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Autore: Adeia Di Elferas    06/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gli occhi tondi e a mezz'asta di Paolo Vitelli scrutavano nella bruma dell'aurora l'orizzonte. Si rendeva conto di non essere stato pagato abbastanza per prendersi tanto incomodo, ma era un uomo d'onore e non sopportava certi affronti.

Era ancora fresco delle vittorie stupende e semplici che aveva riportato in Val di Calci e nella presa della fortezza di Verruca. E quei detestabili veneziani non gli avevano nemmeno dato il tempo di far riprendere le truppe, prima di colpirlo in modo ignobile.

Anche lui, a volte, si serviva dell'inganno, ma quella volta si sentiva proprio preso per i fondelli.

Era stata una leggerezza, indubbiamente, da parte sua dare ordine alle truppe di accamparsi vicino alla chiesa di San Michele, sulla Verruca. Però mai si sarebbe aspettato una tale insolenza dagli uomini della Serenissima.

Uscendo da Pisa all'improvviso, un contingente era piombato sul campo, che in quel momento era pressoché sguarnito, e aveva ucciso quasi tutti quelli che vi erano rimasti, portando chiaramente via armi e cibo.

Per punire il nemico, Paolo aveva ideato un piano perfetto. L'assedio a Vicopisano, che si era riacceso dopo alcune prese di posizione dei difensori, andava inasprito, e lo si doveva fare dalla parte di San Giovanni della Vena.

Questa volta, però, Vitelli non aveva alcuna intenzione nè di patteggiare – dato che poi era stato gabbato a quel modo dagli stessi che avevano promesso di non attaccarlo, in cambio di un momentaneo arresto dei suoi assalti – nè di sprecare soldati.

Passando la punta del piede sull'erba che stava un po' ingiallendo, forse più a causa del caldo torrido che non dell'avvicinarsi dell'autunno, il comandante osservò ancora con attenzione il falconetto posto sullo sperone di roccia.

Aveva fatto sistemare tutti i pezzi d'artiglieria, da quelli leggeri a quelli pesanti, in punti molto impervi e poco visibili dalla cinta muraria.

Avrebbe attaccato da dove nessuno poteva scorgerlo e l'avrebbe fatto di continuo, fino a prendere il nemico per sfinimento, o per fame o perché le sue dannate mura di recinzione erano crollate sotto i colpi dei suoi cannoni.

“Mio signore...” il suo attendente gli arrivò alle spalle, il fiato un po' grosso per la salita che aveva fatto per raggiungerlo: “C'è questo per voi.”

Il Vitelli prese il messaggio e come lo aprì riconobbe la cifra che usava il capo delle sue spie. Lesse in fretta la richiesta con cui il suo collaboratore voleva sapere se controllare o meno le eventuali vie di fuga secondarie del nemico.

“Rispondete di sì.” ordinò all'attendente, restituendogli la missiva: “E poi scrivete a mio fratello Vitellozzo. Che si prepari ad affiancarmi, che potrebbe essercene necessità.”

 

Simone se n'era andato la sera prima, non senza alzare la voce. Quando la Contessa lo aveva messo a parte della decisione di Giovanni di andare a San Pietro in Bagno per tentar una cura con le acque terapeutiche di quel posto, il Governatore non era riuscito a trattenersi e aveva dato in escandescenze.

Se l'era presa molto con la Sforza, dicendole che così facendo mandava a morire il Medici e che allontanarlo proprio quando aveva più bisogno di lei era una crudeltà.

Quando, però, aveva incrociato i suoi occhi, che si erano abbassati quasi subito, mentre dalle sue labbra usciva la breve ammissione: “Io non volevo, è stato lui a insistere.” Ridolfi si era sentito come spegnere.

Sapeva da sempre che Giovanni era un tipo risoluto, per quanto potesse apparire accomodante e dal tono dimesso con cui la Tigre aveva parlato, era chiaro che fosse stato davvero il Medici a imporle quella decisione.

A quel punto, il Governatore aveva cercato di farsi passare l'arrabbiatura e poi era andato un momento nella camera dell'amico, per congedarsi. Gli aveva detto solo che a Imola avevano bisogno di lui, ma che contava di rivederlo presto.

Il Medici l'aveva saluto in modo altrettanto ottimista, confidando nella sorte: “Ci rivedremo molto presto.” e Simone era tornato dalla Sforza.

Aveva preso da lei gli ultimi ordini con fare abbastanza docile, anche se i suoi occhi di quando in quando saettavano su di lei, come a rimproverarla di non aver impedito – con le buone o con le cattive – al Popolano di fare una scelta tanto rischiosa.

La Contessa aveva ribadito al Governatore l'importanza di trovare il maggior numero di soldati possibile e poi l'aveva lasciato partire.

Quella notte la donna non aveva trovato sonno, se non per una mezz'ora, e aveva trascorso il resto del tempo a rimuginare sulle parole di Ridolfi e su come lei fosse del tutto d'accordo con lui.

Non voleva lasciare partire suo marito, per nessun motivo. Però il Medici aveva l'occhio più lungo di lei e aveva capito che in quel momento era cruciale anche occuparsi dello Stato e, aveva ragione, con lui in quella condizione in casa, la Tigre non era capace di curare in modo adeguato gli affari bellici di Forlì e Imola.

Così, dopo quella lunga veglia, a mattina appena iniziata Caterina stava finendo di preparare il bagaglio del marito, mentre Giovanni restava in silenzio a fissare Ludovico che, coricato sul fianco accanto a lui, ricambiava lo sguardo con una serietà che quasi lo spaventava.

La Contessa aveva insistito molto per provvedere lei stessa a quell'incombenza anche perché, in quel modo, aveva potuto passare qualche momento in più da sola con il fiorentino e il figlio.

Tuttavia, appena si era messa a scegliere le poche cose da riporre nel bauletto da viaggio, la Sforza si era subito accorta di quanto fosse difficile, quel momento. Da un lato voleva convincersi che le cure termali avrebbero giovato al Popolano e che, magari, gli avrebbero permesso di ristabilirsi quel poco che bastava per poter tornare a Forlì con un briciolo di salute in più e non essere più considerato a rischio di morte. Dall'altro, invece, avvertiva un'ombra scura su quella decisione, e si sentiva quasi come se stesse per dirgli addio.

“Basta vestiti...” soffiò a un certo punto Giovanni, lanciandole uno sguardo e trovandola indecisa se aggiungere o meno un altro camicione al suo bagaglio: “Tanto lo sai che sono in questo stato per quasi tutto il tempo.”

L'uomo indossava appena una vestaglia da notte a cui aveva fatto togliere le maniche ed era coperto solo in parte da un sottile lenzuolo. Le ferite che si erano aperte sui tofi e non solo spurgavano spesso e il male che seguiva l'infiammazione era tale che il Medici non di rado chiedeva di non aver addosso nulla, perchè anche il contatto con il tessuto più sottile gli causava fastidio se non dolore.

Caterina rimise a posto i camicioni e, dopo aver messe nel baule anche un paio di libri – sulla presenza dei quali invece Giovanni non protestò – si andò a mettere accanto a lui: “Sei sicuro di volerlo fare?”

“Sì.” confermò l'uomo, le narici che si allargavano a ogni respiro, per aiutarlo a far fronte alla stanchezza dei suoi polmoni e del suo cuore.

“Va bene.” sussurrò lei, che non si era certo attesa di vederlo cambiare idea all'ultimo minuto.

“Mi raccomando, Caterina...” disse il Medici, che da quando si erano svegliati quella mattina all'alba non faceva che ricordarle di quando in quando qualche cosa a memoria futura: “Se Ottaviano Manfredi dovesse farti apertamente le sue proposte, non scartarle subito.”

“Quando lo farà, avremo modo di parlarne insieme.” lo tacitò lei, una mano che accarezzava assorta la fronte di Ludovico e gli occhi che fissavano il viso di Giovanni con una sorta di gravità che all'uomo piaceva poco.

“Dovremmo parlarne ora, invece...” insistette il Popolano, ma un bussare abbastanza sonoro alla porta lo zittì.

Pensando che la scorta del marito fosse già pronta – benché fosse troppo presto – Caterina andò a vedere chi fosse a reclamare la loro attenzione.

“Perdonatemi, mia signora...” disse una delle balie, con fare addolorato: “Ma non sono riuscita a trattenerlo... Voleva venire qui a tutti i costi...”

Alle spalle della donna stava Bernardino, il viso scurito da un'ombra di scontrosità e le mani nascoste dietro la schiena, come se fosse già in parte pentito della propria insistenza e temesse una sgridata.

“Perché volevi venire qui?” chiese la Tigre, guardando il figlio.

Il bambino sollevò gli occhi grandi verso di lei, con un velo di timore e sussurrò: “Voglio salutare messer Medici prima che parta.”

La Sforza strinse le labbra e stava già per dire che avrebbe avuto modo di farlo più tardi, assieme agli altri, quando sentì la voce del marito alle spalle dire: “Lascialo entrare...”

Congedando allora la balia, la Contessa permise al figlio di raggiungere il letto in cui stavano Giovanni e Ludovico e restò a osservarli, le braccia incrociate sul petto e la fronte corrugata.

Il bambino si appropinquò con un certo timore al capezzale del patrigno, e poi, deglutendo, si slanciò verso di lui, abbracciandolo.

Giovanni trattenne un gemito di dolore per la pressione improvvisa sulle sue giunture dolenti, ma bloccò con un solo sguardo la moglie, che stava già per riprendere aspramente il figlio.

Bernardino si era reso conto di aver fatto del male al fiorentino, così si ritrasse subito. Avrebbe compito otto anni nel giro di un paio di mesi, ma in quel momento sembrava molto più piccolo. Nel suo sguardo c'era tutta l'indifesa ingenuità della sua età e il modo in cui respirava veloce tradiva la sua tensione.

“Volevi salutarmi?” gli chiese retoricamente il Medici, cercando di toglierlo d'impiccio.

Il piccolo annuì e poi, dopo aver guardato di straforo la madre e averne incontrati gli occhi un po' distanti, confessò: “Mi mancherete anche questa volta.”

“Anche tu mi mancherai.” ricambiò il Popolano, il respiro che si faceva più difficile, come tutte le volte in cui provava a fare discorsi troppo lunghi o troppo impegnativi: “Ma devi promettere che farai il bravo e che aiuterai tua madre. Devi fare quello che ti dirà ed essere un bravo figlio. Sappi che mi scriverà ogni giorno per dirmi come ti comporti.”

Bernardino parve prendere molto sul serio quell'avvertimento, ma senza troppa paura. Le labbra del Medici si stavano aprendo in un sorriso un po' stentato e così anche quelle del giovane Feo si rilassarono.

Caterina fissava il marito e il figlio nato dall'amore con Giacomo senza sapere cosa pensare. Era chiaro che tra i due vi fosse una certa intesa e Bernardino era sinceramente molto attaccato al fiorentino, che, di fatto, era stato per lui una figura paterna abbastanza stabile e molto presente.

Anche se all'inizio era stata tentata di smorzare in fretta quell'incontro, più per poter avere più tempo con Giovanni che non per far torto a Bernardino, quando capì che entrambi ne stavano giovando, li lasciò fare.

Prese in braccio Ludovico, e poi attese con pazienza che il Popolano e il Feo si dicessero tutto quello che dovevano dirsi.

La faceva sentire molto strana, vedere il marito e il suo penultimo figlio così vicini. Da un lato c'era il suo amore presente, suo marito, l'uomo che era stato capace di raccoglierla da terra e sostenerla mentre cercava di rimettersi in piedi. Dall'altro il figlio nato dalla sua passione incontenibile per Giacomo.

Era come se nella stessa stanza due parti tra loro inconciliabili della vita di Caterina stessero cercando di convivere, e siccome a un certo punto quella sensazione di forzatura e confusione si fece per lei troppo pesante, la donna cercò di distrarsi concentrandosi sul figlio che teneva tra le braccia, ma anche in quel modo la stretta che aveva allo stomaco non la lasciava.

“Mi raccomando.” ribadì Giovanni, le iridi chiare in quelle più scure del figliastro: “Mi raccomando, ricordati quello che ti ho detto.”

Quando Bernardino decise di lasciare finalmente la stanza, salutò ancora una volta il Medici e poi fece un mezzo rigido inchino verso la madre.

“Stacci attenta.” sussurrò l'uomo, chiudendo un momento gli occhi, molto provato da quel lungo dialogo.

“A Bernardino?” chiese la moglie, tanto per prendere tempo, rimettendosi nel letto accanto a lui e riappoggiando sul cuscino Ludovico, che in tutto il tempo non aveva fatto altro se non osservarla e sfiorarle il viso con la piccola mano.

“Sì, a lui.” confermò Giovanni: “Rischia di perdersi. Ti assomiglia troppo. Non lo vedi?”

La Sforza lesse quell'inciso solo come una raccomandazione accorata, anche se nel profondo l'avvertì come una stoccata molto dolorosa. Si morse il labbro e poi deglutì, prima di riuscire a cambiare discorso.

“Forse dovrei accompagnarti di persona a San Pietro. In fondo, coi tempi che corrono, si rischia un'imboscata a metà strada e...” iniziò a dire, tormentandosi una mano nell'altra.

“No, non lo farai.” il tono del Medici in quei giorni si era fatto sempre più spesso perentorio.

A tratti pareva qualcuno che dettava le sue ultime volontà. Per la Tigre quella era un'altra pugnalata tra le coste.

“Ma...” provò a dire la donna, senza troppa enfasi.

“Se venissi con me in quel posto, poi non sarei capace di lasciarti andare.” spiegò il marito, guardando altrove, un velo di rossore che gli saliva dal collo, facendolo apparire ancora pieno di vita e sentimento, malgrado lo stato in cui verteva il suo corpo: “Cederei al bisogno che ho di averti vicina e allora sarebbe stato tutto inutile.”

Caterina respirò a fondo un paio di volte e alla fine annuì e toccò un'altra questione: “Vuoi che scriva a tuo fratello per dirgli che stai andando a San Pietro?”

Giovanni strinse i denti e rispose lapidario: “No.”

 

Paolo Vitelli si cavò l'elmo con il fiato corto e lo gettò in terra. Avevano vinto, anche quella volta, ma la furia del suo animo non si era ancora placata del tutto.

Per fortuna, si era detto, aveva una rete di spie personali degna di tal nome, altrimenti, con i miseri mezzi offerti da Firenze, non sarebbe riuscito a tagliare la fuga ai veneziani.

Appena dopo aver fatto cadere la città, le sue spie gli avevano riferito che circa duecento cavalleggeri e quattrocento fanti stavano lasciando la zona per andare verso il bastione di Pietra Dolorosa che lui stesso aveva fatto costruire per tenere sotto torchio Vicopisano, impedendo i rifornimenti alla città.

“Fratello...” Vitellozzo, lordo di sangue e polvere, gli andò incontro a braccia allargate.

In un mezzo abbraccio impedito dal ferro che si portavano addosso, i due Vitelli si congratularono l'un l'altro per la vittoria.

Avevano ucciso praticamente l'intera colonna nemica, riuscendo anche a catturare mezza dozzina di Capitani veneziani, risparmiati solo perché di qualche valore.

“Hai visto?” chiese Vitellozzo, indicando con il capo verso un nugolo di loro soldati che stavano mettendo le catene ai polsi di un comandante nemico: “Abbiamo preso perfino Giorgio Schiavo.”

Paolo avrebbe voluto più di qualsiasi altra cosa andare a togliersi l'armatura e tergersi il viso e il collo, ripulendoli dall'obbrobrio che la battaglia gli aveva incollato addosso, ma sapeva che aveva cose più importanti da fare.

Così, dedicando appena un suono di approvazione all'esclamazione del fratello, si rivolse subito a uno dei suoi secondi e ordinò: “Non salvate nemmeno un ferito. Dobbiamo muoverci rapidi.” e poi di nuovo al fratello: “Convoca subito un Consiglio di guerra. Dobbiamo decidere la prossima mossa. Non dobbiamo dare tempo ai veneziani di assorbire il colpo.”

Vitellozzo annuì e si mise subito a vociare, nella selva di cadaveri della Serenissima e soldati della Repubblica di Firenze che depredavano affannosamente i corpi di tutto quello che aveva anche il minimo valore, e chiamò a sè i vari comandanti.

Paolo, intanto, si mise a camminare lungo il perimetro del campo di battaglia, calpestando la terra rossa di sangue che solo fino a un paio d'ore prima era ancora verde di erba.

Lasciò il tempo al fratello di radunare tutti e poi li raggiunse nel punto tranquillo scelto da Vitellozzo.

Però, mentre lo stava per affiancare, uno dei suoi informatori gli arrivò accanto, il cavallo ancora coperto di sudore, probabilmente per una lunga e veloce cavalcata, e gli disse all'orecchio: “Mio signore, Bartolomeo d'Alviano si è unito a Guidobaldo da Montefeltro a Rezzano. Pare porti con sè fanti svizzeri e spagnoli comprati dal Fatuo con i soldi che è riuscito a portarsi appresso scappando da Firenze...”

Il viso di Paolo Vitelli si indurì come una pietra e, dopo aver fatto un cenno di assenso alla spia, andò a passo spedito verso gli altri comandanti: “Ci rimetteremo in marcia prima di domani. Voglio arrivare a Borgo San Marco con almeno trentacinque squadre. Quanti uomini possiamo raccogliere, tra tutti i nostri ausiliari al campo?”

“In tutto, oltre alle trentacinque squadre di armigeri – disse il suo attendente, che aveva sempre presente il computo preciso delle truppe – si possono schierare settemila fanti, seicento balestrieri e poco meno di tremila guastatori.”

Vitelli espirò sonoramente e poi, annuendo con secchezza, ordinò: “Partiamo entro un'ora. Voglio radunare l'esercito e marciare su Borgo San Marco. Preparate le vostre squadre.”

I vari comandanti, per quanto stanchi e acciaccati dalla battaglia appena terminata, accaldati dal sole violento di quel dieci settembre, non fiatarono e non osarono nemmeno chiedere dei tempi più elastici.

Uno dopo l'altro si affrettarono a recuperare i propri battaglioni tra i soldati che stavano ancora facendo sciacallaggio sui cadaveri degli sconfitti e in un'ora scarsa furono tutti pronti per rimettersi in marcia.

 

Caterina aveva predisposto in modo molto rigido che la scorta di Giovanni dovesse essere armata alla perfezione e composta da uomini di assoluta fiducia.

Così, quando finalmente fu tutto pronto per la partenza, ad attendere il malato nel cortiletto della rocca c'era un piccolo plotone che pareva più pronto per una battaglia decisiva che non per scortare il Medici fino a San Pietro in Bagno.

Il calessino in cui sarebbe stato caricato era tra i migliori che la Sforza avesse a sua disposizione e aveva fatto sì che il falegname di corte lo sistemasse a dovere, in modo che Giovanni potesse starvi coricato.

Dopo averlo portato fino di sotto, i soldati che avrebbero poi dovuto anche caricarlo sul calesse, tennero la branda di tela usata per trasportarlo con fermezza, stando immobili e così lasciarono un momento al Medici per salutare chi voleva, prima di uscire nel cortile.

“Ottaviano non c'è?” chiese il Popolano, in un sussurro alla moglie che gli stava proprio accanto.

“No, è fuori di pattuglia.” rispose la donna, che aveva accolto all'ultimo momento la richiesta del figlio che, vigliacco come sempre, aveva domandato il permesso di uscire con i soldati, pur di non affrontare quello che poteva essere un addio.

“Peccato...” soffiò Giovanni, prendendo aria a fatica.

Stare in quella branda era una tortura, ma era felice che i portantini si fossero fermati un momento prima di portarlo sul carretto. Almeno a quel modo aveva meno pubblico.

“Badate alla vostra salute.” fece il castellano, sentendosi di troppo, dato che, a parte gli infermieri improvvisati e la famiglia non c'era nessun altro.

Appena Cesare Feo uscì in cortile per lasciarli soli, Bernardino si avvicinò al fiorentino e gli bisbigliò: “Farò il bravo.”

Il Medici gli sorrise e poi guardò oltre le sue spalle, trovando Sforzino: “Resta sempre buono come sei ora.” gli disse.

L'undicenne fece traballare un po' le guance piene nell'annuire, e non trovò il coraggio di dire nulla, arrossendo e basta.

Cesare Riario, che se ne stava un po' in disparte, fece un segno della croce molto vistoso e poi si mise a borbottare qualche preghiera, fissando il Medici quasi fosse un Vescovo intento a benedire un moribondo.

Giovanni non lo biasimò e accettò quel suo modo discutibile di congedarsi da lui, passando a Bianca che, con in braccio Ludovico, lo guardava stando a una certa distanza.

Gli occhi blu scuro della giovane erano sul punto di lasciar scivolare una bella dose di lacrime e quindi il Popolano volle sbrigare in fretta quel saluto.

“Avvicinati.” le disse.

Bianca porse un momento Ludovico alla madre, che lo prese tra le braccia in silenzio, e andò accanto al Popolano.

“Stai vicina a tua madre.” gli sussurrò Giovanni, quando la ragazza mise l'orecchio a pochi centimetri dalle sue labbra screpolate: “E bada anche a mio figlio e tutti i tuoi fratelli. Mi fido di te.”

La Riario annuì e, trattenendo con difficoltà immane il pianto, si allontanò di nuovo e lasciò che fosse sua madre ad avvicinarsi, per porgere Ludovico al padre.

Il Medici guardò il figlio e, cedendo per la prima volta da che quella penosa trafila di saluti era iniziata, sentì le lacrime bagnargli le tempie e la gola stringersi.

Caterina, intuendo quello che il marito volesse fare, sostenne il piccolo che, tranquillo come un angelo, tra le sue mani, quasi si immobilizzò per permettere al fiorentino di dargli un lungo e lento bacio sulla guancia e poi distolse lo sguardo.

Capendo che Giovanni non avrebbe retto oltre, la Sforza ridiede Ludovico a Bianca e seguì il Popolano fuori, dando qualche indicazione agli uomini che lo trasportavano.

Con un po' di fatica lo caricarono nel carretto e l'uomo dovette stringere i denti per non gridare di dolore, quando lo posarono sul legno che, per quanto imbottito, non era certo un comodo giaciglio.

Caterina salì un momento sul calesse, e tirò le tende che, essendo sottili, permettevano a un po' di luce di entrare.

“Non è un addio.” soffiò il Medici, respirando affannosamente e tenendo gli occhi chiusi: “Lo so che ci rivedremo presto.”

La Tigre non sapeva se credergli o meno, ma voleva farlo. Così fece segno di sì con il capo e poi, stando attenta a non toccarlo troppo per non spostarlo e fargli dell'altro male, lo baciò sulle labbra.

Malgrado tutto, Giovanni rispose al suo bacio con entusiasmo, anche se per pochi istanti. Caterina si ritrasse e poi, accarezzandogli la fronte sospirò.

“Ci rivediamo presto.” gli disse e, dopo un ultimo scambio di sguardi, il fiorentino le fece capire che era tempo di dividersi.

Con il cuore che sanguinava, la Tigre scese dal calesse e richiuse lo sportello, dando subito ordine al cocchiere di partire.

Accompagnato da un drappello di cavalieri bardati di tutto punto, il calessino che portava Giovanni lasciò Ravaldino e dopo poco passò Porta San Pietro e si avviò in strada.

   
 
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