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Autore: Adeia Di Elferas    11/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Come da accordi, quella mattina Caterina si preparò di buon'ora, si volle mettere vestiti comodi e indossarvi anche una leggera cotta di maglia sotto.

Malgrado tutto, si fidava abbastanza del Fracassa, ma seguirlo fuori città – anche se scortata da alcuni uomini a lei leali – non la faceva stare del tutto tranquilla. Per come conosceva suo zio, poteva trattarsi anche di un'imboscata.

Aveva voluto dare un po' di importanza a Galeazzo, prima di lasciare Ravaldino. Quel figlio era, tra tutti, quello che lei riusciva a capire di più e non aveva cambiato idea circa il suo futuro: se fosse riuscita a preservare lo Stato abbastanza, avrebbe trovato il modo di lasciarlo a lui.

Così, con le redini già in mano, prima di montare in sella si era rivolta a lui che, assieme ad altri soldati, stava aspettando di vederla uscire dalla rocca, la Contessa si era rivolta al figlio e gli aveva detto: “Mi raccomando, Galeazzo. Ravaldino e la città sono sotto il tuo controllo, mentre sono via.”

Il ragazzino aveva subito chinato il capo, nascondendo a stento l'orgoglio e la tensione che quell'incarico – per quanto abbastanza fittizio – gli avevano messo in corpo.

Contenta di vederlo così pronto, la donna diede le ultime indicazioni al castellano e al suo cancelliere e, con una certa discrezione, uscì dalla rocca, e poi dai confini cittadini assieme al Sanseverino e a qualche Capitano da lei scelto ad hoc per l'occasione.

Le truppe del comandante milanese erano stanziate poco lontano dai monti e, lungo il breve tragitto, la Sforza poté fare all'uomo tutte le domande che voleva. Chiese di preciso quanto soldati avesse al momento a disposizione e quanti pezzi di artiglieria.

Luffo Numai le aveva fatto presente che nella zona di Modigliana e di Castrocaro le truppe veneziane non perdevano occasione per infastidire i civili e che Ottaviano, con le sue squadre di cavalieri fatti tornare in fretta e furia da Pisa, non faceva altro che fingere di rincorrere le scorribande, trovandosi in realtà sempre a debita distanza dai tafferugli.

La Tigre era rimasta molto infastidita da quella notizia, anche perché Corradini – rimasto con le poche truppe disponibili al servizio di Paolo Vitelli – le aveva già scritto pregandola di inviare nuovi soldati, se non voleva ridurre a zero l'impatto forlivese sulla campagna, agli occhi della Signoria.

Così, si diceva Caterina, mentre ascoltava il preciso resoconto del Sanseverino, se davvero il Moro le lasciava diritto di decisione sulle mosse di quelle truppe, avrebbe potuto benissimo disimpegnare suo figlio e i cavalieri e utilizzare l'esercito di Milano per vigilare in modo efficiente sui confini.

“E presto – concluse il Fracassa, mentre arrivava sul limitare del campo – anche Giovanni da Casale arriverà qui e sarà al vostro servizio. Sta rientrando or ora dall'ascolano. Ha aiutato Fermo.”

La donna annuì e poi, occhieggiando verso i soldati che, alla vista del loro comandante si stavano mettendo in riga, chiese: “E gli uomini di vostro fratello Giovan Francesco?”

Era stato Gaspare stesso a nominarli, dicendo che l'altro Sanseverino era ancora nel parmense, ma che, non appena lei avesse accettato quella proposta, sarebbe arrivato immediatamente in Romagna per darle aiuto.

“Trecentocinquanta armigeri.” confermò il Fracassa, cominciando a passare in rassegna i suoi: “E saranno tutti al vostro completo servizio.”

A quel punto la Leonessa lasciò che l'altro le mostrasse tutto quello che il campo poteva offrire e, mentre passavano in rassegna i soldati, la donna iniziò a fare due conti.

La mattina era a metà, quando Caterina si rese conto che forse sarebbe stato il caso di tornare alla rocca. Temeva come non mai che giungesse a Ravaldino qualche messaggio importante da parte di suo marito e anche se aveva lasciato detto di mandarla a cercare subito, in quel caso, non si sentiva tranquilla.

“Volete già andare?” chiese allora Gaspare, grattandosi la fronte un po' sudata, non appena le ebbe mostrato le provviste alimentari che avrebbero potuto sfamare i suoi uomini per settimane.

“Sì. Vi farò avere la mia risposta in merito alla vostra offerta prima di stanotte.” confermò la donna, ma quando stava per dare ordine ai suoi Capitani di farle strada verso la via del ritorno, in lontananza vide sollevarsi un polverone.

Da nord stava arrivando quella che sembrava una colonna di soldati e anche in lontananza, la Tigre riconobbe lo stemma della sua città: Milano.

“Doveva aspettare il mio via libera...” sbuffò il Fracassa, che doveva aver riconosciuto subito l'uomo che cavalcava alla testa della colonna.

“Chi è?” chiese Caterina, strizzando gli occhi contro il sole caldo di settembre.

“Giovanni Pirovano.” spiegò il Sanseverino, dando una voce a uno dei suoi per dirgli di andare incontro al nuovo arrivato, e poi ritornò a rivolgersi alla Contessa: “Noto come Giovanni da Casale... Si fa chiamare così per darsi importanza, ma tutti sanno che è nato in una bettola.”

La Sforza, che fino a quel momento era stata decisa a lasciare in fretta il campo, cambiò idea: voleva vedere questo Pirovano di cui Gaspare le aveva parlato anche in precedenza.

Attese con pazienza, sempre in sella al suo stallone, che il soldato si avvicinasse. Il terreno secco veniva battuto dagli zoccoli del suo cavallo da guerra e si sollevava una foschia polverosa che lo rese difficile da distinguere fino a che non fu a pochi metri da loro.

A prima vista, Giovanni da Casale non sembrava arrivare ai venticinque anni. Aveva spalle larghe e un fisico slanciato. I suoi occhi, scuri e seri, si posarono prima sul Sanseverino e poi sulla Tigre.

“Fracassa.” disse, tenendo le redini con una mano e facendo un cenno a Gaspare, e poi si rivolse a Caterina: “Mia signora.”

“Questa è la Contessa Sforza di Forlì.” spiegò il Sanseverino, che trovava un po' irritante il modo sempre altero con cui quel giovane uomo si presentava a chi non conosceva.

Pirovano allora, che già aveva immaginato che quella donna con la spada al fianco potesse essere la Leonessa di Romagna, smontò di sella e con un paio di ampie falcate, la raggiunse e si fece porgere la mano per baciarla.

Sorpresa da quell'atteggiamento tutt'altro che militare, Caterina lo lasciò fare e poi, ritraendo in fretta il dorso dalle sue labbra, decise repentinamente di fare quello che voleva fare già prima dell'arrivo di Giovanni da Casale: “Come vi ho detto – fece, rivolgendosi a Fracassa – vi farò avere la mia risposta. A Ravaldino!” concluse, dando ordine ai suoi Capitani e facendo voltare in fretta lo stallone, tanto che per poco non travolse Pirovano.

“Avanti.” fece Gaspare, dando una pacca sulla a Giovanni: “Venite nel mio padiglione. Dobbiamo discutere il da farsi...”

“Credete che la Tigre ci vorrà come alleati?” chiese l'altro, seguendo il suo superiore.

Sanseverino ci pensò su. La Sforza gli era parsa in bilico per tutta la mattina. Tuttavia, gli ultimi minuti della sua visita al campo gli facevano credere che la donna avrebbe passato una giornata d'inferno, per poi accettare.

“Credo di sì.” concluse il Fracassa, abbandonandosi a una breve risata: “E scommetto che vi vorrà tenere molto vicino a Forlì...”

Giovanni da Casale si accigliò, ma, fedele al suo modo rigido di ragionare – o almeno di mostrare i propri ragionamenti – commentò: “Se vorrà armigeri capaci di respingere un esercito ben armato come i veneziani, io sarò disposto a offrirle i miei servigi.”

“Non ne dubito.” sussurrò tra sè Gaspare, mentre arrivavano alla tenda e si faceva precedere dentro dal suo secondo.

 

Giovanni aveva ripreso conoscenza verso mezzogiorno e le suore avevano subito provveduto a provare a fargli fare un bagno nelle vasche termali.

Tutto sommato, forse per i benefici delle acque sulfuree o forse per il calore che aveva in qualche modo ridato forza al suo corpo, il Medici si sentiva un po' meglio, tanto che gli venne voglia di scrivere una lettera alla moglie.

Voleva rassicurarla, perché non era del tutto certo che Caterina stesse approfittando come doveva della sua assenza. Forse – e lo sperava – si era già buttata a capofitto negli impegni e di lui non si ricordava quasi più. O forse, quando meno se l'aspettava, si trovava prigioniera della tentazione di andare da lui.

In realtà non voleva sapere quale delle due ipotesi fosse più plausibile, perciò preferì scriverle, con un doppio scopo. In primis per farla stare tranquilla, nel caso si stesse struggendo per lui, in secundis per ricordarle che esisteva, nel caso in cui se ne fosse già scordata.

Chiamò nella camera uno scrivano e gli dettò una missiva abbastanza breve, in cui descriveva la sua giornata, la pregava solo, appena possibile, di mandargli solo qualche berretta da mettere quando lo bagnavano nelle vasche – perché quel giorno si era resoconto che gli dava molto fastidio tenere i capelli umidi per ore – e poi le raccomandava di stare salda nell'animo e di affidarsi a Simone Ridolfi, in caso di qualunque necessità.

“Volete firmarla voi?” chiese lo scrivano, guardando il Medici con occhio dubbioso.

Il Popolano avrebbe voluto, ma poi pensò che una firma tutta storta e illeggibile avrebbe reso le sue dichiarazioni di salute quasi ritrovata ridicole e così scosse il capo: “No, firmate voi per me.”

Lo scrivano fece come detto e se ne andò. Rimasto solo in stanza, il fiorentino sospirò e si rilassò, abbandonandosi al materasso soffice su cui l'avevano adagiato.

Dopotutto, andare a San Pietro in Bagno, non era stata una pessima idea. Se solo avesse potuto avere con sè sua moglie e suo figlio...

 

Caterina non aveva avuto ancora un momento di tregua. Appena tornata alla rocca, dopo un breve incontro con Galeazzo, che le aveva riferito – petto gonfio e spalle larghe – che tutto, in sua assenza, era filato liscio, era stata raggiunta direttamente dal castellano che le rendeva noto il ritorno di Achille Tiberti.

La Sforza avrebbe tanto voluto farlo attendere, ma quel giorno si sentiva lanciata. Aveva forse ancora qualche linea di febbre, ma la visita al campo del Sanseverino le aveva dato una visione più fresca della situazione e cominciava a credere di potercela fare.

Così chiamò a sè Tiberti e, sorvolando del tutto su quello che era successo a fine agosto, gli disse chiaramente: “Vi affido una condotta di cavalleggeri. E dovrete integrarli con almeno cento fanti, ma di quelli vi occuperete personalmente.”

L'uomo, che sapeva che la donna gli avrebbe fatto espiare le sue colpe sempre a quel modo, chinò il capo e assicurò: “Come dite voi, Contessa.”

“Appena avrò deciso come piazzare le truppe, vi saprò dire dove dovrete andare.” concluse la donna, congedandolo all'istante e chiamando a sè un Consiglio di guerra.

Parlò in modo abbastanza chiaro della proposta del Moro, e ascoltò con attenzione i commenti di tutti. Alla fine, poiché i suoi più fedeli Capitani e anche Luffo Numai le diedero ragione, Caterina guardò un'ultima volta la mappa e, posizionando i segnalini che portavano il suo stemma cominciò a elencare le sue decisioni.

“Manderò Fracassa a Castrocaro. Pirovano lo terrò qui a proteggere la città. Quando arriverà Giova Francesco da Sanseverino lo farò stanziare tra Forlì e Imola.” e posizionò la prima statuetta di legno sul nome del paese: “E poi manderò Tiberti a Modigliana. E voi – indicò Girolamo Mirandi, Alberto Rossetti, Bernardino Donati e Forlivese Savorelli – seguirete gli uomini di Sanseverino e Tiberti, andando a coprire anche Marradi e gli altri castelli della zona.”

Gli uomini annuirono e così la Tigre concluse, appoggiando il palmo della mano sulla superficie un po' spiegazzata della mappa d'Italia: “E che Dio ci assista, almeno questa volta...”

 

Gherardo Gambacorti stava occhieggiando nervosamente attraverso la porta mezza aperta della stanza in cui stava il Medici.

Da quando quel moribondo era arrivato a casa sua, il signore di San Pietro in Bagno non aveva avuto pace.

Aveva saputo, tramite più di una fonte certa, che il Popolano fosse in rotta con il fratello per colpa della Tigre di Forlì e dunque, trovarselo lì proprio su raccomandazione esplicita della Sforza gettava Gherardo in uno stato di agitazione che non viveva da anni.

Il fiorentino sembrava discretamente stabile, quel giorno, ma uno dei medici che gravitavano attorno alle terme aveva parlato con il Gambacorti in modo anche troppo fermo, dicendogli chiaramente: “Questa ripresa è solo apparente. Non mangia quasi nulla, non beve, si gonfia e non urina quasi nulla se non roba rossa come sangue. Respira a fatica... Se ha una settimana di vita, può ritenersi fortunato.”

“Allora?” chiese con voce bassa e quasi minacciosa Gherardo, quando una delle suore uscì con delle lenzuola fradice di sudore da mandare a lavare.

La donna abbassò lo sguardo e ammise: “Io lo vedo molto sofferente. Rispetto a stamane, non sembra nemmeno più lo stesso uomo...”

Gherardo non aveva bisogno di sentire altro. Teneva troppo alla propria, di pelle, per permettere a quel fiorentino di cacciarlo in qualche guaio.

Quasi di corsa andò fino alla sua stanza personale e prese il necessario per scrivere. Temeva l'eventuale reazione della Tigre, ma ancora di più quella di Firenze. E Firenze, era risaputo, in quei giorni era saldamente nelle mani tozze di Lorenzo Medici.

'Ho d'informavi di grave incidenza – scrisse Gherardo, la penna che grattava sul foglio con un rumore sinistro – che ha di che veder con lo fratello vostro che trovasi quivi per l'acque sanifiche delle terme di San Pietro. I medici fanno il caso pericoloso di morte e non cred'io che s'abbiano in errore.'

 

La risposta al Sanseverino era stata data nel primo pomeriggio, in modo tale che l'uomo potesse chiamare subito il fratello Giovan Francesco e che si facesse trovare pronto già il giorno seguente per una pianificazione più precisa del piano di difesa.

“Dov'è Bernardino?” chiese Caterina, seduta a tavola, guardando di sottecchi Bianca e Galeazzo, gli unici figli nel salone in quel momento: “È da tutto il giorno che non lo vedo.”

La ragazza sollevò gli occhi blu scuro dal piatto, ma evitò lo sguardo della madre, limitandosi a sollevare un po' le spalle: “Credo che sia in città.”

“A quest'ora?” chiese la Contessa, stringendo le labbra.

Sapeva che era tardi per preoccuparsi. In fondo se n'era disinteressata fino a quel momento. Eppure sentiva un nodo allo stomaco che non le piaceva.

“Sta spesso in giro fino a tardi.” proseguì Bianca, come camminando sulle uova: “Ultimamente è un po'...”

Il modo in cui la Riario non concluse la frase non fece altro che attorcigliare di più il laccio che la Sforza si sentiva nel centro dello sterno: “Galeazzo, ascolta... Tu pensi di poterlo trovare e riportarlo qui? Non voglio che sia in giro quando fa buio.”

Il ragazzino deglutì un pezzo di stufato e poi annuì: “Sì, credo di sapere dove sia.” e senza attendere oltre, mise da parte la cena e disse, alzandosi: “Vado a recuperarlo subito.”

La Tigre lo ringraziò e poi, sentendosi stanca come se avesse passato la giornata a lavorare come un asino da soma, si rivolse alla figlia: “Vado nella sala della guerra. Quando i tuoi fratelli tornano, fammi cercare lì, per favore.”

Mentre Bianca stava ancor annuendo, Caterina bevve l'ultimo sorso di vino e lasciò la tavola, diretta alla sala della guerra.

Passò una buona mezz'ora a revisionare i calcoli fatti dal suo castellano e altrettanto per rileggere e rivalutare i resoconti di suo fratello Piero, di Simone Ridolfi e degli altri castellani e Capitani a cui aveva dato l'incarico di reclutare soldati.

Il patto che il Moro le aveva proposto era semplice, quanto insidioso. Quattromila uomini lei li stava già trovando. Le paghe alte e il prestigio di far parte del suo esercito – uniti alla difficoltà di coltivare la terra con quel clima ostile – stava facendo accorrere in massa i suoi sudditi alla chiamata alle armi.

Tuttavia, più ci ragionava, più non capiva che avesse davvero in testa suo zio. Fidarsi di lui poteva rivelarsi la mossa più sbagliata, forse, ma, adesso che Giovanni non era più nella condizione di mediare per lei, Firenze le sembrava sempre più distante e di certo non poteva voltare il viso alla Signoria e rivolgersi al Doge, men che meno se pensava all'incombere di Astorre che, in capo a pochi mesi, avrebbe potuto per legge reclamare Bianca nel proprio letto.

La sola idea rivoltò ancora di più lo stomaco già in difficoltà della Leonessa, che, vinta dalla stanchezza che quelle giornate le avevano messo in corpo, appoggiò i palmi delle mani alla mappa dell'Italia e si sforzò di concentrarsi solo su cannoni e armate.

Quando provò a farlo, però, la sua memoria la portò altrove, guidandola dove voleva lei. Alla luce delle candele con cui aveva riempito la sala per vedere meglio le mappe, Caterina si ricordò delle volte – perché ce n'era stata più di una – in cui lei e Giovanni si erano amati proprio lì, in quella stanza, con solo le mappe militari e i segnalini di legno delle grandi potenze italiche a far loro da testimoni.

Rivedersi davanti quelle scene le fece sentire un senso di vuoto che aveva cercato di rifiutare fino a quel momento. L'ansia e l'incertezza che la dominavano, ogni volta in cui pensava a suo marito, parve amplificarsi in quella sala e tutto quanto, per un momento, perse significato, per lei.

Non voleva dirselo, ma sapeva che Giovani non poteva riprendersi, quella volta, e ragionarci sopra le trasformava il sangue in ghiaccio e le paralizzava la mente.

Mentre i suoi pensieri vagavano irrequieti alle prime volte in cui lei e il fiorentino si erano amati, cominciando a conoscersi poco a poco, in modo subdolo si mescolarono a quei ricordi dolci anche memorie cupe e stralci di vita con Giacomo.

Confusa dal suo stesso modo di accostare i ricordi, Caterina si premette una mano sulla fronte, strizzando gli occhi, ma, poco prima, forse, di trovare una logica in tutto quel caos, la porta della sala della guerra si spalancò.

La donna si voltò di scatto e si trovò davanti Bernardino, con la manica del giacchetto strappata e un graffio sul volto, all'altezza dello zigomo, e Galeazzo, che gli stava alle spalle e guardava la madre con una sorta di reverenziale timore.

“Dove ti eri cacciato?” chiese la Contessa, restando dov'era, ma puntando gli occhi verdi e severi sul figlio più piccolo.

Questi si imbronciò, ma non guardò altrove. Per una frazione di secondo, per quanto la somiglianza con Giacomo fosse straziante come sempre, la Tigre riconobbe anche un po' di sè in quel bambino.

“Era solo andato a trovare dei suoi amici.” lo difese Galeazzo, vedendo che il fratello non parlava.

“Degli amici che ti hanno strappato la giubba e preso a pugni?” chiese la Sforza, indicando con la mano aperta Bernardino.

Questi finalmente abbassò lo sguardo e, arrossendo in viso, borbottò: “Mi hanno provocato.”

Caterina non aveva la forza, in quel momento, di spendersi in lunghi discorsi o in attente indagini su cosa fosse realmente successo, così disse solo: “Ricordati le raccomandazioni di Giovanni.”

“Sì, ma lui non è qui.” rimbeccò Bernardino, la sfida che tornava a illuminare il suo volto.

“Adesso no, ma tornerà presto.” lo zittì la donna, quasi non riconoscendo il figlio di Giacomo in quell'ardire.

“Non lo credete nemmeno voi.” concluse il bambino, stringendosi poi un po' nelle spalle, come se temesse una reazione violenta della madre.

Questa, invece, con un sospiro pesante passò accanto ai due figli e ordinò a Galeazzo: “Tienilo d'occhio. Non fargli commettere degli errori di cui potrebbe pentirsi per tutta una vita.”

 

Lorenzo si abbandonò sull'ottomana che aveva fatto spostare vicino alla finestra. Quel giorno si sentiva teso, come se si aspettasse l'arrivo di qualche notizia spiacevole o di imbattersi in qualche cataclisma.

Aveva mangiato poco, a pranzo, e aveva evitato quasi in toto la sua famiglia, perché non aveva voglia di parlare con nessuno. Infatti, a parte una rapida comparsata alla Signoria, se n'era rimasto da solo, chiuso in casa.

“Una missiva urgente per voi, da Imola.” disse un servo, portando la lettera fino all'ottomana e consegnandola nelle mani del Popolano.

Questi lo ringraziò e si accigliò, chiedendosi chi mai potesse scrivergli da Imola. In un primo momento pensò a suo fratello, ma scartò subito l'idea quando vide il sigillo, che era chiaramente quello del Governatore Simone Ridolfi.

Fu tentato di gettare il messaggio sulla piccola pila di carte che stavano sul tavolino lì accanto, tra cui ce n'era addirittura una di Gherardo Gambacorti, signore di San Pietro in Bagno. Era arrivata il giorno addietro, ma Lorenzo ancora non l'aveva aperta.

Non immaginava che potesse volergli dire quell'uomo. Al massimo, pensava, gli aveva scritto per chiedergli qualche favore presso la Signoria.

Ancora concentrato sul misterioso motivo per cui Gambacorti potesse avergli scritto, il Medici iniziò a leggere le parole di Simone tanto distrattamente che non si rese conto di cosa dicessero finché il nome 'San Pietro in Bagno' non gli balzò all'occhio, facendolo quasi saltare sull'ottomana di fronte a quel caso sconcertante.

Com'era che tutti gli parlavano di quel posto?

Rilesse con più attenzione e le mani cominciarono a tremargli. Ridolfi lo avvisava che Giovanni era stato mandato a fare cure termali, ma che lo si diceva grave e in pericolo di vita.

Senza quasi riuscire a respirare, Lorenzo si gettò sulla pila di lettere sul tavolino e gettando via alla rinfusa tutte le altre, ripescò quella di Gambacorti.

Ci mise qualche secondo, prima di capire davvero quello che gli era stato scritto. Le gambe s'erano fatte molli, tanto che dovette risedersi per un po'.

Non appena tornò capace di muoversi, lasciò il salotto e andò a cercare il capo delle sue guardie personali: “Ho un compito molto grave da darvi.”

Il soldato annuì: “Tutto quel che si comanda, mio signore.”

“Andate con un prete e una scorta a San Pietro in Bagno. Se mio fratello fosse in condizione, fate in modo di portarlo qui a Firenze.” esitò un momento e poi concluse, con la voce malferma: “Se fosse già morto... Riportatemi almeno il suo corpo.”

 

Caterina aveva passato un'altra giornata campale, assieme a Gaspare Sanseverino – che le aveva assicurato che Giovan Francesco sarebbe arrivato a Forlì il prima possibile – e Giovanni da Casale, che non si era allontanato da loro nemmeno un istante.

Per tutto il tempo era stata combattuta tra il prestare loro ascolto, elencando le sue decisioni e facendo pesare il suo ruolo di comandante in capo, e l'essere in apprensione all'idea che potesse arrivare da un momento all'altro un messaggio da suo marito.

Il giorno prima, a sorpresa, a notte inoltrata era giunta una sua missiva in cui, tutto sommato, si diceva in discrete condizioni e la rassicurava.

La Contessa, quando l'aveva ricevuta, era ancora sveglia, incapace di dormire, tormentata in egual misura dai suoi fantasmi e dalla paura del futuro e così si era aggrappata a quelle parole che – anche se vergate da un'altra mano – era state pensate da suo marito, ed era arrivata fino al mattino.

Fino a sera non aveva fatto altro che contare soldati, valutare posizioni e redistribuire armi. A cena, arrivata nel salone dei banchetti tra i primi, aveva mangiato in fretta e bevuto discretamente, e poi si era ritirata in camera.

Non appena si trovò sola, però, si rese subito conto che sfuggire la compagnia non era il metodo giusto per ritrovare un po' di serenità.

La verità – cruda, semplice e impossibile anche per lei da digerire – era che quella giornata passata a cavallo l'aveva fatta sentire strana e che la vicinanza assidua di un giovane uomo prestante e sveglio come Giovanni da Casale le aveva fatto tornare certi bisogni.

Stesa sul letto, guardava assorta il soffitto buio. Non si era ancora cambiata e non aveva nemmeno acceso qualche luce nella stanza, se non un misero candelotto di sego. Si coprì il volto con le mani e si chiese come potesse fare certi pensieri, quando suo marito stava lottando come un leone per sopravvivere e tornare da lei.

Poi si disse che era da quando Giovanni era partito per Pisa che non era più stata con uomo e che, addirittura, quando l'aveva riavuto a Ravaldino e l'aveva assistito nella sua infermità, l'idea non l'aveva nemmeno più sfiorata, nemmeno fugacemente.

Stare tutto il giorno fuori, però, al sole e al vento, con il suo stallone che correva su e giù per le colline, l'aveva fatta sentire viva e le aveva riacceso la fame che fino a quel momento sembrava latente.

Il vino che aveva bevuto a cena, poi, di certo non l'aiutava a placare il sangue che le ribolliva prepotente nelle vene.

Dando un pugno al materasso, con rabbia, la donna si rimise a sedere. Respirò a fondo qualche volta e poi si passò con lentezza le mani sulle cosce coperte dal gonnellone del suo abito da lavoro.

Strinse i denti e poi, mossa da una forza che avrebbe voluto rifiutare, si alzò e andò alla porta.

Uscì in corridoio e stava già per imboccare le scale e scendere fino ai baraccamenti dei soldati, quando, riuscendo finalmente a imporsi perfino su se stessa, si bloccò di colpo appena prima dei gradini.

Sentiva le mani fremere e il cuore battere veloce. Era quasi come, a caccia, si sentiva osservata da una bestia feroce, ma non riusciva a individuarla. Questa volta, però, sapeva che la fiera era lei stessa e quindi non si fece cogliere impreparata.

Con passi pesanti, tornò indietro e poi, cercando un modo per costringersi a non fare nulla di cui si sarebbe sicuramente pentita e vergognata, andò verso la stanza di Ludovico.

Congedò le balie, dicendo loro di restare in zona, ma di andare pure a riposarsi, e poi portò il bambino nella sua camera.

Messasi sul letto, lo fece sedere sul suo ventre, la schiena appoggiata alle sue gambe, in modo da fronteggiarsi.

Anche se l'aveva svegliato nel pieno del riposo, Ludovico non dava mostra di essere infastidito, anzi, nella penombra della camera dei genitori pareva molto più pacifico e rilassato di quanto non fosse da nessun'altra parte.

Caterina lo guardò con attenzione, studiandone i dettagli. Mentre ne osservava le piccole mani dalle dita corte, i capelli, sempre più folti, di un tranquillo castano e raccolti in fini ricci, e gli occhi, allungati e intelligenti come quelli di Giovanni, la Tigre cominciò a sentire la fame che la divorava diminuire.

Non era sparita del tutto, ma, mentre sfiorava con le dita il viso e la fronte del figlio, trovandone tutte le somiglianze possibili con il Medici, quel vortice di sentimenti e sensazioni che l'aveva quasi portata a calpestare una promessa in cui aveva creduto moltissimo, si era affievolito.

Ludovico, con una specie di sorriso, tornando poi subito serio, toccò la mano della madre, afferrando il contorno del nodo nuziale che portava all'anulare.

Caterina lo lasciò fare e in quel momento, anche se Giovanni era lontano, lo sentì vicino, quasi l'avesse accanto.

Mentre il bambino faceva qualche suono disarticolato, quasi volesse dirle qualcosa o chiederle che fosse, quello strano anello, la Tigre gli sorrise e se lo avvicinò alle labbra, per baciarlo in testa.

Lasciandolo coricato prono sul proprio petto, il cuoricino fresco e veloce di lui che riecheggiava quello ferito e stanco di lei, la Contessa tenne il figlio contro di sè, coccolandolo in un lieve abbraccio.

Ludovico, di rimando, pareva aver trovato la pace dei sensi e restava adagiato sul seno della madre in silenzio, respirando lentamente, forse già sul punto di riaddormentarsi: “È da quando ti avevo ancora in pancia che ho capito che noi due saremmo sempre andati d'accordo...” gli sussurrò Caterina.

Il piccolo si mosse appena, e poi, dolcemente, scivolò nel sonno. La madre lo tenne stretto a sè come qualcosa di prezioso, tuttavia, malgrado il calore che la vicinanza del frutto dell'amore con Giovanni le dava, non riuscì a chiudere occhi nemmeno per un quarto d'ora.

 

Giovanni si sentiva confuso. Gli avevano detto – o almeno così gli era parso – che era in quello stato da quasi due giorni, o poco meno.

Pareva che dormisse, ma non era risvegliabile in alcun modo e poi, all'improvviso, rinveniva e sembrava tornare in sè, ripiombando dopo poco nello stato di incoscienza da cui si era appena ridestato.

“Ditemi se sto per morire, lo devo sapere...” disse, non sapendo chi vi fosse ad ascoltarlo.

C'erano un paio di uomini accanto al suo letto, uno, l'aveva sentito distintamente poco prima, aveva un forte accento fiorentino, mentre l'altro forse era di lì ed era un medico.

“La vostra condizione è grave.” parafrasò quest'ultimo, senza voler ripetere le parole usate da Giovanni.

L'uomo faceva fatica a capire dove iniziassero i dolori alle gambe e alle mani e dove finisse la percezione distorta che la sua mente gli dava di essere in una bolla ovattata.

Tuttavia, benché non sapesse dire se fosse giorno o notte, se fosse ancora tutto intero o se l'avessero fatto a pezzi senza che lui se ne avvedesse, sapeva una cosa: anche suo cugino il Magnifico, prima di morire, aveva perso la lucidità, come stava capitando a lui.

“Uno scrivano, uno scrivano...” sussurrò.

“Non sarebbe meglio un prete?” chiese quello che parlava in fiorentino.

“Uno scrivano...” ripeté ostinato il Popolano.

Quando gli dissero che lo scrivano era arrivato, l'uomo iniziò subito a dettare: “Caterina, amore mio, ti prego vieni da me, che voglio rivederti almeno una volta, prima di morire, e le forze mi mancano e non credo che arriverò salvo al giorno nuovo... Ti prego, fai presto...”

   
 
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