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Autore: Adeia Di Elferas    08/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina ci mise almeno mezz'ora, prima di sentirsi di nuovo padrona di sè. I suoi figli, compresa Bianca che teneva in braccio Ludovico, si erano dileguati non appena Giovanni aveva lasciato Ravaldino.

Del piccolo drappello che gli aveva porto quel mesto saluto, nel cortiletto era rimasta solo lei.

Si appoggiò un momento al bordo del pozzo e tirò un profondo respiro. Si passò quasi distrattamente una mano sulla fronte, trovandolo un po' calda. Da quando suo marito era tornato dal campo pisano, aveva badato molto poco alla propria salute, ma nonostante la sua noncuranza, pareva essere lo stesso in via di remissione.

Non aveva avuto più picchi febbrili preoccupanti e, malgrado tutto, tanto l'astenia quanto la sensazione di precarietà stavano affievolendosi.

Mentre sentiva la pietra calda scaldarle il palmo della mano con cui vi si era appoggiata, la Sforza si rese conto all'improvviso che Galeazzo non era andato come gli altri a salutare il Popolano.

Un po' preoccupata dalla sua assenza, la Contessa si ricordò anche di come nemmeno Giovanni l'avesse nominato, quando si era congedato da tutti gli altri. Quello poteva voler dire solo che il Medici sapeva che non si sarebbe presentato. Perché, malgrado le sue condizioni, il fiorentino era lucidissimo e pareva non sfuggirgli ancora nulla.

Con una certa titubanza, non sapendo se quello che stava facendo fosse giusto, la Leonessa cominciò a vagare per la rocca, cercando il suo figlio più promettente e ci mise quasi un'ora, prima di trovarlo.

Era chiuso nella stanza dei giochi, apparentemente attonito e immobile, seduto in modo rigido sulla sedia che di norma veniva occupata da una delle balie mentre i bambini più piccoli giocavano davanti al camino.

“Sei qui...” fece Caterina, non nascondendo troppo il suo sollievo.

Galeazzo sollevò lo sguardo verso di lei, ma poi lo distolse subito, prima di spiegare, atono: “Sì e messer Medici sapeva che non sarei venuto a...”

Non concluse la frase, lasciando che un sospiro spezzato lasciasse intendere il finale.

Sua madre lo fissò con attenzione. Quel ragazzino avrebbe fatto tredici anni a dicembre, ma in quel momento pareva molto più grande della sua età.

“Ci ho parlato ieri, mentre eravate a mangiare.” continuò, incrociando le braccia sul petto e sollevando un po' le sopracciglia: “Ho preferito farlo quando nessuno mi vedeva.”

L'orgoglio quasi ostinato che Galeazzo dimostrava strappò involontariamente un breve sorriso alla Contessa che, nel bene e nel male, riconosceva un tratto spiccato di sè stessa e anche di alcuni suoi familiari stretti.

“Se va bene per te e per Giovanni, va bene anche per me.” assicurò, dato che l'espressione assunta dal figlio le stava suggerendo che il ragazzino si aspettasse un rimprovero.

“Credete che tornerà?” chiese il Riario, mentre la madre, dopo un ultimo sguardo al suo erede designato, tornava verso la porta per lasciarlo in pace.

“Io credo che adesso dobbiamo pensare alla guerra.” ribatté, senza voltarsi più verso di lui: “Perché se Giovanni ha deciso di allontanarsi, l'ha fatto solo per permetterci di ragionare in modo più lucido, quindi glielo dobbiamo.”

Galeazzo la scrutò, mentre usciva e, dopo qualche respiro molto fondo, si tirò su e raddrizzò le spalle.

Ritornò con la mente alle poche parole che lui e il Medici si erano scambiati il giorno prima e diede ragione alla madre. Il fiorentino aveva fatto quanto in suo potere per permettere a tutti loro di avere n unico solido obiettivo. Dovevano impegnarsi e dovevano farlo anche per lui.

Così, lasciata la sala dei giochi, Galeazzo cercò la madre e la trovò, fortunatamente, ancora nel corridoio.

“Madre...” la chiamò, facendola fermare subito.

La Sforza si accigliò, con fare interrogativo e attese che il figlio parlasse.

“Vorrei esservi d'aiuto, se posso.” si propose il ragazzo: “Se vi fidate di me, sappiate che potete contare sul mio appoggio.”

La Tigre gli sorrise e, colmando con un paio di passi la distanza tra loro, gli posò una mano sulla spalla e gli assicurò: “Conto molto, sul tuo appoggio.”

Detto ciò, i due rimasero per qualche istante in silenzio, incapaci di andare oltre, ma entrambi consapevoli di aver di fronte qualcuno in grado di capire quanto quelle poche parole fossero importanti.

“Corri ad addestrarti. Avrò bisogno di uomini forti, quando le cose si metteranno male.” fece alla fine la donna, dando un'ultima stretta alla sua spalla e lasciandolo andare.

 

“Certo che è notizia sicura.” confermò Antonio Maria Ordelaffi, pulendosi con l'unghia del mignolo lo spazio tra due incisivi, in cui era rimasto un pezzetto di carne: “Le mie spie sono ben pagate e hanno visto distintamente un calessino lasciare Forlì con una scorta armata come un contingente d'assalto.”

Pandolfo non disse nulla. Il naso lungo e dritto era ammorbato dagli odori dolciastri delle pietanze che aveva fatto preparare il suo ospite e nel suo stomaco non ci stava più nemmeno un sorso di vino.

Aveva lascato Ravenna solo dopo aver sedato l'ultimo tafferuglio, e se n'era andato in Val di Lamone a conferire con l'Ordelaffi sul da farsi, lasciandosi alle spalle sua moglie con il pancione e l'espressione vuota e una serie di Consiglieri adirati con lui per le ingerenze che il Doge non smetteva di imporre al suo Stato.

E tutto per sentirsi dire da un borioso trentottenne che la guerra sarebbe presto finita e che quindi non era il caso di mettere a punto piani d'attacco.

In più, sosteneva Antonio Maria, da Forlì era partito un misterioso calesse che, a detta di certi, trasportava denaro diretto a Firenze, mentre, a detta di molti altri, il povero Giovanni Medici, caduto vittima – così si raccontava – o del veleno propinatogli dalla moglie, o degli eccessi nel bere e nel mangiare che di certo aveva fatto alla corte della Contessa Sforza Riario.

“Anche se fosse come dite...” fece alla fine il Malatesta, spostandosi una ciocca di unti capelli neri da davanti agli occhi: “Non vedo cosa cambi. Anzi... Se dovesse morirle quest'uomo, sono pronto a scommettere che la Tigre si incattivirebbe ancora di più...”

L'Ordelaffi spalancò gli occhi, come colpito da quell'ipotesi, esattamente come se non l'avesse minimamente presa in considerazione.

Agitando una mano in aria, chiamando uno dei servi che aveva conquistato assieme a quel palazzotto – tanto dimesso quanto pacchiano – borbottò: “Ma che diamine... È pur sempre solo di una donna che stiamo parlando... Avrà anche uno Stato e un esercito, ma è chiaro che non saprà come usarli.”

Il Pandolfaccio guardò con riconoscenza il servo che portava via il vassoio di carne condita con miele, e poi si soffermò ancora un secondo sul viso dell'altro, reso un po' rubizzo dal vino.

Si chiese come potesse quell'uomo, già scottato una volta dalla Sforza, se non ricordava male, sottovalutare tanto una belva feroce come la donna che era stata in grado di sopravvivere e in modo egregio già a due mariti, e presto – con ogni probabilità – anche al terzo.

 

Senza perdere tempo, Caterina aveva subito ripreso in mano la situazione, rendendosi conto che la sua assenza – più mentale che non fisica – fosse pesata molto all'organizzazione delle difese.

Per quanto avesse validi collaboratori, nessuno di loro era riuscito a mantenere una sufficiente visione d'insieme e così, fino a sera inoltrata, la Sforza era stata impegnata nel sistemare tutto quello che poteva, facendo anche una rassegna il più possibile dettagliata della armi, delle munizioni e, non meno importanti, delle provviste.

Era arrivata al calare del sole tanto stremata da non voler vedere nessuno, a cena. Così, dopo aver dato un'ultima controllata dai camminamenti, si era rintanata in una stanza poco usata della rocca e si era fatta portare da mangiare e del vino.

Aveva subito attaccato con voracità la carne arrosto, badando bene, però, di non bere troppo. Anche se aveva bisogno di distendere i nervi, voleva restare il più possibile lucida, in modo da essere in grado di far fronte a qualsiasi evenienza e all'arrivo di qualsiasi notizia.

Stava staccando un altro pezzo al cosciotto caldo che aveva dinnanzi, quando la sua mente corse a Giovanni. Era improbabile che fosse già arrivato a destinazione. Per arrivare a San Pietro ci voleva mezza giornata, a cavallo, ma con un carro le cose si facevano molto più lunghe.

Aveva voluto fornirgli una scorta d'eccellenza soprattutto per permettergli di viaggiare sicuro anche con il buio. Anche se il tragitto sarebbe stata per lui una tortura, almeno sarebbe stato protetto in caso di agguati.

Il sapore del vino e anche quello dell'arrosto si stavano facendo un po' amari, nella bocca della Leonessa, mentre si ricordava di come lei e il marito si erano salutati quel giorno, ma la sua determinazione le permise di accantonare quei pensieri e tornare a ragionare sul da farsi.

Attendeva che arrivassero i soldati del Gonzaga e aveva chiesto a Ridolfi di scriverle il prima possibile per sapere quanti soldati stesse reclutando e altrettanto aveva chiesto di fare a suo fratello Piero Landriani, che alla rocca di Forlimpopoli aveva organizzato un banco di arruolamento molto proficuo, dal quale giungevano di continuo nuove reclute.

In più aveva convocato Achille Tiberti, facendogli presente quanto fosse necessario che giungesse a Ravaldino il prima possibile, in modo da discutere approfonditamente la sua posizione.

Si stava grattando pensierosa la fronte, quando sentì bussare alla porta e disse subito di entrare, senza nemmeno domandare di chi si trattasse.

“Mia signora...” il viso di Cesare Feo, molto stanco e provato da una giornata che non era stata facile nemmeno per lui, fece capolino sull'uscio: “Fuori dalle porte della città c'è un drappello di uomini comandati da Gaspare Sanseverino. Dice che è mandato dal Duca di Milano e che deve parlarvi.”

Caterina si appoggiò allo schienale della sedia e, battendo le palpebre alla luce delle candele, assunse un'espressione indecifrabile.

Alla fine, con voce calma e fin troppo rilassata, per uscire dalle sue labbra, disse: “Fatelo entrare in città, ma da solo. Disarmatelo prima di lasciarlo entrare alla rocca. E poi portatemelo qui.”

Il castellano annuì e uscì di nuovo, chiudendosi con delicatezza la porta alle spalle.

Rimasta sola, la Sforza sentì lo stomaco chiudersi. Guardò il vassoio che aveva davanti, ma non riusciva più a buttar giù nemmeno un morso di carne. Provò con il vino, ma il sorso le restò a metà gola.

Allontanando un po' da sè il companatico, la donna si chiese come mai si sentisse tanto agitata. Il Fracassa era un uomo del Moro, però il modo in cui si era presentato a Forlì forse stava a indicare un'apertura da parte di Ludovico...

In realtà la Sforza sapeva benissimo perché il nome di Gaspare Sanseverino l'aveva messa in quello stato di agitazione. Fracassa era stato tra i comandanti che avevano guidato il sacco di Mordano. Era uno degli uomini che aveva permesso lo scempio delle donne nella chiesa. Era uno di quelli che Caterina aveva giurato di ammazzare con le sue stesse mani, se mai ne avesse avuta l'occasione.

Ma non poteva prendere una decisione tanto avventata. Non adesso che sulle sue spalle pesava la responsabilità di centinaia e centinaia di vite. Se per vendicare i mordanesi avesse dovuto condannare a morte tutti i suoi sudditi, bruciandosi l'alleanza di Milano per una questione personale, allora avrebbe fallito sia come donna sia come Contessa.

Mordendosi l'unghia del pollice, la Tigre si alzò dalla scrivania che aveva adibito a tavola per la cena e si mise a camminare a passi lunghi e distesi, attendendo con ansia crescente l'arrivo del suo ospite.

 

Simone scosse il capo, non badando allo sguardo ammonitore del cognato. Perfino sua moglie sembrava d'accordo con lui, quindi per il Governatore non c'era altro da fare.

“Se lo farete, sarà come tradirla e lei non ve lo perdonerà.” fece mesto Tommaso, seduto in poltrona con lo sguardo fisso e scuro di un corvo.

Il fratello di Lucrezia era da qualche giorno in pianta stabile al palazzo, perché l'agitazione del momento imponeva la sua presenza a Imola. Era stato lo stesso Ridolfi, in cerca di sostegno, a chiedergli di non tornare al Bosco e di restare con lui e aiutarlo a portare a termine i compiti imposti dalla Tigre.

Tuttavia, quella sera, avrebbe tanto voluto dargli un foglio di via e obbligarlo ad andarsene da casa sua.

Tutta la questione stava nel fatto che Simone aveva espresso il volere di scrivere a Lorenzo Medici, o anche solo a Semiramide, per mettere i parenti di Giovanni al corrente di quanto stava accadendo.

Non trovava giusto che non sapessero che il Popolano era partito per San Pietro e credeva fosse necessario spiegare loro in che condizioni verteva la sua salute. Inoltre, non secondario, si era messo in testa che, sapendolo tanto grave, Lorenzo avrebbe fatto ammenda e avrebbe finalmente abbassato le armi, concedendo alla Tigre una possibilità di essere davvero accolta in famiglia.

“Secondo me Simone ha ragione.” tagliò corto Lucrezia, il lunghi capelli neri sciolti sulle spalle e la sua solita espressione a metà strada tra il languido e l'aggressivo che conferiva al suo viso una luce tutta particolare, anche se illuminata appena da un paio di candele.

“Io conosco la Contessa molto meglio di voi.” li mise in guardia Tommaso, dedicando alla sorella un'occhiataccia che riassumeva anni di mal sopportazione nei suoi confronti: “E vi posso assicurare che se lo verrà a sapere non farà finta di nulla.”

“Non lo verrà a sapere, se non glielo direte voi.” fece notare Ridolfi, l'unico in piedi, le larghe spalle un po' curve e i capelli lunghi e rossicci spettinati: “Se però vorrete farmi questo torto...”

“In rispetto a mia sorella – fece allora Tommaso, alzandosi con uno sbuffo – non dirò nulla a nessuno. Non voglio che Lucrezia resti vedova prima del tempo.”

Mentre il Feo se ne andava, diretto alla sua camera provvisoria, Simone e la moglie si guardarono per un momento. Entrambi si stavano chiedendo se quelle parole fossero esagerate o frutto di un ragionamento sensato.

“Hai ragione tu, Simone, inutile far finta che non sia così.” decretò infine Lucrezia, alzandosi e avvicinandosi al Governatore, prendendo una mano tra le sue: “Sei un uomo migliore di tanti e sai che è giusto che Lorenzo sappia che suo fratello sta morendo.”

Ridolfi annuì e poi, dopo aver stretto a sè la moglie per qualche istante, decretò: “Vieni con me in camera. Aiutami a scrivere questa maledetta lettera...”

 

“Contessa...” Gaspare Sanseverino, spoglio da tutte le armi e senza nemmeno la berretta in testa, si esibì in un profondo inchino e per una manciata di secondi il suo volto restò coperto dalla zazzera di capelli rossicci che lo incastonava.

“Perché siete qui?” chiese Caterina, porgendogli una mano in modo che potesse baciargliela come si conveniva che un gentiluomo facesse con una gentildonna.

Fracassa, sinceramente sorpreso da quell'implicita richiesta, prese la mano della Tigre con la propria e rimase molto colpito dalla sua pelle liscia. La sapeva una donna d'armi, dunque si era atteso di trovare calli e piccoli tagli e non quella perfezione.

Lentamente, dopo averne sfiorato il dorso con le labbra, sollevò lo sguardo fino a incontrare quello della Leonessa.

Gaspare ricordava molto bene la Sforza. L'ultima volta che l'aveva vista era stato anni addietro, quando quella strana donna aveva accolto lui e tutti i comandanti che militavano per Carlo VIII nella sua dimora, come una Tigre che chiama nella sua tana dei leoni, per mostrare loro di non averne paura e, al contempo, di non essere poi così pericolosa.

Tuttavia, quando osò guardarla con più attenzione, la trovò molto cambiata. Non era passata poi un'eternità, da quando l'aveva vista entrare nella sala dei banchetti di Ravaldino con addosso un abito semplice, che però valorizzava il suo corpo formoso, praticamente senza alcun gioiello addosso e con una freschezza che le toglieva in un colpo almeno dieci anni.

Ora, invece, si trovava di fronte un'altra donna. Sempre bellissima, su quello non poteva trovare nulla di cui lamentarsi, ma dal viso molto più segnato, dai capelli imbiancati e con qualche ornamento d'oro di troppo, in particolare un piccolo nodo nuziale che non sfuggì agli occhi del Fracassa, andando ad azzerare in un colpo tutti i dubbi che perfino il Moro pareva avere ancora.

Nemmeno quando l'aveva vista la notte in cui i francesi e la Contessa si erano formalmente riappacificati, la Sforza portava un simile anello. Nemmeno, dunque, per il suo Barone Feo aveva osato tanto. E invece per un Medici...

“Allora – ripeté la milanese, ritraendo la mano e facendogli segno di seguirla al tavolo, dove c'era ancora qualcosa da mangiare e da bere – volete dirmi perché mai siete qui?”

Il Sanseverino si riscosse e annuì, seguendola fino alla sedia che gli venne offerta e cominciò a spiegare cosa lo avesse portato fino a Forlì.

Caterina ascoltò tutto con molta attenzione. Non riusciva a capire fino a che punto le richieste di suo zio fossero dettate dall'opportunismo e quanto dalla disperazione.

“Quindi, per farla breve...” riassunse alla fine, mentre il Fracassa, su suo invito, ingurgitava quel che restava dello stufato: “Se io riuscissi a fornire almeno quattromila uomini da incorporare all'esercito del Duca qui in Romagna, lui mi manderebbe tutte le colonne armate che voglio e mi darebbe carta bianca.”

“Sì.” confermò Gaspare, annuendo con decisione: “Io e i miei fratelli abbiamo ordine di fare tutto quello che ci direte.”

La Leonessa si prese un lungo momento per pensare. Aveva approfittato già una volta dell'apparente generosità di suo zio e, bene o male, era riuscita ad arrivare fino a quel giorno senza mai doversi sdebitare davvero.

“Prima voglio vedere i soldati che avete con voi.” concluse infine Caterina, pensando che fosse meglio mostrarsi cauta.

Fracassa deglutì e per un istante i suoi occhi si tennero fissi su quelli verdi della sua interlocutrice.

Poi, mentre i suoi zigomi sporgenti e alti si colorivano appena, l'uomo sollevò una spalla, tornando a guardare la carne: “Si vi fa stare più tranquilla...”

Discussero ancora per qualche tempo circa la guerra e si confrontarono sulle rispettive posizioni, senza mai rivangare il passato benché entrambi, man mano che la conversazione andava avanti, si trovarono a ricostruire quello che era stato Mordano e, più in generale, la discesa dei francesi nelle terre della Sforza.

“Allora domani mattina all'alba.” disse all'ultimo Caterina, alzandosi dal suo scranno e accompagnando fuori il Fracassa.

“Alloggerò qui in paese.” fece presente Gaspare: “E domattina verrò qui per scortarvi fino al mio accampamento.”

La Contessa si disse di nuovo d'accordo e poi lo accompagnò fino al portone della rocca. Quando stava per salutarlo in via definitiva, però, sentì il bisogno di fare una brevissima aggiunta.

Afferrandolo con una certa rapidità e fermezza per la manica, lo costrinse a fissarla in viso, alla luce tremula della torcia a muro: “Sappiate che comunque non ve la perdonerò mai.”

“Che cosa?” domandò il Sanseverino, apparentemente calmo, benché avesse intuito che il sacco di Mordano fosse l'oggetto della questione.

“Lo sapete benissimo.” confermò la Tigre, immaginando i pensieri del Fracassa.

Questi si trovò a ricordare come non avesse apprezzato i metodi dell'Aubigny e a come, però, non vi si fosse realmente opposto, così, con un vago senso di vergogna, fece un sorriso simile a una smorfia e sussurrò: “Che volete... È la guerra.”

“Anche la guerra ha delle regole.” fece presente la Leonessa, lasciandolo di scatto.

Gaspare si sistemò con uno strattone il giaccotto e poi, con un sospiro affettato cantilenò: “Così dicono che dovrebbe essere...” poi si sfiorò la fronte con le dita, come se si toccasse una berretta immaginaria e si congedò: “Contessa...”

La donna lo seguì con lo sguardo mentre si immergeva nel buio e quando lo vide sparire sotto alla statua di Giacomo, avvertì uno strano soffio di freddo pizzicarle il collo.

Senza voler indugiare oltre sul portone, girò i tacchi e se ne tornò nelle viscere della rocca. Aveva ancora molte cose su cui ragionare, prima di potersi riposare.

 

Isabella aprì con un colpo secco del tagliacarte la missiva che le era stata recapitata un paio d'ore prima. Era di suo marito Francesco e tanto le era bastato per lasciare attendere quella lettera così tanto, prima di degnarla della sua attenzione.

Forse era un atteggiamento sciocco, da parte sua, ma era più forte di lei. In più, quel giorno, le zanzare non le avevano dato un attimo di tregua e la stanchezza per il breve viaggio di ritorno da Ferrara l'aveva stremata. Era di pessimo umore, poi, anche perché aveva iniziato a pensare di farsi fare un ritratto dal maestro Leonardo, che viveva alla corte del Duca di Milano, ma questi le aveva risposto già dicendole abbastanza a chiare lettere che non aveva alcuna intenzione di farlo.

Con il sangue che ancora ribolliva di indignazione, la donna lesse in fretta quello che suo marito le aveva scritto e ignorò volutamente le ultime parole, con le quali l'uomo si affidava al suo perdono e al suo amore disinteressato.

Quello che le importava, in quel momento, era quanto il Marchese aveva scritto nelle primissime righe del suo messaggio. Da un lato l'avvisava di aver concesso una settantina di balestrieri a cavallo alla Tigre di Forlì e appena sotto sosteneva di essere pronto a far rivalutare il suo caso alla Serenissima.

L'Este si morse il labbro e poi allungò una mano verso il pezzo di torta di biscotto che aveva sulla scrivania. Da quando si era allontanata da suo marito, il cibo stava diventando una delle sue maggiori distrazioni e, in barba a tutte le critiche più o meno velate che le venivano fatte circa la sua forma fisica, la donna non riusciva a trattenersi, soprattutto quando si innervosiva a quel modo.

Avrebbe voluto vedere il marito annegare nella propria confusione. Avrebbe tanto, ma tanto voluto vederlo schiacciato dalla propria incapacità diplomatica. Avrebbe con tutta se stessa voluto sentirlo mentre invocava il suo aiuto senza ottenerlo.

Appoggiò quel che restava del rettangolino di torta al vassoio e ripiegò con cura la lettera, chiudendo un istante gli occhi, con gravità.

Prese il necessario per scrivere e, alla luce della candela che teneva sulla scrivania, si adoperò per cercare le parole giuste per corrompere chi di dovere a Venezia.

Avrebbe voluto far patire Francesco, ripagarlo con la stessa moneta che lui tante volte le aveva rifilato, infierire su di lui e ridere della sua disfatta. Ma c'era un'altra cosa che voleva di più: fare grande il Marchesato.

E per riuscirci, non solo doveva cercare di tenere in vita suo marito, ma anche di sostenerlo e farlo riemergere dal pantano in cui si era conficcato da solo.

Mentre scriveva, la mano che correva rapida sul foglio, Isabella scosse il capo, una ciocca di capelli rossi che scivolava fuori dalla reticella, e sussurrò: “E poi ti amo ancora, malgrado tutto...”

 

Giovanni aprì con difficoltà gli occhi e scorse appena la luce fioca di un paio di candele. L'odore di quella stanza gli era sconosciuto. Sapeva di erbe aromatiche e forse, pensò, qualcuno aveva anche bruciato dell'incenso, prima che lui vi arrivasse.

Aveva coscienza di essere arrivato a destinazione, ma la sua mente collaborava poco. Era rimasto molto intontito dal viaggio che, per quanto discretamente veloce, si era rivelato un Calvario.

Più o meno a metà strada, o così credeva, aveva perso conoscenza e si era risvegliato solo vicino alle porte del paese, salvo poi svenire nuovamente e riprendersi con fatica una volta giunto nella sua nuova camera.

Sentiva qualcuno borbottare, poco lontano da lui e non gli fu difficile immaginare che si trattasse degli uomini della sua scorta e di quelli che se l'erano accollato per quel presunto ricovero curativo.

Serrò di nuovo gli occhi, sforzandosi di isolarsi dai dolori che gli tormentavano il corpo, ma, più ci provava, più i tormenti della mente si facevano vivi e presenti.

Solo l'immagine di sua moglie pareva dargli qualche conforto. E così, mentre sentiva che ancora lo spostavano, quasi per certo per cambiarlo e dargli una ripulita dopo quel lungo viaggio, si rinchiuse in una sorta di fortezza in cui l'unica cosa che esisteva era il ricordo di Caterina e del tempo che avevano passato assieme.

“Voi capite... Voi capite...” bisbigliò Gherardo Gambacorti, guardando alternativamente l'uomo della scorta che faceva da portavoce della Sforza e il Medici che languiva sul letto, mentre le suore lo rigiravano come un morto per togliergli gli abiti sporchi e spalmarlo di unguenti benefici: “La mia posizione non è...”

“Siccome è la Contessa Riario Sforza a pagarvi per la vostra ospitalità – fece presente il soldato, guardando con fermezza il signore di San Pietro in Bagno – ci aspettiamo che dobbiate a lei la vostra lealtà.”

“Certo, certo...” fece l'uomo, deglutendo a fatica, e poi tornando a fissare il Popolano come se ne avesse paura.

“Vi attendo di là per darvi le ultime disposizioni.” concluse il soldato.

Gherardo annuì e poi rimase qualche istante ancora a controllare l'operato delle suore che prestavano pio servizio alle terme, prendendosi cura dei pazienti più gravi.

Il fiorentino era privo di sensi e non sembrava rispondere nemmeno al dolore che di certo quelle donne gli stavano procurando, nello spostarlo a quel modo. Gambacorti indugiò più del dovuto sulle sue articolazioni gonfie e a tratti coperte da pelle edematosa o addirittura spaccata. Lo vide gonfio e dal respiro affannoso.

Non sopportando più quello spettacolo, si fece il segno della croce e decise di raggiungere il soldato della Sforza, che doveva dargli le 'ultime disposizioni' circa il soggiorno di messer Medici.

'Ma con tutti i posti che ci sono al mondo, perché proprio qui...' pensò amaramente, mentre usciva dalla stanza e, nel buio della notte, rischiarato solo dalla luce della luna che filtrava dalle ampie finestre del corridoio e da qualche piccolo candelotto, tornò a respirare, lasciandosi alle spalle il tanfo di incenso e di malato che appestava la stanza del Popolano: 'Perché proprio qui a casa mia, doveva venire a morire...'.

   
 
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