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Autore: Adeia Di Elferas    15/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La notte aveva lasciato il posto a una mattina dalla luce livida e incerta. L'aria, fino al giorno prima torrida come in piena estate, aveva una tonalità più autunnale e spirava una leggera brezza fresca che, però, Caterina non riusciva a sentire.

Aveva cavalcato nel buio profondo e adesso che il sola iniziava a illuminare la sua via, le dava quasi fastidio.

Non era ancora riuscita a ragionare in modo lucido su quello che era successo e in un certo senso non voleva farlo.

Stava conducendo il cavallo a velocità media, per non stancarlo. Non aveva alcuna voglia di fermarsi a una locanda per cambiarlo. Non avrebbe sopportato di interagire con qualcuno, in quel momento.

Voleva solo starsene chiusa nella propria mente, difendendola, per quanto poteva, da quello che le era appena piombato addosso.

Tuttavia, mentre attraversava la strada principale, imbattendosi in qualcuno di quando in quando, non riuscì più a mettere a tacere la propria coscienza e bastò uno sguardo veloce e casuale al nodo nuziale che portava al dito per riportarla con i piedi per terra.

All'improvviso, si sentì mancare il fiato nei polmoni e una nausea abbastanza forte da farle temere di dare di stomaco le strinse le viscere come in un pugno. Vide che non era troppo lontana dal limitare di un bosco e così, sotto gli occhi un po' stupiti di un postiglione che conduceva una carro mercantile, lasciò la strada per avvicinarsi alle piante.

Cavalcò per qualche centinaio di metri, senza nemmeno preoccuparsi di cercare di non perdersi e poi scese da cavallo, senza premurarsi di legarlo in qualche modo a un albero, tanto presa da se stessa da non trovare nemmeno la prontezza di sperare che la bestia non si allontanasse.

Stringendosi una mano sul ventre, laddove gli spasmi colici si erano fatti più forti, Caterina si inginocchiò in terra e venne scossa da un conato di vomito.

Sotto lo sguardo silenzioso e distante del cavallo – che non pareva intenzionato a scappare – la donna restò così per qualche minuto, ma il suo stomaco era così vuoto che non le uscì nulla, se non un po' di acido.

Con la gola che bruciava, la Contessa si ricordò di come non avesse messo nulla sotto i denti dalla sera prima di partire alla volta di San Pietro. Forse anche per quello si sentiva debole.

Si coricò sull'erba, gli occhi rivolti al cielo plumbeo e cercò di mettere a fuoco quello che le si agitava nel petto. Aveva perso l'uomo che amava, quello che, arrivato a casa sua per puro scherzo del destino, era riuscito a strapparla dal baratro in cui si stava lasciando cadere. Anzi, in cui era già scivolata. L'aveva presa di peso e l'aveva riportata su. E ora l'aveva lasciata sola.

Una rabbia improvvisa, non rivolta a Giovanni, ma al destino perfido che glielo aveva fatto trovare per poi portarglielo via tanto presto, la inondò come un fiume in piena.

Incapace di trattenersi e volendo sfogare la propria ira in qualche modo, la Tigre recuperò la spada che portava al fianco – che aveva con sè fin dalla partenza, in caso avesse avuto bisogno di difendersi lungo il tragitto – e senza un piano preciso cominciò a tirare fendenti prima all'aria e poi ai tronchi degli alberi.

Il cavallo si spostò un po', ma senza andarsene, benché il rumore secco dei colpi sul legno e le grida disarticolate della Sforza avrebbero saputo spaventare animali più coraggiosi di lui.

La donna andò avanti per parecchio tempo a colpire le piante che si trovava dinnanzi, immaginando che i tronchi chiari diventassero tutti quelli che l'avevano ferita in qualche modo: Lorenzo Medici e poi Girolamo Riario e poi Ottaviano, suo figlio, e poi il papa e gli Orsi, e i Marcobelli e i gli Orcioli e Lampugnani e di nuovo Lorenzo...

Alla fine Caterina non sapeva nemmeno più che cosa le stesse tirando fuori tutta quella furia. I ricordi si mescolavano e la recente morte di Giovanni riaccendeva il dolore mai sopito e ancora troppo vivo per la morte violenta di Giacomo e per quella improvvisa e sanguinosa di suo padre e poi quella insensata e prematura di suo figlio Livio, quella di sua madre e quella di sua sorella Bianca... E senza avvedersene, la Sforza arrivò a farsi sanguinare le mani, per la cattiveria che stava mettendo nei suoi fendenti.

Solo quando la spada le scivolò dalle dita si rese conto di quello che stava facendo. Stava facendo trucioli dei tronchi delle piante del bosco e le sue guance erano coperte di lacrime, la sua gola bruciava e i suoi occhi erano appannati. E tutto questo non avrebbe riportato in vita nessuno, nè avrebbe dato a lei alcuna parvenza di pace.

Si prese un po' di tempo per ricomporsi. Si pulì il sangue che era uscito dalle escoriazioni che si era procurata da sola alle mani e poi, sorprendendosi di vedere ancora il suo destriero lì accanto, gli si avvicinò e tirò su col naso.

Con un soffio ancora malfermo, Caterina riprese da terra la spada e la rimise nel fodero. Con una certa fatica – le gambe le tremavano per la debolezza – risalì sul suo cavallo e riuscì a ritrovare la strada più in fretta del previsto.

Impose alla bestia un'andatura abbastanza lenta. Ormai non aveva fretta. Decise che avrebbe passato quelle ore di viaggio a pensare al da farsi.

Questo voleva anche Giovanni, in fondo: che lei rimanesse presente a se stessa e facesse di tutto per assicurare il miglior futuro possibile a suo figlio.

Suo figlio... La Tigre strinse il morso al pensiero del piccolo Ludovico. Ricordava ancora le parole che le aveva sussurrato Giovanni. Non voleva che lo dimenticasse. E le aveva chiesto ancora se avesse pensato a un nome per sostituire quel 'Ludovico' che a entrambi ricordava troppo da vicino gli incubi e il passato di Caterina.

La donna in fondo aveva già deciso cosa fare, ma lasciò il pensiero in sosta, convinta che una volta tornata a Forlì, una volta stretto al petto il suo ultimo figlio, avrebbe saputo come muoversi.

 

“Trentaduemila ducati, di cui ventimila versati subito...” riassunse il portavoce del Consiglio dei Dieci: “Per liberare Pisa dall'assedio fiorentino.”

Francesco ascoltava senza dire una parola. Quel Consiglio aveva preso la decisione – a suo modo di vedere abbastanza repentina – di riprenderlo sotto una condotta anche vantaggiosa e, la cosa che più lo aveva stupito, era che si era giunti a quella conclusione malgrado il parere negativo del Collegio dei Pregadi.

“Però, sia chiaro e ovvio – riprese il veneziano, fissando il Marchese di Mantova di sottecchi – che ogni vostra truppa o pezzo d'artiglieria al momento al servizio del Duca di Milano o di chiunque altro...”

Il modo in cui quell'uomo sottolineò l'ultima parte fece rizzare i capelli sulla nuca del Gonzaga. Si rese conto subito che le sue trattative, che credeva abbastanza riservate, con la Tigre di Forlì erano state scoperte e che i settanta balestrieri che le aveva mandato e che, probabilmente, stavano arrivando nella sua città proprio in quelle ore, erano ben note al Doge e ai suoi Consiglieri.

“Ecco, sia chiaro che ogni sforzo in favore dei nostri nemici andrà distratto all'istante e riportato a nostro vantaggio.” concluse il veneziano.

Il suono raschiante della pioggia che batteva sui canali arrivava perfino in quella sala di rappresentanza e Francesco, benché le temperature si fossero abbassate in quei giorni, sudò profusamente, mentre assicurava: “Certo, certo, è chiaro e ovvio, come dite voi.”

“Bene. In tal caso...” il tono del portavoce stava chiaramente a indicare che l'udienza era da considerarsi conclusa.

Il Marchese fece un inchino un po' rigido e poi tornò subito al suo alloggio di fortuna. Scrisse all'istante una lettera che affidò a un suo messaggero di fiducia, affinché raggiungesse i suoi balestrieri in Romagna e ordinasse loro di tornare immediatamente indietro.

E poi scrisse anche a sua moglie Isabella, sperando di non scadere nel patetico, quando, non riuscendo a trattenersi, finiva per vantarsi un po' del suo successo. Se Venezia aveva deciso di riprenderlo con sè e di pagargli anche all'istante i primi ventimila ducati sull'unghia, qualcosa di buono doveva averlo fatto anche lui, in tutti quegli anni passati a menar le mani tra i campi di battaglia di tutta la penisola...

 

Era ormai sera, e il sole era tramontato all'orizzonte, quando Caterina finalmente arrivò in vista della sua città.

Aveva cavalcato molto più lentamente che non all'andata e adesso che scorgeva le mura di Forlì, fece rallentare ancora un po' il cavallo. Benché fosse stremata e avesse nello stomaco più acido che altro, la promessa di un letto su cui riposare e di qualcosa su cui mettere i denti non bastavano a farle passare il rifiuto che sentiva di avere verso quello che l'aspettava.

A Ravaldino probabilmente qualcuno intuiva, ma nessuno sapeva quello che era successo. Sarebbe spettato a lei riferire della fine che aveva fatto Giovanni, e non era pronta per affrontare le reazioni degli altri.

Finché teneva la cosa per sè, faceva meno fatica ad accettarla. E invece presto avrebbe rivisto i suoi figli, tra cui, soprattutto, l'ultimo, e sarebbe stata certamente travolta da domande a cui non voleva rispondere.

Mentre ancora lottava con se stessa verso la riottosità che sentiva verso tutte quelle prove che l'attendevano, la Tigre arrivò alle porte della città e, appena venne riconosciuta dalle guardie, venne lasciata entrare.

Arrivò pian piano fino alla rocca, attirando lo sguardo incuriosito di qualche forlivese che non era ancora rientrato a casa propria e poi, quando passò sotto la statua di Giacomo, sollevò lo sguardo verso la rocca e riconobbe, al primo sguardo, il profilo di Cesare Feo sulle merlature.

Capì subito che la stava aspettando perché appena la vide, disse qualcosa ai soldati che gli stavano accanto e sparì, probabilmente già sulle scale a chiocciola per andare di sotto ad accoglierla.

A quel punto Caterina attraversò il ponte con la cadenza di un condannato a morte e quando infine varcò il portone e si trovò davanti il castellano, smontò da cavallo e senza dire nulla, ignorò le domande dell'uomo – che chiedeva che fosse successo e come mai fosse già di ritorno – e cercò riparo al piano di sopra.

Quelli che la incrociarono azzardarono solo qualche frase di circostanza, ma la donna ignorò tutti quanti, fino ad arrivare nella sua camera.

Aprì e la trovò scura. Non c'era accesa nemmeno una candela e dalla finestra non filtrava altro se non il pallido riflesso della luna coperta da nuvole spesse e grigie.

La Contessa chiuse un momento gli occhi e poi si guardò attorno, come se non fosse mai stata in quella camera. Sulla scrivania c'erano ancora dei libri di suo marito e sapeva che nella cassapanca restavano gran parte dei suoi abiti.

A differenza, però, di come aveva reagito alla morte di Giacomo, non ebbe la tentazione di scappare da tutti quegli oggetti, al contrario. In quella camera sentiva ancora la presenza di Giovanni e, per quanto illusoria, provò un'immediata sensazione di sicurezza.

Riavvertendo all'improvviso la stanchezza, si andò a sedere sul letto, e lì rimase per qualche minuto, fino a che, rompendo il silenzio quasi perfetto di quella stanza buia, sentì qualcuno bussare con delicatezza alla porta.

Quei colpi erano troppo discreti per essere del castellano o di uno dei suoi armigeri, perciò chiese, con voce arrochita dal lungo silenzio: “Chi è?”

“Sono Bianca.” rispose la giovane Riario dall'altro lato della porta.

Caterina si morse il labbro. Da un lato voleva dirle di lasciarla in pace e scacciarla, ma dall'altro...

“Entra.” le rispose.

La ragazza, che portava con sè una candela, entrò subito e prima ancora di rivolgersi alla madre accese un po' di luci, per rischiarare l'ambiente. Dopodiché fissò la Contessa, come volesse indovinare qualcosa solo osservandone il viso.

La Sforza era abbastanza sicura di avere addosso una maschera difficile da interpretare. Lo sfogo condito da pianto e grida a cui si era abbandonata nel bosco risaliva a ore prima e quindi aveva fatto in tempo a ricomporsi.

“Cos'è successo?” chiese Bianca, dopo un po', forse non riuscendo a interpretare lo sguardo distante della madre.

In tutta risposta, Caterina guardò altrove e, prima che potesse frenarsi, sentì qualche lacrima tornare ad affacciarsi tra le ciglia.

La Riario allora capì e si portò una mano sulla bocca, sollevando gli occhi e scuotendo un po' il capo. Anche se l'aveva immaginato, sapere che davvero il suo patrigno non c'era più le stava aprendo una voragine nel petto.

Non sopportando quell'immobilità, la Leonessa si alzò e fece per andare alla finestra, ma prima che potesse farlo, la figlia la intercettò e l'abbracciò con forza, difficile capire se lo facesse per consolare la madre o se stessa.

Il calore della stretta della giovane ebbe il potere di sciogliere la Tigre per qualche istante. Non era la prima volta che capitava, ma in quel momento la donna rimase attonita nell'accorgersi dell'appoggio che sua figlia sapeva darle. La sentiva salda e sicura tra le sue braccia e, benché anche Bianca stesse piangendo e fosse scossa da qualche singhiozzo, bastava la sua presenza per rinfrancare l'animo della milanese.

Rimasero abbracciate fino a che entrambe non riuscirono a placare il pianto e solo a quel punto Caterina si allontanò un po' dalla figlia e, asciugandosi il viso con la manica del vestito, chiese: “E i tuoi fratelli come stanno?”

Bianca le spiegò che tutti, soprattutto Bernardino, erano in pensiero per Giovanni e che aspettavano con ansia sua notizie.

“Io...” sussurrò Caterina, rendendosi conto che con quell'affermazione la figlia intendeva dire che sarebbe stato meglio riferire della morte del Medici anche agli altri.

“Lo faccio io, se preferite.” si offrì Bianca, seppur con un crampo allo stomaco.

La Contessa annuì e la ringraziò e poi le chiese: “Potresti portarmi mio figlio?”

Non ci fu bisogno di specificare. La ragazza sapeva benissimo che la madre stava parlando di Ludovico e così, annuendo, lasciò subito la camera per andare a recuperare il fratello più piccolo.

Quando Bianca tornò, portava in braccio Ludovico che, non appena riconobbe la madre, tese in avanti le piccole braccia e fece capire alla sorella che preferiva essere preso dalla Tigre.

Questa accolse immediatamente la tacita richiesta del piccolo e, tenendolo con delicatezza, lo fissò per un lungo istante in viso e poi gli sussurrò: “Ti chiamerai Giovanni. Come tuo padre. Portando il suo nome, non potrai mai dimenticarlo.”

Bianca guardava senza dire nulla. Le passò vagamente per la testa come anche Livio, di primo nome, in realtà facesse Giovanni. Quel dettaglio, unito all'apparente pace che regnava su quella scena, rischiò di farla piangere di nuovo.

Mordendosi l'interno della guancia per controllarsi, la Riario guardò ancora di sottecchi la madre che, dando un lieve bacio sulla fronte del bambino, stava sussurrando: “Ci sarà sempre un Giovanni Medici con me...”

Passato ancora qualche minuto a tenere tra le braccia il figlio, la Contessa avvertì forte come non mai il desiderio di riposarsi e dimenticare tutto per qualche momento.

Chiese a Bianca di riprendere il piccolo e poi disse: “Domani stesso provvederò a organizzare un nuovo battesimo per lui. E poi incontrerò Fracassa, per discutere delle ultime novità. Ah, e...” con un sospiro spezzato, Caterina proseguì: “Bisogna avvisare anche Simone Ridolfi di quanto accaduto.”

“Quando arriverà il corpo di messer Medici?” chiese Bianca, mentre il fratello si dimenava un po' nella sua presa, come se volesse tornare dalla madre.

La Leonessa strinse le labbra e rivelò: “Non arriverà. Lo stanno portando a Firenze.”

“Ma...” provò a dire la Riario, non comprendendo quella scelta.

“Così ha voluto suo fratello e così sarà.” tagliò corto la Sforza: “Non è il caso di farsi una guerra per una cosa del genere. Giovanni non lo vorrebbe.”

Bianca annuì, anche se dal tono rotto della madre comprese quanto in realtà fosse stato difficile per lei rinunciare ad avere almeno la consolazione di una tomba vicina.

“Ti prego... Di' agli altri quello che è successo e poi fai scrivere e Ridolfi. Rendi noto al castellano che domani incontrerò Sanseverino e prega tutti quanti di non disturbarmi fino a domani mattina: ho bisogno di dormire.” concluse la donna, riacquistando, dopo le prime due parole, un piglio che la figlia conosceva anche troppo bene e che a volte non sopportava.

La giovane chinò appena il capo e poi uscì, lasciando che fosse la madre a chiudere la porta alle sue spalle.

Rimasta sola, Caterina prese il vino che stava sulla cassettiera. Non ce n'era molto, nella brocca. Lo vuotò di colpo e poi si svestì.

Senza avere la forza di cercarsi un abito per la notte, si infilò sotto le coperta, scossa da brividi legati più alla tensione che iniziava a smorzarsi che non al freddo, e prima che potesse perdersi di nuovo nei suoi pensieri, senza sentire più nemmeno la fame o la sete, si addormentò.

 

“Ma tuo fratello quando tornerà al Bosco?” le aveva chiesto Simone, la sera prima, appena dopo cena.

Lui e Tommaso si erano scambiati parole molto secche, perfino dure, mentre mangiavano e alla fine il Feo era anche arrivato a insinuare che la fiducia che la Tigre stava riponendo in Ridolfi fosse eccessiva, se non addirittura pericolosa.

Simone aveva ribattuto in modo abbastanza elegante, ma quando, poco dopo, aveva provato a esprimere il suo disappunto per la scelta della Contessa di mandare Giovanni a San Pietro in Bagno, dicendosi convinto che le acque salutifere delle terme non fossero quello di cui il cugino abbisognasse realmente, Tommaso aveva borbottato ancora qualche commento storto e così il Governatore aveva ribattuto e alla fine il Feo aveva lasciato la tavola, ritirandosi per la notte con largo anticipo.

Lucrezia guardava il marito dormire profondamente accanto a lei. Il suo petto ampio si alzava e abbassava tranquillo a ogni respiro e la sottile coperta che gli arrivava in vita copriva solo in parte il suo corpo massiccio e forte. La donna, che era sveglia da almeno un'ora, sentiva un leggerissimo freddo.

Forse era l'autunno che si stava avvicinando o forse era l'incertezza di quel momento a farla tremare un po'.

Era sempre stata una donna abituata a cavarsela. Prima era stata sradicata da casa sua, seguendo il padre in Romagna, poi aveva sposato un uomo ricco, che non aveva mai amato e che per fortuna era morto quando lei era ancora discretamente giovane. Dopodiché aveva incontrato sulla sua strada Simone e si era anche riappacificata un po' con Tommaso, che l'aveva sempre accusata di aver preso le distanze dalla famiglia, arrivando perfino a non mostrarsi neppure troppo affranta per la morte del loro fratello minore Giacomo.

Adesso, se il Medici era grave come sembrava, rischiava di trovarsi tra due fuochi. Da una parte Tommaso, fedele alla Tigre in modo quasi eccessivo, e dall'altra Simone, che cominciava a condannare in modo sempre meno velato la Sforza per alcuni suoi atteggiamenti e alcune sue decisioni.

Cosa le sarebbe convenuto, a quel punto? Seguire la linea favorevole alla Contessa, sperando che quella strana donna si ricordasse che in fondo erano cognate, oppure seguire...

Con una mano, accarezzò lentamente il ventre un po' ispido di peli del marito. Poteva chiamare amore, quello che provava per Simone?

Sospirò e gli si avvicinò, aggrappandosi docilmente a lui, sempre addormentato, tranquillo come un bambino, e si disse che contro la sua pelle si sentiva protetta e al sicuro. Forse, stando con lui, avrebbe finalmente dimostrato anche un briciolo di onore, oltre che di capacità di sopravvivenza.

Lucrezia era appena riscivolata nel sonno, quando, assieme alle prime luci dell'alba, uno dei servi arrivò a bussare alla loro camera.

Ridolfi si svegliò con difficoltà. Si era stancato moltissimo in quei giorni, e quella notte sua moglie aveva voluto restare con lui, finendo per farlo felice, ma anche per stremarlo ancora di più.

Lucrezia si tirò le coperte fino al mente, mentre Simone, senza pensare di vestirsi, raggiungeva la porta. Aprendola appena, si trovò davanti il domestico che, evitando di guardarlo, gli porse una lettera dicendogli che era appena arrivata da Forlì.

Simone si accigliò, ma ringraziò e congedò il servo, tornando in camera.

La moglie lo guardò con attenzione, mentre tornava a sedersi sul letto. Benché l'uomo apparisse preoccupato, nel fare quei pochi passi, alla donna aveva ricordato una statua antica. Malgrado fosse grande e grosso, era armonioso e ben proporzionato. Più ci pensava, più si chiedeva cosa la portasse a tradirlo tanto spesso e senza nemmeno nasconderlo.

“Tutto bene?” gli chiese, vedendolo sbiancare, mentre iniziava a leggere il messaggio.

Ridolfi si portò una mano alle labbra e i suoi occhi si velarono di lacrime. Finì in silenzio la sua lettura e poi porse la missiva a Lucrezia.

La donna non riconobbe la grafia, ma vide in fondo che era firmata da Bianca Sforza Riario, la figlia della Tigre. Dopo qualche frase appena, la Feo comprese perché suo marito si fosse messo a piangere.

Mettendo il foglio da parte, trovando improvvisamente la pallida luce che entrava della finestra del tutto foriluogo, Lucrezia si protese verso di lui e lo strinse a sè con decisione, mentre lo sentiva scosso sempre di più dal pianto.

Fu un momento strano, per lei. Nonostante fossero nudi e nel loro letto, l'uno tra le braccia dell'altra, l'unica cosa che la donna riusciva a provare in quel mentre era una triste dolcezza e una profonda comprensione.

Sapeva quanto fosse importante Giovanni, per suo marito, e lo aveva visto logorarsi giorno dopo giorno per il pensiero che aveva per lui. Adesso che il Medici era morto, Simone sembrava aver perso in un solo colpo tutta la sua sicurezza e la sua consueta spavalderia.

Accarezzandogli lentamente la nuca, Lucrezia gli sussurrò: “Mi spiace così tanto...”

Ma tutto quello che Ridolfi fu in grado di dire in risposta fu: “Io lo sapevo che non sarebbe tornato vivo da là...”

   
 
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