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Autore: Adeia Di Elferas    12/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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La luce del mattino stava sorgendo stentata, oltre la finestra. Forse il cielo si era coperto di nuvole, nelle ultime ore della notte, ma Caterina non credeva che sarebbe piovuto tanto presto.

Anche se i casi di febbri erano diminuite, fin quasi ad azzerarsi, restava il problema dei campi che, con quella siccità, si stavano seccando uno dopo l'altro. Benché in quel momento di contadini ne stessero restando sempre meno – dato che la massiccia chiamata alle armi li aveva distratti dai loro doveri agricoli – anche quei pochi che cercavano di tirare avanti stavano facendo fatica. E presto anche le scorte cittadine sarebbero state ridotte all'osso...

La Contessa sospirò pesantemente, Ludovico, coricato sopra di lei, così come si era addormentato la sera prima, fece una piccola smorfia un po' infastidita, per quel suo movimento, ma non si svegliò.

Anche se aveva appena cinque mesi, la Sforza aveva dato ordine di cominciare a svezzarlo, sicura che i tempi sarebbero stati difficili e che, forse, sarebbe stato complicato avere le balie a disposizione ancora a lungo. Così, alternando con attenzione latte e altro, il bambino aveva iniziato a nutrirsi in modo più vario e, incredibilmente, stava sopportando benissimo – molto meglio di tutti i suoi fratelli – quel cambiamento, allungando sempre di più le pause tra un pasto e l'altro.

Quando ne scherzava con Bianca, Caterina diceva: “Mangia già come un soldato: quel che può, quando può.”

La Riario non trovava troppo divertente quel genere di osservazioni, ma sorrideva sempre, dando ragione alla madre e aggiungendo: “Sperando che da grande possa mangiare quando vuole e quel che vuole.”

Assorta, gli occhi rivolti sempre alla finestra da cui filtrava la luce plumbea della primissima alba, la donna accarezzò con lentezza la testa del figlio e si chiese con angoscia che ne sarebbe stato di quel piccolo. Era così indifeso e si era trovato a vivere in un mondo già così difficile...

Quando sentì bussare alla porta, con insistenza e quasi con violenza, la Tigre per poco non saltò sul letto dalla sorpresa. Quando poi sentì la voce del castellano chiederle se potesse entrare, disse di sì senza pensarci, sicura che fosse successo qualcosa di grave.

Ludovico si era svegliato di colpo e aveva accennato un piantolino, salvo poi zittirsi all'istante, un po' spaventato da Cesare Feo che, in un lampo, era arrivato fino accanto al letto, porgendo una lettera alla Contessa: “Urgente, per voi, da San Pietro.”

A quelle parole, Caterina sentì il sangue gelarsi nelle vene. Anche se aveva dato la priorità assoluta alle eventuali missive da parte di suo marito, dando permesso di disturbarla a qualunque ora, la gravità con cui il castellano aveva parlato era di per sè un segnale di allarme.

Così, paradossalmente rallentata nei movimenti dalla paura, la donna posò con delicatezza Ludovico nel centro del letto e prese il foglio. L'aprì e cominciò a leggere.

Le bastò meno di un minuto per capire. Il cuore mancò un battito e per qualche istante le parve che le mancasse l'aria nei polmoni. Sapeva – o, almeno, temeva – che un momento del genere sarebbe arrivato, ma non avrebbe mai creduto tanto presto.

Nel giro di pochi istanti, radunò i pensieri e corse in corridoio, chiamando a gran voce Bianca che in quei giorni dormiva in una stanza poco lontana dalla sua, proprio per averla più vicina in caso di bisogno.

La Riario, in vestaglia da notte, si catapultò fuori dalla porta e, cercata con lo sguardo la madre, le corse subito incontro: “Ditemi.”

“Corri nel mio laboratorio e prendi le due bottigliette che ho sul ripiano a destra. Hai capito quelli intendo?” fece Caterina, parlando in fretta, ma a voce bassa.

La ragazza annuì e poi chiese: “Altro?”

“Portamele. Mi troverai nella stalla. E poi bada a tuo fratello. È in camera mia.” disse la Contessa, a scatti.

Bianca annuì e partì di corsa verso il laboratorio, il bordo della vestaglia tenuto un po' sollevato per non inciampare.

“Dove state andando?” chiese Cesare Feo, sconvolto nel vedere la sua signora tornare in camera, spogliarsi in lampo davanti a lui, indossare un abito che di norma metteva per la caccia e infilarsi gli stivali di cuoio.

“A San Pietro.” soffiò la donna, guardando prima il castellano e poi, solo per un istante, Ludovico che, confuso, la fissava dal letto.

“Ma...” balbettò il Feo: “Ma... Oggi dovete incontrare Sanseverino e...”

“A quello penserò dopo! All'inferno Sanseverino e tutti quanti!” inveì la Sforza, facendo seguire un paio di imprecazioni tanto volgari che il castellano si zittì una volta per tutte.

Con il sangue che pompava prepotente nelle vene, Caterina percorse il corridoio tanto in fretta che quando arrivò alle scale per poco non cadde al primo gradino. Come una saetta giunse fino alle stalle e scelse il cavallo più veloce della sua scuderia – uno di quelli che erano stati rubati non molto tempo prima a Manfrone – e disse al garzone di stalla che stava lì vicino di prepararglielo.

Bianca stava già arrivando con le bottigliette che la madre le aveva chiesto e così, dopo essersele messe nel tascone dell'abito, la Tigre abbaiò al garzone: “Allora, volete muovervi?!”

Questi, spaventato dal tono aggressivo della sua signora, si fece addirittura cadere le redini di mano e così Caterina decise che i finimenti non erano poi così fondamentali, per quel viaggio: fece scansare di forza il ragazzo e montò sul cavallo a pelo.

Bianca non provò nemmeno a dirle che un tragitto così lungo, in quelle condizioni, era un azzardo, tanto era certa che non l'avrebbe ascoltata o, tutt'al più, le avrebbe gridato dietro qualche impropero.

Battendo coi tacchi sui fianchi della bestia, la Leonessa lo fece uscire dalla stalla e attraversò i due cortili, gridando di lasciarle libero il passaggio.

Quando uscì dalla rocca, era ancora tanto presto che in pochi la videro, ma tra questi, proprio vicino alla statua del Barone Feo, c'era anche Andrea Bernardi, che si era messo in piedi di buon'ora per andare a fare qualche compera al mercato.

Attonito, riconoscendola subito, la fissò mentre si allontanava e si chiese dove mai stesse correndo, con addosso quella velocità da diavolo, i capelli quasi del tutto bianchi sciolti al vento e le mani aggrappate al crine del cavallo.

 

“Io non saprei...” stava dicendo uno dei medici che erano stati chiamati da Gherardo Gambacorti, che dopo l'arrivo del drappello fiorentino si era fatto molto più solerte nel tentare di curare il Popolano: “Spostarlo adesso equivarrebbe a ucciderlo. A questo punto, aspetterei e gli eviterei questa inutile sofferenza.”

“Ma il nostro padrone ci ha detto...” fece uno degli uomini mandati da Lorenzo.

“Il nostro padrone ci ha detto di portarglielo vivo, se possibile. Ma credo che sarebbe d'accordo con lui – fece un altro, indicando il dottore – se sapesse in che stato è il povero messer Giovannino.”

“Io direi che riprovare a fargli qualche salasso sarebbe altrettanto dannoso, oltre che inutile: dall'ultimo non ha avuto alcun vantaggio...” si mise a soppesare a quel punto una delle suore delle terme che, in realtà, pareva quasi capirne di più dei medici: “Meglio tenerlo tranquillo e dargli supporto spirituale.”

“Rifiuta il prete.” fece notare Gambacorti che, mordendosi il pollice, pareva il più in apprensione tra i presenti.

“Perché vuole la moglie...” scosse il capo la suora: “Ma di questo passo, non penso che la rivedrà.”

Giovanni, intanto, nel letto sfatto in cui di quando in quando perdeva conoscenza o si agitava per il dolore che tornava a visitarlo, sentiva le voci che arrivavano dal corridoio come lontane e ovattate.

Non sentiva che stessero dicendo, ma era sicuro che stessero parlando di lui. Deglutì a fatica e chiese alla novizia che lo stava assistendo di dargli un po' di acqua.

Con qualche fatica, la giovane riuscì a fargli sorbire appena un sorso e poi dovette umettargli le labbra con una pezza bagnata, perché non v'era altro modo per placare la sete che ogni tanto lo prendeva.

Il Medici diede qualche colpo di tosse e poi, riversando un po' indietro il capo, sussurrò, quasi impossibile da sentire: “Lo so che arriverà...”

 

Il sole era allo zenit e di quando in quando una nuvola lo copriva del tutto, gettando sul paesaggio che si stagliava davanti alla Tigre delle ombre nette e scure che quasi le mettevano paura.

Aveva seguito la strada senza particolari problemi, anche se credeva di essere sul punto di dover cambiare cavallo. Quello che aveva con sè era sudato e la sua velocità, dopo ore di corsa, si era ridotta notevolmente.

Voleva arrivare da Giovanni in tempo, voleva a tutti i costi riuscire a non deluderlo. Lui le aveva scritto perché la voleva rivedere e lei sarebbe stata all'altezza della sua richiesta. L'amava troppo per potersi perdonare un eventuale fallimento.

Vide finalmente una locanda con una stalla e decise di provare a cambiare il cavallo. Accostò, tirando di colpo il crine della bestia. Questa si frenò bruscamente e quando la donna chiamò qualcuno che uscisse dalla baracca per sentire cos'aveva da proporre, l'animale si guardò in giro in cerca di un abbeveratoio.

L'oste uscì quasi subito e, dopo un primo momento in cui trovò la scena del tutto assurda – una donna, sola, che cavalcava a pelo e chiedeva un cambio di cavallo – si risvegliò di colpo nel sentire le parole: “Sono Caterina Sforza, la Tigre di Forlì.”

La Contessa aveva imparato da tempo l'effetto che faceva, quel genere di presentazione e così non si stupì più di tanto nel vedere il cambio di registro del suo interlocutore.

Accettando all'istante il cambio con un cavallo giovane e veloce – seppur molto meno pregiato – e non perdendo tempo con la ricerca di finimenti da far mettere alla sua nuova cavalcatura, la Leonessa chiese se andava giusta per San Pietro in Bagno e, ottenuto un sì, ripartì.

Il locandiere, una mano sul collo bagnato del nuovo cavallo da guerra che aveva guadagnato, guardò la donna sfrecciare via, sollevando un gran polverone, e strinse gli occhi al sole che tornava ad affacciarsi da dietro le nuvole, soffiando tra sè: “Sembra che la stia inseguendo il diavolo...”

 

“Dite che dovremmo scrivere a Ottaviano?” chiese Bianca, guardando Galeazzo e Cesare.

Il primo alzò le spalle e non disse nulla, il secondo guardò altrove. La ragazza, che teneva in braccio Ludovico – che non aveva più voluto staccarsi da lei, da quando la Contessa aveva lasciato la città – sbuffò e scosse il capo, senza trovare parole adatte per esprimere la sua opinione sui fratelli.

Erano radunati tutti nella stanza dei giochi, ma nessuno, nemmeno il più piccolo, sembrava capace di fare altro che pensare a quello che stava capitando al Medici.

“Sta morendo?” chiese Bernardino che, come tutti gli altri figli della Tigre, aveva saputo del contenuto del messaggio arrivato da San Pietro in Bagno.

“Solo Dio lo sa.” rispose Cesare, parlando prima della sorella.

Siccome il piccolo Feo aveva assunto un'espressione truce e pareva quasi sul punto di prendersela con il fratellastro, Bianca preferì gettare un po' di acqua sul fuoco: “Dobbiamo avere fede e molta fiducia. Nostra madre sta andando da lui per vedere che può fare...”

A quelle parole, Cesare sollevò un sopracciglio, mentre Bernardino parve in parte rincuorarsi. In un angolo Sforzino osservava senza aprire bocca e solo Galeazzo pareva della stessa idea di Bianca: anche lui sapeva che per Giovanni non c'era più speranza, ma non voleva dirlo in modo brutale ai più piccoli.

La Riario sapeva che la madre aveva poche speranze quanto loro. Aveva voluto portare con sè una pozione per i dolori e la sua pozione a far dormire. Secondo la ragazza, quella scelta la diceva lunga su cosa si aspettasse di trovare a San Pietro in Bagno.

“Scrivo a Ottaviano.” concluse Bianca, dopo un po': “Credo che debba sapere anche lui che...”

Non concluse la frase e, portandosi sempre dietro Ludovico, lasciò i fratelli per andare nella sua stanza a vergare un rapido messaggio per il fratello maggiore, con cui lo metteva a parte dell'aggravamento del loro patrigno e della partenza improvvisa della loro 'signora madre'.

 

Finalmente Caterina vedeva il borgo di San Pietro in Bagno. Il cielo era coperto di nuvole e anche per quel motivo c'era più buio del dovuto. Benché fosse solo tardo pomeriggio, sembrava già sera inoltrata. Si fece riconoscere alle porte, sperando che si accontentassero della sua parola.

Malgrado si fosse in tempo di guerra, le guardie – forse messe al corrente del suo possibile arrivo da qualcuno – la lasciarono passare e così la donna si fece indicare la strada più breve per raggiungere il ricovero del marito.

Quando entrò nel palazzotto in cui era stato alloggiato Giovanni, sentì per un momento mancarle il coraggio. Ricordava anche troppo bene la corsa disperata che aveva fatto anni prima fino a Imola, per poi arrivare troppo tardi e trovare sua sorella Bianca già morta.

“Oh, siete la Contessa Riario?” chiese un uomo, andando ad aprirle.

La Sforza annuì e questi esclamò, visibilmente sollevato: “Vi stavamo aspettando! Per di qua!”

Convinta che quel genere di accoglienza dovesse farla ben sperare, seguì l'uomo, camminando in modo automatico, senza nemmeno vedere le stanze che stava attraversando o i quadri appesi alle pareti.

“Lo troverete qui.” fece poi l'uomo, fermandosi davanti a una porta chiusa: “Mi raccomando, è molto provato.”

La Tigre fece un respiro molto fondo e solo in quel momento si accorse del fortissimo odore di incenso che sembrava provenire proprio da quella camera.

“Grazie.” fece la milanese, deglutendo e posando una mano sul legno, spingendo un po'.

Giovanni era steso nel centro di un grande letto, il viso affilato e i capelli fradici di sudore. Accanto a lui c'era una suora che lo guardava, il capo chino e le mani giunte come in preghiera.

Quando vide la Tigre, capì all'istante e con solerzia lasciò la sua postazione e richiuse la porta alle sue spalle, dopo aver lasciato la camera.

Il Medici sembrava dormire. Respirava con fatica, ma il suo petto si alzava e si abbassava ancora e per Caterina quello fu un motivo di triste gioia. Ce l'aveva fatta. Era arrivata in tempo affinché lui potesse vederla ancora.

Si avvicinò con passo leggero al letto e poi, vedendo come il marito tenesse gli occhi serrati, sussurrò: “Giovanni...”

Le labbra carnose e un po' secche del Popolano si sollevarono appena in una mezza smorfia, mentre le sue palpebre si aprivano appena, per poi spalancarsi: “Sei qui?” chiese, la voce ridotta a un filo: “Sei davvero qui?”

Quella visione gli pareva surreale. Sua moglie lo stava guardando, illuminata dalla luce delle candele e da quella morente del sole coperto di nubi che arrivava dal finestrone. In quel momento, mentre lei lo fissava con le labbra un po' schiuse e un'espressione quasi allarmata, gli ricordò in modo prepotente la prima volta in cui l'aveva vista.

Si ricordò di quando era entrato a Ravaldino e, contravvenendo a quello che gli era stato chiesto di fare, era arrivato fino al cortile d'addestramento e l'aveva vista duellare, per poi incrociare i suoi occhi, quando si era tolta l'elmetto e si era voltata verso di lui...

“Sono qui.” confermò la donna, chinandosi su di lui e baciandogli la fronte e poi le labbra.

Giovanni accolse quel gesto come un soffio vitale. Non gli sembrava vero che Caterina potesse essere davvero lì con lui.

La sua mente, a tratti confusa, gli fece chiedere di nuovo: “Sei qui?”

La Sforza, con un sospiro, si passò una mano tra i capelli arruffati per il difficile viaggio, e riconfermò, con pazienza: “Sono qui. Sono qui con te.”

“Nostro figlio come sta?” chiese Giovanni, corrugando la fronte, come se quella domanda gli fosse costata molta fatica.

“Sta bene. È una piccola roccia.” lo rassicurò la moglie.

“Un piccolo leone...” sorrise lui.

Anche Caterina, suo malgrado, si trovò a sorridere. Siccome il Popolano appariva provatissimo, come se vivere gli risultasse difficile quanto morire, la donna decise di non stancarlo ulteriormente.

Gli passò con dolcezza una mano sulla fronte, calda e sudata, e poi, dopo aver messo le due bottigliette di pozione sul tavolo lì accanto, si sistemò con cura accanto a lui, sedendosi sul materasso in modo da non dargli fastidio.

Dopo pochi istanti, l'uomo parve addormentarsi. La Contessa provò a risvegliarlo, per capire se fosse un sonno normale o meno, e quando non ottenne alcun risultato, le tornarono in mente le parole del suo medico di corte e capì che quella era davvero la fine.

Giovanni restò in quella condizione per almeno un'ora e poi riaprì gli occhi, apparendo un po' frastornato, ma sembrava ricordarsi dell'arrivo della moglie.

Infatti non parve stupito di vederla quando, con qualche colpo di tosse, le chiese: “Hai pensato a un nuovo nome per nostro figlio?”

“No...” ammise la donna, che in effetti non aveva più pensato in modo concreto alla decisione di ribattezzare Ludovico con un altro nome.

“Fai in modo che non mi dimentichi. Che non dimentichi chi era suo padre...” disse il Medici, come andando avanti per conto suo.

Avrebbe voluto prenderle la mano e tenerla stretta a sè, ma da giorni le sue mani erano come inutili orpelli che non riusciva più a muovere, se non a prezzo di dolori atroci.

Così, dopo un lungo silenzio che era seguito alla sua richiesta, Giovanni cercò conforto in altro modo.

La voce di Caterina era una delle cose che più gli erano mancate, da quando aveva lasciato Forlì e così, dando voce a quel bisogno sussurrò: “Caterina... Dimmi qualcosa...”

“Ti amo.” le parole erano scivolate fuori dalle labbra della Tigre prima che se ne potesse accorgere.

Era da troppo tempo che le sentiva incastrate in gola e anche se pronunciarle ad alta voce le aveva dato una piccola stilettata al cuore – perché solo a Giacomo le aveva dette prima di allora – fu felice di esserci riuscita. Era stato come togliersi un peso.

La reazione di Giovanni arrivò in un secondo tempo, come se avesse dovuto metabolizzare quella dichiarazione.

Rivolgendo le sue iridi chiarissime verso la moglie, sollevò l'angolo della bocca e chiese: “E dovevo essere in punto di morte, per sentirtelo dire?”

Il tono con cui il fiorentino aveva parlato e l'espressione che per un istante aveva illuminato di nuovo il suo viso sofferente, strapparono una mezza risata alla Tigre, che esclamò: “Ma come fai a scherzare in un momento così?”

“E se non ora, quando?” domandò il Medici, tornando subito serio, e chiudendo gli occhi, come se la stanchezza di vivere l'avesse colto di nuovo dopo quel breve sprazzo di leggerezza.

Seguì un altro momento in cui Giovanni parve del tutto privo di coscienza, il respiro sempre più spezzato e faticoso e Caterina ne approfittò per controllarlo meglio, senza far vedere a lui quanto fosse disperata nel vederlo in quella condizione.

Le sue ferite alle gambe erano quasi tutte aperte e anche le mani erano conciate molto male. Era gonfio e anche il ventre si era fatto bombato, come se il liquido che gli ingombrava gli arti inferiori fosse arrivato a riempirlo fino al petto. Non c'era quasi più nulla, dell'uomo che Caterina aveva conosciuto, se non il suo sguardo, quando tornava presente, e la sua anima.

Quando il Popolano si riprese di nuovo, la Sforza non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato dall'ultimo risveglio, forse un'ora o di più. L'unico riferimento chiaro erano le candele, che si stavano accorciando a vista d'occhio.

Rispetto a prima, Giovanni pareva molto più agitato. La sua fame d'aria lo portava a sforzare i muscoli della gabbia toracica tanto che a tratti pareva non farcela a tirare il fiato fino in fondo.

“Ho paura.” disse l'uomo, cercando con lo sguardo quello della moglie: “Non voglio morire così...”

La Tigre non sapeva cosa dire. Lei per prima era terrorizzata e dunque non aveva armi per dare sicurezza al marito.

L'unica cosa che le venne in mente fu: “Ho portato la mia pozione per dormire. Se vuoi...”

“No...” scosse il capo, per quel poco che riuscì, Giovanni: “No, voglio restare sveglio, finché riesco, per stare con te. Voglio sentirti vicina.”

Caterina deglutì e, come a rispondere alla sua richiesta, cercò di sistemarsi meglio sul letto, badando a non urtarlo troppo, ma facendogli sentire che era lì accanto a lui.

“Perdonami.” disse poi il fiorentino, le narici che si allargavano a ogni respiro: “Perdonami, Caterina...”

“Che stai dicendo?” chiese lei, accigliandosi.

“Meritavi di meglio... Io sono stato solo un peso... Solo un peso... Soprattutto adesso...” fece il Popolano, le labbra che tremavano un po', mentre dall'angolo dell'occhio scivolava una lacrima.

“Tu non sei stato un peso.” disse subito la Sforza, asciugandogli la tempia e baciandolo di nuovo sulle labbra, insistendo fino a che non sentì una risposta, per quanto debole: “Sei stato la mia salvezza. Mi hai afferrata appena prima che precipitassi nel dirupo...”

Giovanni sentì l'animo tornare leggero a quelle parole. Sua moglie gliele aveva bisbigliate con voce tanto accorata da togliergli ogni dubbio. Se diceva così, così doveva essere.

“Leggimi qualcosa.” sussurrò Giovanni.

Caterina, un nodo stretto alla gola, annuì e recuperò uno dei due libri che aveva fatto partire assieme al marito qualche giorno addietro. Ci pensò un momento e poi prese le poesie di Catullo.

Come faceva spesso quando trascorrevano assieme le notti nella loro camera da letto a Ravaldino, la Leonessa aprì una pagina a caso e cominciò a leggere: “Dianae sumus in fide puellae et pueri integri: Dianam pueri integri puellaeque cenamus...”

Giovanni, nel riconoscere al volo quei versi, sorrise e, sospirando, guardò il viso della moglie, mentre seguiva la lettura e, senza accorgersene, scivolò di nuovo nell'incoscienza.

Caterina se n'era resa conto, ma andò avanti con i versi di Catullo ancora parecchio. Smise solo quando sentì il respiro del marito farsi troppo frammentario e rimase immobile, quando gli istanti di apnea si fecero più lunghi.

Mise da parte il libro, gli posò una mano sulla guancia e poi lo baciò sulla fronte. Non poteva esserne sicura, ma se lo sentiva. Sentiva che erano arrivati alla resa dei conti.

Il corpo di Giovanni sembrava combattere ancora, strenuo fino all'ultimo, ma poi, dopo un paio di respiri molto fondi a cui seguirono lunghissime pause, non si mosse più.

Caterina sollevò la mano dalla pelle ancora calda del marito e lo fissò per un bel po'. Non riusciva a pensare a nulla. Avrebbe voluto piangere, ma non uscivano lacrime dai suoi occhi. Avrebbe voluto arrabbiarsi, ma dentro di sè in quel momento provava solo un attonito stupore.

“Sit tibi terra levis.” gli sussurrò, per poi alzarsi con lentezza dal letto e andare alla finestra.

Guardò il cielo scuro per quella che le parve un'eternità e poi, quando sentì le campane della chiesa battere la mezzanotte, decise che era tempo di fare qualcosa.

Passando accanto alle spoglie mortali di un uomo che l'aveva amata in modo tanto gratuito da farle male il cuore a pensare di averlo perso, la Tigre uscì dalla stanza e, tenendo la porta aperta, chiamò la suora che attendeva lì fuori e disse: “È morto non più di un'ora fa. Vi prego, sistematelo e preparatelo affinché lo possa portare a Forlì.”

“Mi spiace, mia signora – intervenne un uomo dall'accento fiorentino, facendo capolino alle spalle della Contessa – ma il corpo del povero messer Medici abbiamo ordine di portarlo a Firenze.”

“Chi vi manda?” chiese la Leonessa, mentre la suora andava nella camera per prendersi cura del morto.

“Lorenzo Medici.” rispose l'altro.

A quelle parole, Caterina strinse i pugni, sentendo la rabbia montarle di nuovo in corpo.

Senza riuscire a fare nulla, sapendo che non avrebbe mai potuto averla vinta con il cognato – tanto più che, a dar manforte a quell'uomo che le aveva riferito il volere del Popolano maggiore, ne stavano arrivando un'altra mezza dozzina dal corridoio accanto – la milanese disse: “Come volete, non mi interessa. Dite al vostro padrone che io Giovanni l'ho amato quando era vivo. Ora che è morto, può tenerselo lui.”

E con quelle ultime parole, senza avere più la forza di tornare nella camera dove aveva perduto quello che per circa tre anni era stato il suo baluardo di stabilità, la Tigre uscì dal palazzotto, si fece ridare il cavallo con cui era arrivata poche prima e ripartì a spron battuto, il volto nascosto nella folta criniera dell'animale e un cielo senza stelle a farle da guida verso casa.

   
 
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