Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    17/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Niccolò Castagnino rise di gusto e Gaspare non riuscì a evitare di rispondere a quella risata con l'espressione più seria che conosceva.

Accanto al reggente faentino stava, spaurito e silenzioso, Astorre Manfredi. Aveva lineamenti molto belli e i suoi tredici anni lo rendevano un ragazzino a metà strada tra l'infanzia ancora florida e le forme flessuose snelle della prima adolescenza.

L'unica cosa che di lui restava realmente impressa, però, secondo il Fracassa, erano gli occhi. Non perché avessero un particolare taglio o un colore notevole, ma perché erano fissi, inespressivi, quasi come due pezzi di vetro.

“E perché mai, sentiamo, dovremmo impedire il passaggio dei veneziani in Val di Lamone? È risaputo che il Doge ci offre protezione e il passaggio ci farà guadagnare soldi che ci servono. Soldi che ci servono soprattutto per colpa della Contessa Riario, che ha ben pensato di ridurre quasi fino ad abolire i commerci tra le sue città e la nostra.” disse Castagnino, le iridi fredde che scrutavano quasi divertite il Sanseverino.

Questo si prese un momento e osservò con attenzione il salone del palazzo dei Manfredi e già di primo acchito lo trovò molto più ricco e curato di quello della Sforza. Lo avevano fatto attendere fino a quel mattino, lasciandolo dormire in un delle camere destinate agli ospiti importanti e non aveva potuto fare a meno di restare estasiato dal materasso soffice e dall'ottimo cibo che gli era stato offerto, benché si fosse fidato a mangiarlo solo dopo averlo fatto assaggiare prima al ragazzetto che glielo aveva portato in camera.

Tuttavia la pochezza di Castagnino e la strana lontananza che si leggeva nel volto di Astorre erano un segno di povertà immenso, rispetto a quel che si poteva trovare alla corte della Tigre, che, per quanto paresse grezza e un po' troppo informale, era un corte molto più viva e dinamica.

“Perché se li lascerete passare, ho ordine diretto del Duca di Milano di attaccarvi con il mio esercito.” disse il Fracassa, senza fare una piega.

Niccolò lo fisso un momento e poi scoppiò di nuovo a ridere, ma quella volta la risata gli morì in gola dopo pochi istanti: “State mentendo.”

“Se così credete... Vi assicuro che per noi sarebbe più semplice radervi al suolo e basta, ma la Tigre ci ha pregati prima di fare questo tentativo.” disse in fretta Gaspare, infilandosi i guanti e dando segno di esser pronto ad andarsene: “Ma se preferite essere attaccato...”

“Se ci attaccaste, Venezia interverrebbe..!” sbottò Castagnino, cominciando a sudare freddo.

“Certo. Vendicherebbe la vostra morte. Che bella consolazione, vero?” sorrise il Sanseverino e poi voltò i tacchi e si avvicinò all'uscio.

“Va bene!” esclamò allora Niccolò, preso dal panico: “Accettiamo!”

Astorre, accanto a lui, rimase del tutto impassibile, come se il suo tutore non avesse nemmeno aperto bocca.

“Vedo che siete meno stupido di quanto sembriate.” commentò a denti stretti Fracassa.

“Ma dite alla Sforza, che aspettiamo sua figlia, l'incantevole Bianca, qui a Faenza. Non più tardi di gennaio.” rimarcò il tutore del Manfredi, come a voler rimarcare comunque la sua importanza.

Gaspare sapeva, per precisa direttiva della Contessa, che quel matrimonio non doveva in alcun modo diventare effettivo e quindi sapeva già che la Leonessa non avrebbe mai mandato la figlia a Faenza.

Di certo non avrebbe gradito di sapere che lui si stava prendendo quell'impegno, ma in fondo a gennaio mancavano ancora più di tre mesi. C'era ben tempo di inventarsi qualcosa.

“È un piacere poter scendere a patti con qualcuno che capisce qualcosa.” concluse il Fracassa, tornando indietro e stringendo la mano a Castagnino.

Questi ricambiò con energia la stretta e poi aggiunse: “E direte alla Tigre che questa volta non accetteremo di essere menati per l'aia di nuovo.”

 

Era ormai tardo pomeriggio e Caterina aveva adempiuto alla corrispondenza – premurandosi di far sapere della morte di Giovanni anche Piero Landriani – e aveva fatto un ultimo giro nel Quartiere Militare, più per mostrarsi presente alle truppe che non per vera necessità.

L'aria si era fatta frizzante e sembrava che il caldo stesse davvero mollando un po' la presa anche se dal cielo plumbeo di quel 17 settembre non scendeva nemmeno una goccia di pioggia.

Non sapendo che fare, la Sforza vagò per un po' nel centro della città, ma non trovò alcun giovamento in quella decisione, perché tutti quelli che incontravano non facevano che rinverdire il suo dolore ancora troppo fresco per poter essere gestito in modo coerente e così, per sfuggire ai forlivesi, si trovò a bussare alla porta di Bernardi, che aveva già chiuso la sua barberia.

L'uomo le aprì subito e la invitò in casa, dove una pentola di maccheroni in brodo stava sobbollendo sul fuoco.

Lasciò che la Contessa si acclimatasse e non le mise fretta, benché avesse molte domande da farle in merito alla morte del Medici. Solo quando ebbe la pancia piena, la Tigre riuscì a dire qualche parola su quanto accaduto, e Bernardi si accontentò di quel poco che la sua signora riusciva a dire.

“Posso solo immaginare come vi sentiate.” sussurrò Andrea, posandole una mano sulla spalla.

Benché lui non fosse mai stato un gran sostenitore del Medici, si rendeva conto suo malgrado del suo valore e vedere la Leonessa in quello stato, per lui, era quasi peggio di quando l'aveva vista schiumante di rabbia alla morte del Barone Feo.

“Lui è stato l'uomo che mi ha insegnato la dolcezza. O almeno, ci ha provato.” sospirò la Sforza, prendendosi ancora un po' di maccheroni.

“Credevo che il Barone Feo...” provò a dire il Novacula, senza ragionarci davvero.

“Giacomo mi ha fatto scoprire il desiderio. Mi toccava con bramosia, mi voleva con l'irruenza della sua età. Giovanni è stato una cosa diversa.” confessò Caterina, gli occhi fissi al cucchiaio pieno di brodo: “Lui mi sfiorava con tenerezza e mi amava in modo più completo, più sicuro. Mi faceva sentire sicura. Ecco. Sicura è la parola giusta. Protetta.”

Bernardi non sapeva cosa dire, così evitò di aprire bocca finché la Leonessa non si fu sfamata e decise di andarsene.

Dopo averla salutata, il Novacula andò al suo scrittoio e riportò quello che la donna gli aveva riferito sulla fine del Medici e – un po' si sentì in imbarazzo – gli scesero dalle guance anche un paio di lacrime.

Nel frattempo la Contessa era uscita in strada e l'aria ricca di profumi e odori di quella che ormai era la sera inoltrata del settembre forlivese le riempiva le narici. Quello che si era lasciata scappare parlando con il Novacula aveva scosso lei per prima e quasi non si riconosceva in quella lucida valutazione.

La vita pulsava nelle vie del paese, anche a quell'ora, e dalle locande e dai lupanari uscivano voci e suoni di ogni tipo, e la Sforza si trovò ancora una volta a fare i conti con se stessa. Ci aveva pensato per tutto il giorno e adesso l'idea di tornare alla rocca e trovarsi di nuovo sola l'atterriva.

Si era sentita un verme, nel pensare a certe cose quando Giovanni era ancora vivo e adesso che lui non c'era più la sensazione era cambiata poco. Tuttavia, se prima, in qualche raro slancio di ottimismo, si era detta che il marito sarebbe potuto anche tornare vivo e vegeto da Pisa, adesso sapeva che non sarebbe tornato mai più e quindi resistere le pareva una lotta impari con se stessa e anche profondamente inutile.

Deglutì un paio di volte e prese il giro largo, ma alla fine tornò davanti alla porta del Bernardi e bussò con insistenza.

Sorpreso nel rivederla, il Novacula le chiese subito se avesse bisogno di qualcosa e così lei disse, senza un'ombra di incertezza, o almeno così parve al barbiere: “Andate a cercarmi il solito ragazzo del postribolo che sapete e fatelo venire alla rocca.”

Andrea di irrigidì e la guardò con sprezzo: “Non sono un vostro servo.”

Presa in contropiede da quella posizione, la Contessa ci mise qualche momento, prima di reagire e lo fece dicendo: “In tal caso provvederò da me. Scusate per il disturbo.”

Vedendola già partire a passo di marcia, Bernardi uscì in strada e la fermò, afferrandola per il braccio. Anche se gli dava il voltastomaco, tutta quella situazione, non voleva in alcun modo che lei si mettesse in mostra andando in un bordello a cercarsi compagnia davanti a testimoni.

“Va bene, va bene...” le disse, rapido, in un sussurro concitato: “Lo farò, ma questa è l'ultima volta che mi abbasso a fare una cosa del genere per voi. Sappiate che trovo riprovevole quello che volete fare, soprattutto dopo quello che mi avete detto su messer Medici... Non l'hanno ancora messo sottoterra e voi già pensate a...”

“Attento a come parlate.” lo mise in guardia Caterina, sollevando l'indice.

“Attenta voi a quel che fate.” ricambiò il Novacula, secco: “Il vostro potere su queste terre è solido, ma anche il potere più solido crolla come un castello di carte, se ci si soffia sopra con troppa forza.”

La Tigre non disse nulla, fissandolo e basta e alla fine il Bernardi mollò la la presa dal suo braccio e parve perdere gran parte del suo ardire.

“Allora lo farete?” chiese la donna, quasi con rabbia.

“Sì.” ribadì l'uomo.

“Bene. Dite che lo pagherò io personalmente, perché al momento non ho con me denaro.” precisò la Leonessa.

“Come preferite.” chinò il capo Andrea, che, in quel momento, si sentiva complice di un terribile peccato contro la memoria di un uomo come Giovanni Medici.

 

“Dannazione...” soffiò Ottaviano Manfredi, dopo aver ascoltato le parole di Paolo Vitelli.

Il campo era stanziato davanti a Cascina, difesa da Giacomo Savorgnano con trecento stradiotti e per il momento si era in una situazione di stallo, con nessuna delle due parti che cercava di smuovere le acque.

“Capite perché ho voluto parlarne anche con voi?” chiese Vitelli, fissando il faentino esule con i suoi occhi tondi: “Non vorrei mai che adesso che il Medici è morto, la Sforza decise di ritirare anche le ultime truppe che ha messo al mio servizio.”

“Che io sappia – fece Ottaviano, che pure ancora non si era ripreso da quella notizia – Corradini non ha fatto cenno a voler lasciare il campo.”

“Bene, bene...” disse allora il comandante e, con un paio di respiri pensosi, alla fine si risolse a lasciare il padiglione del Manfredi dicendo: “Se avete novità, fatemele avere. Devo sapere se gli uomini che militano sotto di me sono ancora fedeli a Firenze o meno.”

Il faentino annuì e poi, rimasto solo, tornò con la mente a quando il Medici era stato al campo pisano. Ricordava molto bene quell'uomo e gli dispiaceva saperlo morto più di quanto avesse potuto credere. Ripensò alle condizioni in cui aveva lasciato l'accampamento e si disse che in fondo era logico che non sarebbe durato a lungo.

Con un sospiro, gli tornò alla memoria quanto il suo amico Ottaviano Riario fosse affezionato a quell'uomo e così, più per riguardo a lui che non alla Tigre, si mise al tavolino da campo e, preso il necessario per scrivere, stese una lettera di condoglianze rivolta alla Contessa, non dimenticando di ricordare quanto Giovanni fosse stato fondamentale, per la campagna militare del Conte.

Quando la finì e la affidò a un corriere, si mise a camminare un po' per il campo, osservando il cielo grigio che si stendeva sopra di lui e si chiese, con un velo di malinconia, chi avrebbe scritto lettere per lui, se fosse morto nella battaglia che si stava apparecchiando. E la risposta fu semplice: nessuno, perché non ci sarebbe stato nessuno a cui inviarle.

 

Caterina aspettava che arrivasse il ragazzo che aveva mandato a cercare. Aveva passato un po' di tempo con il suo figlio più piccolo e poi si era ritirata subito, dicendo di non aver alcuna voglia di stare in compagnia.

Quando bussarono alla porta, perciò, pensò subito che fosse il giovane dai capelli e invece, quando aprì, si trovò difronte Bianca.

“Ti serve qualcosa?” le chiese, volendo togliersela di torno in fretta.

“Pensavo aveste bisogno di qualcuno vicino. Pensavo di portare qui anche Giovannino – disse, ricordandosi di usare il nuovo nome che era stato imposto al suo fratello più piccolo – e magari leggere qualcosa assieme o anche solo chiacchierare, se vi va... O stare in silenzio. Per me va bene tutto. Perché oggi vi ho vista molto...” la voce della Riario le morì in gola, quando riconobbe una strana sfumatura nelle iridi verdi della madre: “State aspettando qualcuno?”

La Tigre non rispose, ma il modo in cui incrinò le labbra di lato tolse ogni dubbio alla ragazza che, delusa, chiese: “State aspettando un uomo?”

Il tono in cui aveva posto quella domanda aveva ferito profondamente la donna che, in difficoltà, sostenne comunque il suo sguardo e ribatté, come avrebbe fatto a suo tempo se avesse avuto dinnanzi sua madre Lucrezia: “Non credo siano affari tuoi.”

Bianca deglutì a fatica. Con quella risposta, sua madre le stava confermando il suo sospetto. In quel momento avrebbe voluto dirle quanto la disprezzava, per quello che stava per fare, e quanta pena le facesse. La vedeva tesa, sofferente e si rifiutava di credere che avere un amante occasionale potesse davvero farla sentire meglio.

Per un maligno secondo, si chiese se avesse avuto altri uomini anche mentre Giovanni era a Pisa...

Alla fine, però, si morse la lingua e le disse solo: “Passate una santa notte.” e se ne andò.

Caterina tornò in stanza. Si morse l'unghia del pollice e poi sollevò lo sguardo verso il soffitto. Non sopportava il modo in cui Bianca l'aveva squadrata, nè il facile giudizio che aveva dato di lei.

Tuttavia, mentre l'attesa si prolungava ancora, la Sforza si trovò per caso a vedersi il nodo nuziale al dito. Colta da un improvviso pensiero, benché sapesse che non ci fosse un reale senso logico in quello che stava facendo, sela sfilò e la andò a mettere nel suo portagioielli, nel cassetto della scrivania.

Era un gesto sciocco, forse. In fondo un anello non significava niente. Era solo un pezzo di metallo.

Però la Leonessa si era resa conto che non sarebbe riuscita a giacere con un altro uomo tenendo al dito il simbolo della fedeltà coniugale.

Avrebbe potuto resistere, forse. Bevendo vino o distraendosi con gli affari di guerra, magari passando le notti a studiare le mappe.

Ma alla fine sarebbe esplosa. La stessa vicinanza di uomini come Giovanni da Casale le avrebbe fatto perdere la testa, prima o poi, e lei non voleva. E allora tanto valeva cercare sollievo in modo meno coinvolgente e meno impegnativo.

Anche Giovanni sapeva che non le sarebbe rimasta fedele, una volta che fosse morto. L'aveva capita molto più di chiunque altro, e se l'era fatta andare bene così com'era.

La fame che la Contessa non riusciva a gestire la pungolava da troppo tempo, e se aveva resistito fino a quella sera, era già molto, per lei.

Adesso che Giovanni non c'era più, combattere anche contro se stessa la sembrava troppo. Già c'erano i veneziani a farle la guerra, non era il caso di stare così male solo per non assecondare un bisogno del suo corpo.

Quando finalmente alla porta bussò il ragazzo del postribolo, la Leonessa andò ad aprire e lo lasciò entrare, in silenzio. Sentì l'aroma dei suoi olii profumati e scorse nella penombra della camera i suoi capelli chiari e il suo fisico asciutto, ma più virile, rispetto all'ultima volta che lo aveva chiamato alla rocca.

In fondo erano passati più di due anni...

Il suo viso aveva assunto tratti più decisi e, per quanto fosse chiaramente rasato di fresco, la barba chiara sembrava già pronta a ricrescere, rendendo la sua pelle un po' ispida. I suoi occhi azzurri, tranquilli, avevano qualcosa di diverso, e il suo copro, in generale, si era irrobustito, guadagnandoci in muscoli e perdendo in freschezza. In un certo senso, la Tigre fu contenta di trovarlo così cambiato. Se fosse stato come l'ultima volta, forse le sarebbe parso un ragazzino. Dopo Giovanni, era un uomo che cercava.

Caterina si morse il labbro e distolse lo sguardo, vergognandosi come una ladra. Anche il giovane fece altrettanto e pensò che quella era la prima volta, da che faceva quel lavoro, in cui si sentiva davvero in imbarazzo.

Per smuovere la situazione, fu lui a parlare per primo: “Non dovete vergognarvi, mia signora.” le disse, a voce bassa, provando ad avvicinarsi: “È umano, cercare un po' di calore...”

Quello fu visto dalla Sforza, che cercava disperatamente qualcosa o qualcuno che le togliesse il peso della colpa, come una sorta di autorizzazione a lasciarsi andare, almeno per qualche ora.

Si tuffò tra le braccia del giovane, ma, non appena lui provò a ricambiare la stretta con dolcezza, lei cominciò a cercare i lacci delle sue brache e così, inghiottendo quel poco di imbarazzo che ancora provava per quella strana situazione, il giovane si lasciò spogliare e la condusse a letto, facendo quel che poteva per consolare quella strana vedova che sembrava volerlo come un assetato nel deserto desidera l'acqua per dissetarsi.

 

Ludovico Sforza ascoltò le parole del messaggero e poi si chiuse in un pensoso silenzio. Era notte e il palazzo di Porta Giovia sembrava muto e freddo come una tomba.

Il Moro stava pensando a quello che gli era stato detto. Giovanni Medici era morto il 14 settembre, a un mese circa dal suo trentunesimo compleanno. E sua nipote era rimasta di nuovo vedova.

Sorprendendosi per primo della propria reazione, il Duca sentì un paio di lacrime scivolargli dagli occhi e un nodo stringergli la gola. Non voleva ritenersi un sentimentale, ma quel messaggio lo aveva colpito come pochi altri in vita sua.

“Calco...” chiamò a sè il cancelliere che, in vestaglione da notte era accorso subito quando aveva saputo che stavano arrivando importanti nuove dal centro Italia.

Il cancelliere gli si appropinquò: “Ditemi.”

“Portatemi il necessario per scrivere.” ordinò il Moro.

In pochi minuti l'altro gli sistemò davanti inchiostro e tutto quanto e Ludovico iniziò subito a scrivere. Iniziò esprimendo il suo cordoglio – sincero, stranamente – ma poi si fece più duro, come la situazione imponeva.

Terminò, prima di chiudere il messaggio e darlo alla staffetta: '...che è tutto periculoso, per cui è d'importanza che voi non vacilliate, non havendo chi vi tenga dritta, et so quello che dico.'

Una volta congedata la staffetta, lo Sforza si asciugò con cura gli occhi e poi disse con il suo cancelliere: “Dobbiamo stare attenti. Questo può cambiare tutto quanto. Mia nipote è imprevedibile e non possiamo sapere come reagirà alla morte di questo fiorentino...”

“Volete che convochi un Consiglio per domani?” chiese Calco, compito.

Il Moro annuì e soffiò: “Direi che è il minimo...” poi scosse appena il capo: “Quel poveraccio stava rendendo docile anche una belva come Caterina... Se solo non fosse morto adesso...”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas