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Autore: Adeia Di Elferas    20/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il suono sordo e pesante di un corpo ormai senza vita che toccava terra dopo l'ennesimo colpo ricevuto riecheggiò nella cella illuminata quasi a giorno.

Caterina poteva sentire l'odore del sangue e della morte nelle narici e avvertiva uno spiacevole dolore alle nocche delle mani, sintomo dei pugni che aveva continuato a dare senza tregua per quella che le era parsa un'eternità.

Nel silenzio innaturale della cella, che somigliava sempre di più all'ingresso di una chiesa, La Tigre si chinò verso il cadavere e fece molta fatica a voltarlo sulla schiena, perché le sue carni erano viscide di sangue e l'osso sporgeva dalla ferita lacera della coscia.

Quando riuscì finalmente a girare il corpo, facendo sì che il volto venisse illuminato dalle candele della chiesa, riconobbe il viso di Giovanni, non cereo e patito, come quando l'aveva lasciato a San Pietro in Bagno, ma ancora roseo e con l'ombra costante di un sorriso, come quando l'aveva conosciuto.

Però, era indubbiamente senza vita.

Inorridendo per quello che aveva dinnanzi, la donna indietreggiò, l'odore dell'incenso che le riempiva i polmoni e le voci del coro della chiesa di Santo Stefano che intonava: “Sic transit, gloria mundi...”

Nell'andare all'indietro, sentì qualcuno alle sue spalle, guardò con il fiato corto di chi si trattasse e rivide lo sguardo confuso e spaurito di Girolamo che si accendeva all'improvviso della furia che lo prendeva sempre quando si imponeva su di lei...

Cercò di gridare, ma dalla sua gola non arrivava nemmeno una sillaba, e quando finalmente riuscì a dar fiato alla sua paura, si risvegliò di colpo, saltando a sedere sul letto, il cuore in gola e la schiena e la fronte madide di sudore.

Ci mise qualche istante a capire dove fosse e qualche minuto per riconoscere la mano che le stava massaggiando la spalla per farle coraggio.

Nel buio della stanza che aveva occupato per mesi, prima di conoscere Giovanni, il ragazzo del bordello la stava osservando un po' preoccupato, senza dire nulla.

La Contessa chiuse un momento gli occhi, cercando di calmarsi e di ricostruire quel che era successo la sera prima. Ricordava di come quel giovane si fosse lasciato svestire e l'avesse fatta stendere. E poi lei si era resa conto di non volerlo sullo stesso letto che aveva condiviso tante volte con il suo ultimo marito. Gli aveva chiesto di fermarsi e poi gli aveva detto che non potevano restare lì.

Era bastato uscire dalla camera e spostarsi di un paio di metri per entrare in quella che Caterina a volte aveva considerato la sua tana.

A quel punto, non si era più data freni e aveva preteso dal ragazzo quello per cui lo avrebbe pagato.

Dopo, quando lui già si stava alzando dal letto per rivestirsi e andarsene – come, in fondo, aveva dovuto fare tutte le altre volte che era stato in quella rocca – la Sforza lo aveva fermato e gli aveva sussurrato: “Ti prego, resta.”

Sorpreso, il giovane si era rimesso sotto il lenzuolo con lei che, però, già gli dava le spalle. Dopo una breve esitazione, lui l'aveva abbracciata stretta a sè e la milanese, sfinita, si era addormentata.

L'incubo che l'aveva svegliata si stava lentamente dissolvendo nella sua mente, anche se il senso di inquietudine che le aveva messo addosso permaneva.

Si rimise coricata e lasciò che il suo amante andasse avanti ad accarezzarle lentamente il braccio, per tranquillizzarla.

“Perché mi avete voluto qui, stanotte?” chiese il giovane, che dalla sera prima non riusciva a darsi una risposta precisa: “Messer Medici è morto da pochi giorni... Credevo lo amaste così tanto da...”

“Non sta a te fare certi discorsi.” lo zittì la donna, quasi tentata di farlo andare via, visto che ormai, dal colore del cielo oltre la finestra pareva che l'alba non fosse lontana.

“Almeno ditemi perché avete cercato ancora me e non un altro.” disse piano il ragazzo, smettendo di accarezzarla, ma continuando a guardarla.

Caterina, che invece teneva lo sguardo fisso al soffitto, ci mise un po' prima di rispondere: “Vuoi la risposta gentile o quella sincera?”

“Entrambe.” fece lui, puntellandosi sul cuscino con il gomito per osservarla meglio: “Ma prima la gentile.”

“Va bene...” soffiò la Tigre, coprendosi accuratamente con il lenzuolo fino alla gola: “La risposta gentile è che sei bravo nel tuo lavoro. Ed è vero, sia chiaro: io credo che tu sia molto bravo in quello che fai. Se non lo fossi, di certo dopo la prima volta non ti avrei voluto più. Il mondo è pieno di gente che si vende per due soldi: avrei provato uno dei tuoi amici.”

“Ho capito.” disse il giovane, l'espressione sul viso che si induriva appena: “Quindi mi avete trovato bravo, ma non è la risposta completa, giusto?”

“Infatti.” annuì la Sforza, che in fondo non avrebbe voluto fare discorsi simili, ma che trovava sollievo nel parlare, perché così non sarebbe ripiombata nel sonno e da lì nei suoi incubi: “La risposta completa è che tu sei bravo e che sei pagato per fare quello che voglio io. Per compiacermi e tenere la bocca chiusa. Senza contare che sai quello che fai, e quindi io posso rilassarmi di più. È molto più sicuro, per me, passare una notte con te, piuttosto che con il primo diciottenne che trovo nei baraccamenti.”

Dopo quelle parole, il giovane si chiuse un momento in uno strano silenzio. Probabilmente stava valutando le parole della donna ed era difficile capire cosa ne pensasse.

Tuttavia, mentre Caterina lo fissava, nella luce appena più chiara del momento che precede l'alba, i suoi occhi rimasero di nuovo rapiti dal suo fisico prestante e disponibile. Così, prima che il ragazzo potesse esprimere una qualsiasi idea, la Contessa si impose di nuovo su di lui, esigendo che si impegnasse fino in fondo, in modo da giustificare appieno il prezzo dei suoi servigi.

Quando ormai il giorno era cominciato e la Leonessa aveva placato a sufficienza la sua fame, il giovane finalmente si sentì dire che poteva andarsene, stando ovviamente attento a non farsi vedere e riconoscere da troppa gente, lunga la strada per l'uscita.

La Sforza lo pagò, come promesso, e gli disse che in caso di bisogno, avrebbe fatto recapitare un messaggio al postribolo, senza più dover usare il Novacula come intermediario.

Appena lo ebbe chiuso fuori dalla camera, Caterina tornò sul letto e, un po' stranita, ebbe, per la prima volta dal giorno prima, chiara davanti a sè la cifra di quel che aveva fatto.

Le mani aperte sul lenzuolo ancora umido di sudore, le narici piene del sentore del ragazzo che era appena andato via e sul corpo la sensazione ancora viva della sua pelle e delle sue mani.

Si vestì con gli abiti della sera prima e tornò nella camera che aveva diviso con il marito per cercarsi vestiti adatti per la giornata.

Dopo essersi cambiata e risistemata, cercò nel cassetto il nodo nuziale e se lo rimise. Lo guardò un momento, mentre riluceva ai pallidi raggi del sole settembrino.

Un nodo le strinse la gole e mille spilli le punsero gli occhi mentre, ricacciando indietro una lacrima di pentimento e ineluttabile colpevolezza, sussurrò, dopo aver sfiorato l'anello con le labbra tremanti: “Perdonami.”

 

“Posso vedere la Contessa?” chiese Gaspare Sanseverino, dopo che l'ebbero lasciato entrare a Ravaldino.

Cesare Feo sollevò un sopracciglio e disse solo: “Se si degnerà di uscire dalla sua stanza.”

Il condottiero guardò per un momento il castellano, vagamente colpito dal suo tono quasi severo, ma poi distolse subito l'attenzione perchè sentì proprio la voce della Leonessa.

“Siete tornato, finalmente!” esclamò lei.

C'era un velo di durezza eccessivo, nella sua voce, e questo dettaglio portò Fracassa a chiedersi che diamine fosse successo alla rocca mentre lui non c'era.

“Avanti, ditemi che cosa avete risolto a Faenza.” lo invitò la donna, senza guardarlo, facendo cenno al Feo di lasciar loro libero lo studiolo per poter parlare in pace.

Il Sanseverino le spiegò di come fosse riuscito a far desistere Castagnino dal proposito di far passare i veneziani e poi buttò lì, affettando una certa leggerezza: “In cambio mi ha domandato di ribadirvi che vostra figlia dovrà arrivare a Faenza entro gennaio...”

“Mi auguro che per allora Astorre sia carne per vermi.” commentò a denti stretti la Contessa, incrociando le braccia sul petto e guardando verso la finestra.

Il sole che quel mattino prometteva una giornata abbastanza luminosa era stato prontamente coperto da uno spesso strato di nuvole grigie e a quel punto, pensava lei, l'unica cosa sensata da fare era sperare che almeno piovesse, dando un po' di respiro alle campagne.

Gaspare non ebbe nulla da ridire sull'esternazione della Tigre, ma anzi rincarò sottolineando: “E così anche tutti i veneziani.”

“A proposito di veneziani...” Caterina si premette una mano sugli occhi, sospirando come se stesse per iniziare un discorso che non le piaceva per nulla.

Al Fracassa sembrava molto provata, come se avesse passato una difficile notte, probabilmente insonne, e stesse ancora combattendo con qualcosa che la pungolava senza sosta. Volendo seguire il buon senso, l'uomo pensò che fosse normale, dato che aveva perso l'amato marito da così pochi giorni...

“Il capo delle mie spie mi ha fermata, prima che arrivassi qui, per dirmi che Vincenzo Naldi è stato visto a Ravenna e sta cercando una condotta stabile con Venezia.” disse la Leonessa.

“E quindi?” chiese Fracassa, cercando di capire cosa avesse di tanto tragico quel dettaglio: in fondo in tanti combattevano per Venezia e lui non aveva mai sentito nominare quel Naldi come un combattente particolarmente dotato.

“E quindi lui conosce queste zone come le sue tasche. Averlo contro e così vicino per noi è un grosso problema. Anche se dalla nostra resta Dionigi Naldi, che sa come prenderlo, per noi resta un grandissimo guaio, lo capite? Dunque voglio che scriviate a mio zio convincendolo a mandarmi più soldati.” spiegò la Sforza: “E inoltre...”

Il sospiro che seguì aveva qualcosa di affranto. Ancora una volta Fracassa non capiva quanto ci fosse nel suo atteggiamento di preoccupazione dello Stato e quanto di dolore personale per questioni ancor più personali.

“Pare che gli emissari del Doge vogliano chiedere anche a me di permettere il passaggio ai suoi. Secondo le mie spie, Venezia mi crede distrutta per la morte di Giovanni...” la voce le mancò per qualche istante, ma poi, quando riprese a parlare, lo fece con una fermezza che vibrava di rabbia: “E così pensano che sia pronta a cambiare bandiera da un giorno con l'altro. Come se fossi solo una povera donna sola e spaventata che non sa a chi aggrapparsi!”

L'uomo non sapeva cosa dire, perciò rimase in silenzio, attendo che la Contessa si ricomponesse un minimo. Ci volle qualche minuto, ma alla fine la Sforza tornò atona e distante come quando prendeva decisioni importanti.

“Ovviamente non ho alcuna intenzione di cedere alle loro proposte. Ma per resistere alle loro pressioni ho bisogno di soldati e armi. Vi prego, cercate di convincere mio zio a mandarmi quanto mi serve, ne va della mia vita e della salvezza del mio Stato.” disse di nuovo Caterina, che non avrebbe voluto lasciar trasparire quell'ultimo alone di ansia, che invece le sue parole avevano sbandierato.

Fracassa sospirò e annuì: “Farò quello che posso, ma non so quanto il Moro mi ascolti. Dalla morte di sua figlia Bianca Giovanna, tutti noi Sanseverino abbiamo perso un po' di presa nei suoi confronti...”

“Quello che potete è già molto.” tagliò corto la donna, che non aveva più voglia di dilungarsi in certi discorsi: “E ora perdonatemi, ma ho da fare. Vi comunicherò le vostre prossime mosse nel tardo pomeriggio. Adesso devo andare in chiesa.”

Gaspare si accigliò, un po' colto di sorpresa da quell'ultimo inciso, tuttavia annuì senza commentare e si inchinò quando la Tigre gli passò accanto congedandosi.

 

Bartolomeo si guardò alle spalle. I settecento fanti svizzeri e spagnoli che doveva scortare indenni per farli ricongiungere agli altri uomini comprati da Piero il Fatuo lo seguivano in una fila ordinata e veloce.

Si sentiva un idiota a perdersi in azioni come quella. Sapeva benissimo che suo cognato Giampaolo Baglioni e con lui lo stesso Medici esule lo avevano relegato a quella missione solo ed esclusivamente per impedirgli di far danni.

Secondo loro stava alzando troppo la voce, benché in realtà ci fossero giorni in cui le uniche parole che uscivano dalle sue labbra fossero un paio di secchi ordini alla truppa, e stava spargendo troppo sangue.

A quelli che lo pagavano non interessava nulla della guerra tra Venezia e Firenze. La stavano solo sfruttando per indebolire il ramo Popolano dei Medici e instaurare di nuovo una Signoria che avesse come guida Piera. E all'Alviano quei giochi di potere ignobili e per lui inutili non piacevano.

Voleva cambiare padrone e stava già gettando, con discrezione, le basi per passare al lato veneziano. Stava sfruttando i metodi che aveva imparato da suo suocero. Si muoveva nell'ombra, senza fare piazzate come invece dicevano facesse il Gonzaga.

“Mio signore...” il suo attendendo risalì la colonna fino a portare il proprio cavallo accanto a quello di Bartolomeo: “Ci sono notizie importanti...”

L'altro gli fece un cenno con il capo, come a dire che poteva parlare, così l'altro cercò di farsi il più vicino possibile e, parlando a voce abbastanza alta da sovrastare il battere degli zoccoli in terra, ma non tanto da farsi sentire dalla prima linea che li seguiva, disse: “Ci mandano a dire che Giovanni Medici, il fratello di Lorenzo, è morto qualche giorno fa della malattia della sua famiglia, e pare che a Firenze stiano nascendo agitazioni alla Signoria.”

Bartolomeo si voltò allora verso di lui, fissandolo a lungo con i piccoli occhi e poi, sporgendo un po' in fuori il labbro sottile, tornò a guardare dritto davanti a sè, mentre il cavallo scartava un po' di lato per evitare un avvallamento del terreno.

“Credo che sia meglio sfruttare questa incertezza per indebolire ancora di più il Popolano e imporre Piero...” fece notare l'attendente.

L'Alviano strinse il morso e disse solo, più per farlo tacere che altro: “A me non piacciono le vittorie facili.”

Non sapendo come interpretare quell'esternazione, il soldato si schiarì la voce e decise di riportare il discorso su un piano a lui più congeniale: “Dico alla truppa di fermarci appena entrati nel bosco e cominciare a organizzarsi per mangiare?”

“No.” rispose subito Bartolomeo: “Tiriamo dritto fino a sera.”

Chinando appena il capo, lo stomaco che borbottava, l'attendente non recriminò e tornò in fondo alla colonna, laddove il suo signore gli aveva chiesto di stare.

 

Ottaviano Riario era tornato in città appena in tempo per presenziare al battesimo del fratello. Era stata Bianca a scrivergli per avvertirlo e lui aveva voluto esserci a tutti i costi, sia per togliersi per un po' dall'ambiente a lui non congeniale dei soldati e sia perché il piccolo era pur sempre il figlio di Giovanni e dunque si sentiva in dovere di esserci.

In chiesa non c'era nessuno, a parte i membri della famiglia e un paio di Capitani. Il giovane sollevava di quando in quando lo sguardo sulla madre che, malgrado tutto, sembrava profondamente distratta, come se le parole del prete le stessero scivolando addosso, così come il pianto di Ludovico – ormai Giovanni – che si ribellava all'acqua fredda con cui il religioso lo stava bagnando.

Ottaviano, in realtà, era ancora più deconcentrato di sua madre. Poco prima di tornare a Forlì era riuscito a venire a sapere che una ragazza che per certo aspettava un figlio suo era stata mandata dalla famiglia a Imola per partorire. Siccome aveva promesso al suo patrigno di comportarsi da uomo, in casi del genere, aveva cercato di contattare la giovane e la famiglia, dicendosi intenzionato a riconoscere il nascituro come figlio proprio. Di per sè, a parte il dover sborsare un vitalizio, un figlio illegittimo era poca cosa, per uno nella sua posizione, ma temeva come non mai la reazione di sua madre e dunque per il momento aveva deciso di tacerle tutto.

Accanto alla Tigre stava Bianca, vestita di scuro, un velo di pizzo nero sulla testa, a coprire i capelli biondi. Benché fosse un battesimo, la Riario non se l'era sentita di smettere il lutto portato in ricordo di Giovanni.

Lei e Galeazzo erano ai lati della madre e nessuno dei due stava davvero pensando a quello che il prete stava dicendo.

Fratello e sorella, poco prima di andare in chiesa, avevano discusso a riguardo della madre. Anche se di norma preferiva non impicciarsi degli affari di Bianca, ma l'aveva vista molto tesa e così le aveva chiesto se fosse successo qualcosa. Adesso che il Medici era morto, Galeazzo si sentiva come non mai investito di un ruolo protettivo nei confronti dei fratelli e della sorella e quindi voleva vederci chiaro.

Con difficoltà, la Riario era riuscita a spiegargli che era un po' in ansia per la loro madre, e gli riferì anche quello che era successo la sera prima, mettendolo al corrente del fatto che la Leonessa pareva del tutto intenzionata a ripercorrere una strada deleteria che già aveva imboccato alla morte di Giacomo.

Galeazzo si era trovato in forte imbarazzo, nel ragionare su quella sfera della vita della madre, ma alla fine l'aveva difesa, dicendo a Bianca che in fondo era una donna ancora giovane e di potere e che quindi non era una colpa tanto grave, quella di cui si stava macchiando.

La sorella non era stata del tutto d'accordo e così tra i due era sceso un velo di incomprensione che li stava accompagnando anche durante la celebrazione del battesimo del fratello.

Appena dietro di loro, tra Sforzino e Cesare – il primo dall'aria spaurita, il secondo con il capo chino a sciorinare orazioni in silenzio – c'era Bernardino che, sul volto il segno di una recente zuffa tra bambini, se ne stava imbronciato, ma cercando comunque di partecipare alla funzione. Dopo il primo momento di smarrimento e rabbia pura che aveva provato nel sapere che il Medici era morto, si era reso conto che il suo fratello più piccolo era tutto ciò che gli restava ancora di Giovanni e dunque, in memoria del patrigno, che lo aveva sempre trattato con gentilezza e rispetto, si era imposto di partecipare con tutto se stesso alla funzione e di proteggere come meglio avesse potuto il piccolo.

Quando il prete restituì alla madre il bambino, Caterina ne guardò il viso e fu felice di vedere come, una volta di nuovo tra le sue braccia, si fosse già calmato e avesse smesso di piangere.

Mentre il bambino tirava un paio di sospiri spezzati, ultimo residuo del pianto riottoso in cui si era esibito mentre veniva ribattezzato con il nome del padre defunto, la Sforza si rese conto di essere stata distratta per tutto il tempo e di non aver nemmeno sentito quando l'officiante aveva annunciato il nuovo nome del bambino.

Aveva passato tutto il tempo a pensare, fondamentalmente, a una lettera che le era arrivata quella mattina.

Era da parte di Ottaviano Manfredi che, oltre a farle sentite condoglianze per la sua perdita, le proponeva di prendere in seria considerazione la sua proposta in merito a un'alleanza tra loro, volta a distruggere il dominio di Astorre su Faenza.

'Ho inoltre conoscenze assai – aveva sottolineato il faentino – per porre in fallo i sostenitori dell'Ordelaffi che sempre concupisce lo Stato vostro'.

Non ultimo, il Manfredi chiedeva di potersi presentare a Forlì per discutere di persona di quella collaborazione. La Contessa non aveva ancora risposto e voleva prendersi almeno un paio di giorni di tempo per decidere.

Lo stesso Giovanni le aveva consigliato, settimane addietro, di dare una possibilità all'esule faentino, tuttavia la donna sapeva che portare dalla sua Manfredi sarebbe potuto risultare un affronto, per Firenze. Quell'uomo era alle dirette dipendenze, in quel momento, della Signoria e saperlo intento ad accordi privati con lei...

Il prete dichiarò conclusa la cerimonia battesimale e la Tigre, come tutti gli altri, accettarono la sua benedizione e lasciarono la chiesa, tornando definitivamente ciascuno ai propri pensieri.

Non appena varcò la soglia della rocca, Caterina si trovò davanti Giovanni da Casale. La donna, vedendolo preoccupato, diede il figlio a Bianca, pregandola di portarlo in stanza, visto che si stava alzando un vento fastidioso, di modo che non si raffreddasse, e così anche gli altri figli capirono di lasciarla da sola con il soldato.

“Che c'è?” chiese la Leonessa, scrutando gli occhi scuri e seri dell'uomo.

“I balestrieri del Gonzaga stavano cavalcando verso Forlì – spiegò, lo sguardo che scivolava inconsciamente di continuo dal viso della Contessa alle sue spalle lasciate un po' scoperte dall'abito leggero che portava – ma sono stati richiamati, pare. Il Marchese di Mantova è tornato al soldo veneziano, o almeno così sembra.”

La Sforza si sentì mancare la terra sotto i piedi. Tutto il piano difensivo studiato in quei giorni si disgregò nella sua mente in un solo istante.

Vedendola impallidire, Giovanni da Casale le posò una mano sulla spalla, per farle coraggio: “Non temete, mia signora – le disse – io e i fratelli Sanseverino non vi abbandoneremo. Ce la faremo.”

La Tigre annuì, ancora scossa per la novità, ma abbastanza presente a se stessa dal sentire la stretta calda delle dita dell'uomo sulla sua pelle. Era un po' ruvido, nei modi e non solo, ma non le dispiaceva.

Con un gesto apparentemente casuale si sottrasse alla sua presa e gli passò accanto: “Dite a tutti che è convocato un Consiglio nella stanza della guerra. Voglio tutti presenti entro un'ora.”

 

“Io dico di mandarle un nuovo ambasciatore.” prese a dire uno dei membri della Signoria: “Che le ricordi i patti siglati con noi e la incitino a mostrarsi sempre fedele a Firenze!”

Il Gonfaloniere di Giustizia si trovò d'accordo, mentre Lorenzo Medici ancora inveiva, dicendo che Firenze non doveva avere più nulla a che fare, con quella donna.

“Voi parlate solo per livore nei suoi confronti! Solo perché vostro fratello ha preferito morire a casa sua che nella vostra!” rimbeccò uno di una fazione avversa.

“Che ne sapete voi, di mio fratello?!” sbottò il Medici, alzandosi di scatto dal suo scranno, con due dei suoi che lo tenevano per le vesti per impedirgli di avventarsi sul suo rivale.

“Messer Machiavelli...” tagliò corto il Gonfaloniere, che trovava la decisione molto semplice da prendere: “Chi si potrebbe mandare per questo arduo compito? Tutti sappiamo che l'appoggio della Sforza ci serve, ma sappiamo anche che quella donna è difficile da capire e da domare...”

Niccolò, Segretario della Repubblica, era stato già sollecitato in mattinata a ragionare sul da farsi e alla fine aveva trovato una rosa di nomi papabili.

Alla Signoria si discusse ancora fin quasi a sera, quando finalmente si giunse alla decisione di mandare Andrea Pazzi, che ancora aveva molto, per via del suo cognome, da farsi perdonare alla città.

“Porterà con sè cinquemila ducati, in modo che possa assoldare tremila nuovi fanti.” concluse il Gonfaloniere, dopo che si fu certi dell'impossibilità e del rischio di mandarle direttamente gli uomini: “E conforterà la Tigre di Forlì, rassicurandola sul nostro appoggio e ricordandole a chi va la sua fedeltà. In fondo, per volere stesso di suo marito, Caterina Sforza ha la cittadinanza fiorentina, e come lei tutti i suoi figli. Se non vuole che Firenze la ripudi, sarà bene per lei ricordarsi queste cose...”

 
   
 
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