tuoi problemi. Saresti al mio fianco.”

“Quello che mi stai proponendo – fece Achille, seduto sul prato accanto al fratello, le gambe allungate e lo sguardo perso all'orizzonte sulle campagne del cesenate – è qualcosa di difficile da accettare.”

“Sei un mercenario, no?” ribatté Polidoro: “Essere al soldo della Tigre o del Doge che differenza farebbe?”

“Fa una grande differenza, per me.” mise in chiaro l'altro, sempre guardando fisso davanti a sè.

“Non mi dirai che anche tu sei tra quelli che si sono persi sotto le sottane di quella donna.” sbuffò Polidoro, lanciando via il filo d'erba.

“Non ti permetto di fare certe insinuazioni.” l'attaccò Achille: “Io ho giurato fedeltà alla Sforza e non intendo tradirla. Ho già commesso i miei errori, non voglio commetterne uno irreparabile.”

“Allora il tuo no è davvero definitivo.” nella voce di Polidoro si sentiva un'affermazione e non una domanda.

L'altro Tiberti si grattò il naso adunco e poi, rialzandosi con un suono sordo a sottolineare lo sforzo, porse la mano per aiutare il fratello a tirarsi su a sua volta: “Il mio no è definitivo.” confermò.

“Non sai quello che stai facendo, Achille.” lo mise in guardia Polidoro, accettando l'aiuto per alzarsi: “Se le resti accanto, alla fine di questa guerra di te resteranno solo ossa.”

“Prima o poi di tutti noi resteranno solo ossa.” sorrise l'uomo della Tigre.

 

“Come proseguono i lavori alle mura?” chiese Caterina, asciugandosi il sudore dalla fronte.

Quel giorno, benché si fosse già in settembre, le sembrava che facesse un caldo insopportabile. Il suo medico, incrociandola mentre si recava quasi di corsa al Consiglio di guerra, le aveva fatto notare come fosse ancora debole e come la febbre non l'avesse ancora lasciata del tutto.

“Dovreste riposarvi, o finirete per farvi del male.” le aveva anche detto, già immaginando che la sua raccomandazione sarebbe caduta nel vuoto.

E infatti la Tigre aveva sollevato un sopracciglio e, riprendendo a camminare, l'aveva zittito con un veloce: “Mi sono già fatta molto più male di quanto non me ne stia facendo adesso, eppure sono ancora qui.”

Antonio Teodoli, il tesoriere nominato proprio per i lavori alle mura, controllò i suoi incartamenti e assicurò: “Abbiamo quasi finito. Dobbiamo solo prelevare ancora qualche pietra, ma per il resto...”

La Contessa annuì e rimarcò: “Qualsiasi materiale di costruzione vi serva, come già detto, prendetelo dal mio palazzo. Tanto non serve più a nessuno.”

Provoli, Castellini, Pontiroli e Cortesoni, i quattro incaricati di supervisionare i quattro versanti di mura vociferarono per qualche istante e poi il primo prese la parola: “Ci serve anche altra calcina, ma ci mancano i fondi per...”

La Sforza, che non aveva la mente abbastanza lucida per mettersi a far di conto, tagliò la testa al toro dicendo: “Prendeteli dalla mia cassa personale. Basta che queste riparazioni siano terminate entro la fine del mese!”

Luffo Numai, che, per diligenza, prendeva religiosamente nota di tutto quello che veniva detto in Consiglio – così come stava facendo anche Cardella, ma per dovere – annuì sommessamente e poi commentò: “Mia signora... La vostra è una decisione molto saggia per il vostro Stato, anche se molto rischiosa per voi.”

“Se non difendo questa terra – ribatté Caterina – allora non mi servirà a nulla avere ancora del denaro per me, perché nel momento stesso in cui perderò Forlì, io sarò morta. Credo che lo possiate ben capire anche voi.”

Con quella funesta considerazione che ancora aleggiava su di loro, i Consiglieri passarono abbastanza agevolmente al punto seguente dell'ordine del giorno e così la Leonessa restò impegnata fin quasi al tramontare del sole.

 

Ludovico Sforza stava picchiettando distratto il vetro della finestra, infastidendo una mosca che non riusciva più a trovare la via di fuga dal palazzo di Porta Giovia.

Stava aspettando che Galeazzo Sanseverino si degnasse di raggiungerlo. Gli aveva dato appuntamento lì nei suoi appartamenti privati 'a sera', ma si era detto che non fosse necessario specificare 'presto'. E invece quell'insolente lo stava facendo attendere come fosse stato l'ultimo dei popolani.

Aveva sentito dire che stava giocando al pallone con il Cardinale Ippolito Este e con Borso da Correggio e già di per sè quel fatto lo infastidiva.

Borso, per conto di Ercole d'Este, in giugno era stato in Francia per un'ambasciata e poi, in agosto, aveva intrattenuto alcune lunghe conversazioni proprio lì a Milano con l'ambasciatore mantovano Giorgio Brognolo, e al Duca tutti quei maneggia piacevano poco.

Sapeva che il papa stava per far sposare suo figlio Cesare, spretato e favorito del re di Francia grazie al divorzio che Alessandro VI aveva concesso a Luigi. Non gli piaceva pensare che il Vaticano stesse cercando appoggio in un monarca che aveva già più volte dichiarato apertamente di volere Milano per sè.

Stava anche vivendo con inquietudine le sorti della guerra tra Firenze e Venezia, mascherata dalla contesa su Pisa. Ogni volta che gli arrivava una missiva dalla Toscana, si sentiva mancare il fiato.

Passava gran parte delle sue giornate sulla tomba di Beatrice e gran parte delle sue notti nel letto della Crivelli, e avrebbe voluto più di ogni altra cosa potersi dimenticare di tutto e andare a Vigevano a curare i suoi gelsi.

Si sentiva stanco di tutto e gli pareva che tutti quanti gli stessero facendo guerra. Da un lato i suoi stessi collaboratori, come Calco, che non faceva altro che richiamarlo all'ordine e all'attenzione, infastidendolo più ancora della mosca che continuava a sbattere contro il vetro. Dall'altro Isabella d'Aragona, che non perdeva occasione per farlo sentire un verme, alternando minacce a mezze suppliche, rendendogli odioso il nome di Pavia, per tutte le volte che la nominava, parlando del figlio Francesco, ancora rinchiuso. E poi c'era il ricordo di Beatrice che, più di ogni altra cosa lo tormentava.

Smise di infastidire il moscone che continuava a cercare inutilmente una via di fuga continuando a sbattere contro il vetro e riprese la lettera di sua nipote, che teneva nella tasca interna del farsetto di raso.

Quasi non riconosceva la bellicosa Caterina nelle parole che la donna gli aveva scritto. Si lamentava di essere stata lasciata sola e prediceva che presto la Romagna sarebbe stata coperta da soldati veneziani e che lei non sapeva come difendersi. Tuttavia, sul finale, pareva riprendersi e metteva il Moro davanti a un semplice fatto: se fosse caduta lei, molto in fretta sarebbe caduta anche Milano, perché in molti avrebbero pensato che se lui non aveva avuto la forza di difenderla, allora significava che era il momento di colpirlo e finirlo.

“Finalmente siete arrivato.” borbottò Ludovico, rimettendo la lettera al suo posto e voltandosi verso Sanseverino.

Galeazzo sbuffò, trovando il tono mesto del Duca troppo diverso da quello allegro e scherzoso di Borso e Ippolito Este, che gli avevano fatto compagnia quel pomeriggio.

“Che avete da dirmi?” chiese il condottiero, trovando che il salotto in cui il signore di Milano aveva deciso di accoglierlo assomigliava più a una cripta che a una stanza elegante.

Era quasi del tutto buia, una mosca ronzava contro la finestra in modo molto fastidioso e il volto stesso dello Sforza pareva quello di un cadavere.

“Vostro fratello Gaspare è in Romagna, giusto?” chiese il Moro, senza dare troppo peso alla domanda posta in modo quanto meno sgradevole dal suo interlocutore.

Il Sanseverino si chiese per un momento se per caso il Duca non avesse qualche serio problema di memoria, visto che era stato lui in persona a spedire Fracassa laggiù in attesa che la guerra si inasprisse.

“Certo, Duca.” fece Galeazzo, perplesso.

“Ebbene...” sospirò il Moro, che fino all'ultimo era stato indeciso: “Scrivetegli e ditegli che da questo momento deve seguire gli ordini di mia nipote Caterina. E poi fate sapere anche a vostro fratello Giovan Francesco che deve correre il prima possibile a proteggerla. E anche lui dovrà seguire i suoi ordini. Dovranno considerarla a tutti gli effetti il comandante in capo. Chiaro?”

Sanseverino rimase un momento basito. Aveva sentito più volte dire che lo Sforza non nutriva grande simpatia per la nipote, e che, anzi, un po' la temesse.

Vederlo delegare in modo tanto plateale le manovre militari in Romagna e proprio in favore della Tigre di Forlì, era qualcosa che non si sarebbe mai aspettato.

“Allora?” fece il Duca, sbrigativo: “Avete capito?”

“Certo, mio signore...” assicurò Galeazzo, riprendendosi un po' dalla sorpresa: “Mi attiverò questa sera stessa e prima di fine mese i miei fratelli saranno entrambi al servizio di vostra nipote, la Contessa.”

Ludovico, a quel punto, lo congedò con un cenno del capo e, rimasto solo, tornò a guardare fuori dalla finestra il cielo che si scuriva su Milano.

Il ronzio della mosca ancora risuonava nelle sue orecchie. Malgrado tutto, quello stupido insetto era ancora lì che, davanti a una sottile lastra di vetro, ancora cercava scampo laddove scampo non c'era.

Riprendendo la lettera che aveva nella tasca, il Moro fece un gesto rapido, benché quasi distratto, e con un colpo unico centrò la mosca che cadde morta in terra.

 

Caterina era stata agitata tutta sera. Aveva aiutato Giovanni a mangiare, per quanto il fiorentino non fosse riuscito a fare altro che sorbire qualche sorso di brodo, e poi gli aveva letto qualcosa, ma in modo molto distratto.

Alla fine, quando stava spegnendo qualche candela, per permettere al marito di riposare meglio, il Medici le chiese, senza troppi giri di parole: “Cosa c'è?”

In realtà l'uomo sapeva benissimo cosa avesse messo tanto in allarme la moglie. Quello che Ridolfi gli aveva detto quel giorno sarebbe stato sufficiente a chiunque per perdere la testa.

“Niente.” minimizzò la Sforza, continuando a spegnere un lume dopo l'altro.

Il Popolano sospirò e guardò di traverso la culla in cui riposava suo figlio. La Contessa l'aveva sistemata in modo che lui potesse vedere Ludovico anche stando coricato a letto.

“Simone mi ha detto tutto.” fece Giovanni, che non sarebbe riuscito a reggere un lungo discorso e quindi preferiva arrivare al dunque: “E so che la situazione è difficile.”

A quella rivelazione, la Tigre cedette. Smise di trafficare con le candele e si andò a sedere sul letto, dandogli le spalle.

Non voleva mostrarsi debole, voleva fargli vedere quanto fosse adamantina e rassicurarlo a tal modo anche sul futuro del loro prezioso figlio. E invece, tutto quello che riuscì a fare fu abbassare il capo e tirare su con il naso.

“Se solo Ottaviano fosse diverso...” cominciò a dire, asciugandosi con rabbia una lacrima che era scivolata sulla guancia: “O se solo Galeazzo fosse un po' più grande... Invece sono da sola. Del tutto da sola.”

“Ci sono io.” fece il Medici, ferito nell'orgoglio, ma in fondo d'accordo con lei.

Caterina si voltò verso di lui, guardandolo con gli occhi verdi resi lucidi da qualche lacrima raminga: “Sì, ci sei tu.”

“Avanti – fece l'uomo che, più di ogni altra cosa, avrebbe voluto poter dormire stretto a lei e dimenticare tutto e che invece si stava sforzando di restare lucido e collaborante – spiegami tutto quanto.”

La Leonessa gli fece un riassunto della situazione molto più dettagliato e ragionato di quanto non avesse fatto Simone. Gli parlò anche della proposta del Gonzaga, della quale non aveva ancora parlato con nessuno, discusse delle pattuglie messe nelle mani di Ottaviano, utili fino a un certo punto, e gli riferì anche delle difficoltà che stava riscontrando nel coordinare le difese, anche se, all'ultimo, riuscì a evitare di dire che quella difficoltà era dovuta solamente al fatto che passava gran parte della giornata chiusa in quella stanza con lui.

“Ti dico cosa farei io.” fece alla fine il Popolano, socchiudendo le palpebre e cercando di non ansimare troppo nel parlare: “Accetterei la proposta del Gonzaga. Meglio avere un debito, che morire per non contrarne. Poi chiederei un'amnistia per tutti i condannati, eccezion fatta per quelli che si sono macchiati di tradimento.”

Mentre il marito prendeva fiato qualche volta per riuscire a continuare, Caterina si trovò a pensare che quell'ultima trovata sarebbe stata perfetta per trovare un buon numero di soldati da mettere nei battaglioni più a rischio. A quel modo avrebbe dato un'occasione di riscatto a dei criminali e non avrebbe messo in pericolo per primi dei cittadini onesti.

“E poi richiamerei in modo fermo Tiberti, che venga qui e combatta per te, una volta per tutte. E infine...” la voce di Giovanni si spense per qualche istante.

Non gli mancava il fiato, ma proprio la parola. Era come se l'ultima cosa che stava per dire fosse per lui molto difficile da esprimere.

L'uomo strinse le labbra, carnose e rosse come un tempo, ma screpolate e secche, e concluse: “E poi metterei me su un carro diretto a San Pietro in Bagno.”

La Tigre non capì subito che intendesse dire. Lo guardò per un momento e quando si rese conto che i suoi occhi chiari si erano fatti lucidi, scosse il capo.

“Io non ti mando da nessuna parte. Tu adesso resti qui con me, hai capito?” gli disse, quasi con aggressività.

“Voglio provare a curarmi – mentì il Medici, spostandosi un minimo sul lenzuolo, con una smorfia di dolore, mentre la pelle tesa delle gambe minacciava con quel piccolo movimento di spaccarsi ancora di più – non puoi impedirmelo.”

La Sforza ci ragionò. Il posto citato da Giovanni era almeno a mezza giornata di cavallo da lì. Non era lontano, ma nemmeno troppo vicino. E le cure termali, secondo lei, non erano la panacea di ogni male.

“Allora verrò da te un giorno sì e uno no.” disse, alzandosi dal letto, e cominciando a muovere qualche passo nervoso nel centro della camera.

“E allora a che servirebbe?!” sbottò il Medici, tirando fuori un tono di voce squillante che non aveva più avuto, dall'ultima crisi acuta di gotta.

Perfino Ludovico, che dormiva beato, si svegliò di colpo e accennò qualche verso di pianto, per poi tacitarsi all'istante quando giunse la replica di Caterina, la cui voce era comunque più alta e sonora di quella del marito: “Servirebbe a me!”

“Non è vero!” ribatté il fiorentino, senza riuscire più a gridare, e poi mise tutte le sue carte in tavola, confidando nell'intelligenza della Tigre: “Finché resto qui o finché tu vuoi starmi accanto, non puoi concentrarti sulla guerra, e questa volta, Caterina, se non segui da vicino la difesa, il nostro Stato verrà raso al suolo! Devi farlo per nostro figlio. E per te.”

La Contessa capiva anche troppo bene il ragionamento di suo marito e, vergognandosene, si trovò a dargli ragione. Se l'avesse saputo lontano, ma bene o male accudito da gente che lo sapeva fare, avrebbe avuto il tempo e la testa di dedicarsi meglio a tutta quella questione. E questa volta la guerra non era qualcosa di lontano o nebuloso. Stava arrivando alle porte delle sue città e lei non poteva farsi trovare impreparata.

“Finché mi avrai in questa rocca, non resisterai a passare tutto il giorno al mio capezzale, lo sai anche tu.” sussurrò il Medici, non riuscendo più a trattenere del tutto le lacrime: “Io voglio che tu faccia tutto il possibile per salvarti e per dare un futuro a nostro figlio. Devi farlo per me.”

La Sforza, in piedi in mezzo alla stanza, lo guardò senza dire nulla. La sua espressione era dura, quasi furente. Se non l'avesse conosciuta tanto bene da capire cosa si celava dietro quello sguardo, Giovanni avrebbe potuto pensare che fosse carico d'odio.

“E va bene.” bisbigliò la donna, quasi senza forze: “Faremo come dici tu.”

“Fami partire domani.” disse il Medici, atono: “Non sopporterei di aspettare un giorno di più.”

La Tigre deglutì a fatica, il poco che aveva mangiato a cena che le si rimescolava nello stomaco in modo spiacevole.

Conosceva bene quel tipo di nausea: era paura. Pura e semplice paura, di quella capace di togliere il fiato e il sonno.

“Come vuoi.” disse, senza aggiungere altro.

Ludovico si stava agitando nella culla, sembrava confuso e forse un po' spaventato, così il Popolano cercò di darsi un tono e con un sorriso stentato propose: “Perché non metti nostro figlio accanto a me, ti corichi con noi e mi leggi qualche novella? Ti ricordi le prime che abbiamo letto assieme?”

Caterina annuì e fece come il marito le chiedeva di fare. Solo che, quando si trovò stesa accanto a lui, osservandolo di quando in quando con qualche occhiata di sguincio, sentiva qualcosa morderle l'anima, e non voleva scoprire cosa fosse.

   
 
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