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Autore: Nina Ninetta    19/06/2018    8 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 11
Continua a ballare, non fermarti


 
La palestra della scuola era stata adibita a sala da ballo. Quattro fari enormi proiettavano luci colorate a intermittenza, tutti gli attrezzi erano stati rinchiusi negli sgabuzzini e, nell’angolo in alto a destra, un paio di ragazzi diciottenni si divertivano a fare quello che forse amavano di più al mondo: i deejay.
Quando entrammo la musica house impazzava e rimbombava contro le pareti dell’enorme spazio vuoto e nel mio petto. A scatti vedevo corpi di adolescenti muoversi a ritmo, con la testa bassa, le braccia alzate verso l’alto e le gambe larghe, i capelli delle femmine oscillavano e a me vennero in mente degli zombie.
La sensazione della mano di Will sui reni mi ridestò da quell’intontimento, si chinò appena sussurrando all’orecchio di uscire e mi indicò la porta dell’uscita di emergenza spalancata che dava sui campetti. Mi limitai a rispondere di sì con un cenno della testa, senza scacciare le sue dita che si chiudevano intorno al mio polso mi accinsi a seguirlo tra la folla danzante. Da quando aveva frenato davanti a me, in piazza al centro, solo pochi minuti prima, non ero riuscita a scrollarmi di dosso la sensazione che c’era qualcosa di diverso in lui. Lo osservai da dietro: i jeans un po’ larghi che si mantenevano su per miracolo; la maglia di felpa a maniche lunghe con il cappuccio, rigorosamente scura con un disegno astratto sulla parte anteriore; i capelli, spesso ordinati alla poco-me-ne-fotto, erano stati acconciati con il gel e mi parvero anche più corti. Mi chiesi se fosse stata Lu a tagliarli e impomatarli. Alla fine mi convinsi che dovevano essere tutte quelle cose messe insieme – la maglia nera, i jeans hip-hop, i capelli pettinati – a donargli un’aria nuova, una nuova aura. Probabilmente, vedendomi conciata a quella maniera, doveva aver avuto la stessa impressione che lui aveva riassunto in due parole: “sei carina”.
Finalmente all’aperto lasciò la presa sul polso e si voltò indietro, il sorriso gli scemò dal viso:
«Che hai? Non ti senti bene?»
Fece per sfiorarmi le guance arrossate che sentivo ribollirmi, avvertivo contro la pelle l’aria da serata primaverile, quella brezza fresca e umida che si alzava dagli alberi e dall’erbetta sotto i nostri piedi. Arretrai appena, per non farmi toccare, dicendo che stavo bene.
Ad occhio e croce doveva esserci tutta la scuola quella sera, mi parve di scorgere anche qualche professore, alcune professoresse e la vicepreside. Willy continuava a fermarsi per scambiare il cinque con un compagno di classe, due bacetti sulla guancia con qualche ragazza che erano compagne di classe, come mi spiegò senza che glielo chiedessi, cosa mi indignò parecchio, ma mi sforzai di non rinfacciarglielo.
Mangiai rustici e pizzette, patatine e salatini a forma di animaletti e di figure geometriche, (William riusciva a trovare sempre qualcosa di perverso in quelle sagome); risi con lui e lui rise con me per le sciocchezze proferite, ridendo in faccia a quelli che ci oltrepassavano guardandoci in maniera strana per quanto forte sghignazzavamo. Alla fine ingurgitai tre o forse quattro fette di torta, dagli svariati gusti, fino a dover mandare tutto giù con un lungo sorso di coca cola, senza riuscire a trattenere un’inevitabile rutto.
«Scusa» dissi continuando a ridere come un’ubriacona e lui mi fissò sbalordito, mal celando un sorriso:
«Ma quanto mangi?»
«Di solito non mangio così tanto, ma stasera voglio strafare! Non ho più gare di nuoto da vincere e quindi il mio coach non può dirmi “devi tenerti in forma, Viola”» risposi, mimando la voce sempre un po’ rauca dell’istruttore, ringraziando dentro di me mamma per avermi creato quella sblusatura sulla pancia, in modo da nasconderne il diametro.
Passeggiammo senza una meta, saltellando da un buffet all’altro, inconsapevole degli occhi di Christian che da lontano ci scrutavano. Scelsi l’ultimo rustico ricotta e spinaci dal vassoio, lo addentai in un sol boccone e quasi mi strozzai quando Willy mi diede uno scossone:
«La senti?» Domandò a tutti e nessuno. Masticavo con difficoltà e a bocca piena risposi:
«Cosha dovrei shentire
«La canzone! È la mia preferita!» mi afferrò per lo stesso polso con cui mi aveva portata fuori dalla palestra e adesso mi ci stava trascinando di nuovo. «Andiamo a ballare.»
Non feci in tempo a dirgli di fermarsi che eravamo già davanti all’entrata, qui riuscii a impuntare i piedi nel terreno e per il contraccolpo lui tornò indietro e per poco non mi finì addosso. Gli tolsi la lattina di gassosa e la bevvi tutta, direttamente dall’apertura della bibita, proprio dove aveva bevuto lui. Mi pulii con il dorso della mano libera e gli dissi che ero pronta.
 
Volevo divertirmi. Volevo dimenticare tutti i pensieri che mi avevano afflitta in quell’ultimo periodo, volevo rilassarmi dopo il crollo nervoso di mamma, volevo scrollarmi di dosso l’insoddisfazione del quarto posto. Soprattutto volevo spassarmela e non pensare più a Cris, e se questo avesse comportato ballare con l’ultima persona sulla faccia della terra con cui credevo avrei condiviso quel momento lo avrei fatto, perché per la prima volta sentivo di meritarmi un po’ di svago vero, la spensieratezza e la leggerezza tipica dei sedici anni.
Ballammo una canzone latina che proclamò essere la sua preferita, mi disse il nome della band che la cantava e quando gli chiesi chi fossero, scosse il capo ed esclamò che ero proprio un’ignorante, ma prima che potessi replicare a quell’affermazione mi prese entrambe le mani e mi guidò in un ballo strambo e forsennato. Mi lasciai trasportare dal ritmo e dai movimenti del mio partner: una piroetta su me stessa, poi ritornavo faccia a faccia con lui, ridendo come bambini. Quindi due piroette, tre, quattro e di sicuro sarei finita con il culo sul pavimento se ogni volta che ritornavo nella posizione iniziale non ci fosse stato lui ad afferrarmi.
Ballammo come se non ci fossero altre persone intorno a noi; come se fossimo due amici datati, come se non ci fossimo presi a insulti fino a qualche settimana prima; come se non avessimo finto di essere fidanzati. Come se sapessimo tutto l’uno dell’altro. E forse era così, forse ci conoscevamo meglio di chiunque altro avesse fatto parte della nostra vita precedente al patto d’amore improvvisato.
Ballammo il charleston solo per scherzare e ridere di noi stessi, saltammo con le braccia in alto e le dita intrecciate e, tenendoci così, girammo a 360° sul posto, riprendendo con quei passi scoordinati, ma che tanto ci divertivano.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dai restanti sensi. L’odore di sudore si mischiava a quello dell’adrenalina, ai profumi maschili forti e a quelli femminili, più delicati. La musica che immettevano gli altoparlanti ci sbatteva addosso e io me la sentivo scoppiare nel petto, o chissà, magari era solo il mio cuore impazzito. Mi sentivo leggera, mi sentivo libera, avevo la sensazione che nulla di brutto sarebbe mai più potuto succedermi, era come tenere il mondo stretto in un pugno, quando nei miei pugni c’erano solo le mani di Will, calde e umide. E non le avrei mollate per nessuna ragione.
Lentamente la musica si addolcì, le luci si abbassarono e sulla pista da ballo rimasero pochi ballerini, per lo più accoppiati. I gruppi di soli uomini si fecero da parte, continuando a ridacchiare su di giri, quelli di sole ragazze si allontanarono a testa bassa, qualcuna lanciò uno sguardo furtivo al ragazzo che le piaceva, pregando un Dio che spesso dimenticava affinché la invitasse a ballare. Io e Willy non appartenevamo né al primo blocco, fatto di coppiette, né al secondo. Lo guardai, i suoi occhi scuri brillavano per effetto delle luci, aveva un’espressione serena e tranquilla e io per un attimo invidiai quella sua naturale calma che dimostrava anche nelle situazioni più imbarazzanti. Senza lasciarmi le mani se le portò dietro al collo in modo che lo abbracciassi e lì le lasciò, calando le sue sui miei fianchi. Non smise di guardarmi e a me scappò un risolino isterico, mentre ondeggiavo sospinta dal suo movimento regolare, impacciata e rigida, simile a un tronco d’albero:
«Mi sento stupida» dissi, per stemperare lo strano silenzio che era caduto fra noi.
«Tu sei stupida, Stellina» lo guardai male, immediatamente l’imbarazzo lasciò il posto all’irritazione, ma la sua voce non era irrisoria.
«Mai quanto te… idiota» risposi fra i denti e lui rise prendendomi per mano.
Finalmente  lasciammo la palestra che d’improvviso era diventata troppo piccola per me.
L’aria fresca fu un vero toccasana per la mia mente, più che per il mio corpo, benché fosse accaldato. Con un balzo salii sul muretto che divideva il campo di pallavolo da quello di basket, lo stesso dove William si era avvicinato qualche giorno prima, sporco e sudaticcio per la partitella di pallone che aveva disputato.
Lo osservai guardarsi attorno e quando adocchiò il signore delle bibite che stava facendo i bagagli, mi disse di aspettarlo lì e che correva a prendere qualcosa di fresco. Gli gridai dietro di evitare cose gassate per me e lui si voltò con un sorriso smagliante, urlando di rimando:
«Puoi scommetterci.»
Risi con lui e fu quando ancora tenevo quel sorriso sulle labbra e il naso all’insù, per contare le stelle e bearmi del vento che si stava alzando piano, che Christian si materializzò davanti a me, come per magia.
Mi mancò il fiato, il cuore prese a pompare in maniera compulsiva, lo stomaco fece un triplo salto mortale. Deglutii e mi riscoprii a provare una nuova emozione in sua presenza: la paura.

 

*****

 
Avevo conosciuto Christian dal parrucchiere, dove mi recavo almeno una volta a settimana con mamma quando aveva necessità di una messa in piega. Un giorno un bambino un po’ grassoccio e con tanti riccioli castani sulla testa sbucò da dietro i fianchi pronunciati di una donna di mezza età: sua nonna. La signora gli ordinò di sedersi sul divanetto, al mio fianco, e di aspettare in silenzio: le sentii dire alla commessa che l’accompagnava al lavabo che era il figlio di sua figlia, la quale lavorava in un supermarket e per questo doveva badare al nipote per mezza giornata, ogni dì.
La mia amicizia con Cris cominciò quella mattina d’estate, quando le scuole erano chiuse e il paese era immerso in una sonnolenza estiva, fra brusii di phon e civetterie di donne. Il destino ci fece trovare in classe insieme alle scuole elementari, qui gli sfottò degli altri bambini - che ci schernivano con l’appellativo di fidanzatini poiché eravamo inseparabili -mi avevano quasi allontanato da lui. Il solo pensiero di non giocare più a rincorrerci o a fare lunghe passeggiate in bici insieme, mi faceva venire la depressione, sicché mia madre andò su tutte le furie, perciò una mattina si presentò in classe, nel bel mezzo delle lezioni (cosa che lasciò la maestra di matematica a bocca aperta), minacciando i miei compagni che se avessero continuato a sminuire l’amicizia che legava me e Christian li avrebbe trascinati davanti al preside, massima autorità dell’istituto e temuto da tutti.
Smisero di insultare il mio rapporto con Cris, ma iniziarono a chiamarmi carota, carotina, carotella. Questa volta non dissi niente a mamma e mi tenni quei soprannomi, iniziando seriamente a odiare il colore bizzarro dei miei riccioli.
Alle medie fu peggio che andar di notte. Il nostro legame era sempre più strano agli occhi degli altri, le mie amiche mi dicevano che era impossibile che non lo amassi (amare a undici anni poi… sai che cosa seria!) o che non provassi niente per lui. Che non lo volessi baciare sulla bocca. Allora io scoppiavo a ridere: come si poteva desiderare di baciare un tredicenne con le fattezze di un bambino, appena più basso di me e brufoloso, sulla bocca? Il solo immaginare la scena mi dava il voltastomaco.
Dopo otto anni di carriera scolastica nella medesima classe, al Liceo le nostre strade si divisero. Come ogni estate anche quella che avrebbe sancito il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, andai a trascorrere i tre mesi più caldi dell’anno a casa della nonna paterna, in campagna e a pochi chilometri dalla costa, dove il mare era perennemente agitato. Quando tornai in città, mi recai al solito posto dove per anni io e Christian ci eravamo dati appuntamento per giocare o andare in bici, tuttavia qui non trovai il mio Cris, ma un’altra persona che gli somigliava vagamente.
In tre mesi Christian era cambiato, mutato, trasformato in un uomo: la voce era diventata più roca, le spalle più larghe e le braccia più sottili, i fianchi si erano ristretti e, soprattutto, si era allungato di non so quanti centimetri. Ricordo che quando mi si avvicinò per stamparmi un bacio di bentornato sulla guancia dovette chinarsi verso di me, che fui attraversata da una scossa elettrica che corse lungo tutto il corpo.

 

*****

 
Rimasi a guardare Christian con gli occhi sgranati, pregando solo che Willy non tornasse in quel momento.
«Ci sei tornata insieme? Con quello lì? Ci sei tornata insieme?» Mi urlò contro, indicando con un braccio spalancato Willy senza però voltarsi a guardarlo. Con un balzo scesi dal muretto, intimandogli di abbassare la voce, che non c’era alcun motivo di gridare. Innanzitutto perché lui non aveva il diritto di aggredirmi a quel modo; in secondo luogo perché non eravamo tornati insieme, avevamo solo pensato di farci un giro alla festa, niente di più.
Christian riportò il braccio lungo il fianco e chinò la testa, sembrava improvvisamente stanco. Fece un respiro profondo e mi disse una cosa che mi fece venire le gambe molli come gelatina:
«L’ho lasciata, Viola, l’ho lasciata per stare con te» alzò gli occhi e fece un passetto avanti. «Ma adesso mi chiedo: tu vuoi stare con me?»
Eccola lì la domanda da un milione di dollari.
Eccolo lì, il bivio della mia vita, il futuro dipendeva dalla risposta che gli avrei dato.
Eccola lì, la scelta che avrebbe potuto rendermi la ragazza più felice del mondo, oppure quella più triste.
Pensai a tante cose in quell’istante. Pensai a quando da bambini ci rotolavamo nei giardinetti pubblici a rincorrere i gatti a cui portavamo gli avanzi del pranzo. Pensai a tutte le volte che ero caduta per rincorrerlo e mi mettevo a piangere e lui tornava indietro per darmi conforto. Pensai alla tristezza che governava il mio cuore quando partivo per le vacanze estive e alla felicità di rivederlo ai piedi dello scivolo, circondato da altri bambini che lo incitavano a giocare con loro, ma lui era impassibile e mi aspettava, perché il gioco dovevamo iniziarlo insieme. Sempre e comunque. Pensai a quando lo rividi quell’estate, totalmente cambiato in ogni aspetto, tranne nei modi dolci che sempre mi riservava, senza paura che gli altri potessero prenderci di mira. Perché a volte i bambini sanno essere dei veri bastardi! Pensai alle emozioni che mi aveva trasmesso quell’innocuo bacio sulla guancia dopo l’ennesima estate trascorsa a casa della nonna, e al vuoto profondo, un pozzo senza fondo, che avevo provato quando lo avevo visto con Jenny, alla sensazione di terrore che avevo sentito al pensiero che non saremmo più potuti essere come eravamo. Pensai all’abisso che avrei provato perdendolo di nuovo e allora capii che questa volta non sarei sopravvissuta, non una seconda volta.
«Sì» dissi con la voce emozionata e gli occhi che brillavano. «Io voglio stare con te.»
L’incertezza e il dubbio sparirono dal suo volto, lasciando il posto ad un ampio sorriso sincero che non gli vedevo da troppo tempo. Si avvicinò e mi accarezzò il viso, la sua mano era grande e confortante.
Intanto William se ne stava immobile a pochi metri ma noi, con le bibite che era andato a comprare in ciascuna mano, il suo viso non lasciava trapelare alcuna emozione particolare. Avrei voluto dirgli che anche io ce l’avevo fatta, avevo raggiunto l’obiettivo iniziale del nostro patto segreto, così come lui aveva raggiunto il suo, seppur a discapito di Christian e di Jenny.
Ero così felice ed egoista che non riuscivo a comprendere il male che avevo fatto alle persone che dicevo di voler bene e, addirittura, di amare.
Fu a quel punto che Cris mi baciò, profondamente e con passione, cercandomi e pretendendomi. Lo allontanai con delicatezza, con un mezzo sorriso, imbarazzata di condividere quel momento così intimo davanti a Will, ma quando mi voltai quest’ultimo non c’era più. Christian riprese a baciarmi, proprio da dove eravamo rimasti.
  
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