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Autore: Kim WinterNight    21/06/2018    1 recensioni
Scappare non è sempre simbolo di codardia. Ognuno di noi ha un motivo valido per cui vorrebbe scappare da qualcuno o qualcosa: chi per dimenticare, chi per liberare la mente, chi per accompagnare qualcun altro nella fuga, chi per uscire di casa, chi per volere di un'entità superiore...
Ma tutti, forse, lo facciamo per cercare un po' di libertà e per rendere noi stessi più forti e capaci di ricominciare a lottare.
DAL TESTO:
Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. [...]
Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte. [...]
«Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato. [...]
«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.
«Avresti rifiutato» si giustificò.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, John Dolmayan, Nuovo personaggio, Serj Tankian, Shavo Odadjian
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ReggaeFamily

Decisions

[Shavo]




Sospirai. Trovarmi a San Diego mi faceva sempre un effetto particolare, come se quella città fosse in grado di scaricare tutta la tensione che sentivo.

Avrei voluto che Leah fosse con me, ma lei era impegnata nel suo nuovo lavoro ed era giusto che fosse così. John le aveva offerto un'opportunità unica e io ne ero estremamente felice.

Da quando lei mi aveva confessato quali erano i suoi dubbi e io le avevo fatto una scenata incredibile, mi sentivo spesso in colpa nel ripensarci.

Mentre stazionavo su un taxi, ricevetti un messaggio su WhatsApp. L'ennesimo. Sbuffai ed estrassi lo smartphone dalla tasca dei jeans, rendendomi conto che l'ultima notifica proveniva da Leah.

La aprii e rimasi di sasso a leggere ciò che mi aveva scritto.


Shavarsh, volevo solo dirti che ti amo tantissimo. E non mi sento stupida a dirlo. Ti amo. E mi manchi.


Non me lo aveva mai detto, mai scritto così. Per un istante mi parve di toccare il cielo con un dito, poi però mi resi conto che doveva essere successo qualcosa.

L'ansia mi assalì, così scorsi velocemente le altre notifiche e trovai un paio di messaggi da parte di John. Li aprii senza neanche rifletterci sopra.


Non volevo disturbarti, so che sei a San Diego. E forse non dovrei intromettermi, ma Leah è appena andata via di corsa. A casa sua c'è sua madre, temo possano litigare furiosamente.


Leah sembrava molto scossa. Mi dispiace, dimmi se posso fare qualcosa.


Erano stati inviati l'uno a poca distanza dall'altro, e poi John non mi aveva più scritto né chiamato.

Guardai l'orario sul display: erano appena le quattro del pomeriggio, e quei messaggi risalivano all'incirca a due ore prima.

Il messaggio di Leah era arrivato da pochi minuti, questo poteva significare solo una cosa.

Fui indeciso se chiamare la mia ragazza o il mio amico, sentendomi invadere dal panico più totale e buio. Infine optai per la seconda possibilità: se Leah si fosse trovata ancora in compagnia di sua madre, sicuramente non avrebbe risposto.

Selezionai il nome di John e feci partire la telefonata. Il batterista rispose dopo un po'.

«John! Che diavolo è successo?» sbottai, non appena udii la sua voce all'altro capo della cornetta.

«Ehi. Non so niente, Leah non è ancora tornata in negozio» ammise lui in tono dispiaciuto.

«Cazzo! Mi ha detto che ieri ha litigato con suo padre, oggi torna all'attacco sua madre... dev'essere una gran bella giornata di merda per lei!» brontolai, beccandomi un'occhiataccia dal conducente del taxi. Forse il tipo non apprezzava il mio linguaggio scurrile, ma io non potevo curarmi di lui in quel momento. Ero fuori di me.

«Puoi dirlo forte...» John si interruppe e poi sospirò brevemente. «Prova a chiamarla, forse ha bisogno di te.»

«Okay, amico, grazie per avermi avvisato.»

Il batterista si schiarì appena la gola. «Shavo? Non dirle che l'hai saputo da me, non vorrei si arrabbiasse. Sai com'è fatta Leah...»

Annuii tra me e me. Certo che lo sapevo: era riservata e detestava che qualcuno sbandierasse in giro i fatti suoi senza che lei lo sapesse.

Ringraziai John per l'ennesima volta e fissai lo schermo del cellulare, sul cui sfondo avevo impostato una foto di me e Leah che era venuta particolarmente bene. Lei aveva asserito più volte che quello scatto fosse orribile, ma io non le avevo mai dato retta e l'avevo tenuto, facendole presente che del mio smartphone potevo fare ciò che volevo.

Sorrisi appena, poi mi decisi a chiamarla. Dovevo sapere come stava e cosa fosse successo, anche se ciò avrebbe significato interrompere una sua conversazione con sua madre.

Ascoltai gli squilli a vuoto con un po' di apprensione, fissando dritto davanti a me.

«Shavo!» esordì lei, e subito notai che il suo tono allegro nascondeva qualcos'altro.

Mi ha chiamato Shavo, è un brutto segno, pensai.

«Ehi. Che succede? Perché hai quella voce?» sbottai, senza riuscire a controllare le sensazioni negative che si stavano impossessando di me.

La sentii ridere con sarcasmo. «Mi chiami per chiedermi che succede? Solo perché ti ho scritto quel messaggio?»

Aprii la bocca per dire qualcosa, ma subito la richiusi. Rimasi semplicemente in silenzio, non sapendo come scoprire qualcosa su sua madre senza farle intendere che sapevo già tutto.

«No» buttai fuori all'improvviso. «Ti ho chiamato perché ho letto il tuo messaggio e volevo risponderti a voce. Ma poi ho sentito il tuo tono e...» aggiunsi, sperando che lei mi credesse.

«Oh... okay. Il punto è che... mia madre si è presentata a casa mia, costringendomi a tornare a Paradise durante la pausa pranzo.»

«Tua... madre?» biascicai.

«Hai capito bene, Cecily Vickers, quella stronza. E sai che c'è? È pure incinta!» sbraitò.

«Per favore, Leah, cerca di calmarti. Dove sei?» le suggerii, avvertendo la preoccupazione amplificarsi ancora nel mio petto.

Sbuffò. «Sono sull'autobus, sto tornando da John. Che situazione di merda! Vuole farmi credere che lei e Alan sono i miei genitori e che sono preoccupati per me! Ma pensa te!» strepitò.

Immaginai che stesse gesticolando come una matta, con gli occhi infiammati per la rabbia e il viso paonazzo. Avrei voluto poterla stringere a me e rassicurarla, ma anche quella volta dovetti arrendermi all'evidenza che chilometri incalcolabili ci separavano.

«Leah, piccola, ti prego... cerca di stare tranquilla. Ascolta, facciamo così: vai da John ora, resta con lui. Io mi vedo con Sonny, sento un po' cosa vuole e poi prendo il primo volo per Las Vegas. Okay?»

Leah rimase in silenzio per un attimo, poi replicò: «No, Shavo, no! Non puoi correre qui ogni volta che faccio i capricci, chiaro? Me la vedrò da sola! io... me la caverò, non è successo niente. L'ho cacciata di casa e le ho ordinato di non farsi mai più vedere! Non devi assolutamente provarci, chiaro? Tu fai ciò che devi fare e basta! Cavoli, non avrei dovuto dirtelo» blaterava.

Io non la stavo più a sentire: avevo già preso la mia decisione.

Anzi, ne avevo preso due.


«Allora, Shavo? Cosa ne pensi? A me farebbe molto piacere organizzare questa serata. Un dj mi serve, non posso affidarmi a qualcun altro» stava dicendo Sonny, mentre ce ne stavamo chiusi nel suo studio di registrazione.

Mi aveva fatto sentire un po' di nuovo materiale che stava componendo con i P.O.D., poi si era prodigato a spiegarmi cosa aveva in mente: voleva organizzare una serata di beneficenza a Los Angeles e aveva pensato di affidarsi a me per selezionare la giusta musica. Aveva intenzione di suonare con la sua band, ma necessitava di qualcuno che ricoprisse il ruolo di dj e sapesse esattamente cosa mettere su in ogni momento.

Avremmo potuto parlarne al telefono, ma io avevo insistito per andarlo a trovare, dal momento che non ci vedevamo da tempo e in quei giorni non avevo particolari impegni. Mi sarei dovuto fermare da lui per una o due notti, ma avevo già deciso di ripartire il prima possibile.

«Dico che si può fare. Senti, se vuoi ti aiuto a trovare delle altre band che vogliano suonare durante la serata. Secondo me potrebbe venir fuori qualcosa di buono, e anche svilupparsi più in grande» gli consigliai, osservando con ammirazione il suo enorme e professionale mixer. Era una bomba, mi piaceva da matti. «Per la serata potrei usare questo gioiellino» insinuai, sfiorando appena alcune manopole colorate.

«Non penso proprio, questo bestione non uscirà mai dal mio studio» scherzò Sonny, battendomi amichevolmente sulla spalla. «Apprezzo molto il tuo aiuto, ma non preoccuparti. Ho già delle band emergenti da far esibire, tutti questi giovani ragazzi sono molto entusiasti di partecipare a questa serata. E tutto sarà perfetto con un selecta come te.»

Ridacchiai. «Sono stato in Giamaica, non mi freghi con queste parole in patois, amico» scherzai.

«Sul serio?» Sonny cercò il mio sguardo. «E quando ci sei andato?»

Sorrisi ancora. «In primavera, a maggio. È stato fantastico. E ora che ci penso: ti devo portare i saluti da una persona» dissi all'improvviso.

Il mio amico inclinò il capo di lato e mi fissò confuso. «Di che parli?»

Lo osservai e sghignazzai. «Sai che i dreadlocks ti stavano proprio bene?» lo canzonai.

«Questo non c'entrava niente, Odadjian! Chi hai incontrato in...» Strabuzzò gli occhi e si bloccò, fissandomi con improvvisa consapevolezza. «Non dirmi che... hai incontrato Eek?» sbottò.

Annuii con vigore e sollevai il pollice. «Indovinato! Lui e Barrington Levy» spiegai fieramente.

«Cazzo! Quel vecchio stronzo di Eek! Non lo sento da una vita, come sta?» volle sapere Sonny, per poi lasciarsi cadere su una sedia imbottita accanto alla mia.

Mi venne voglia di fumare e mi guardai attorno. Volevo uscire da quello studio, starci chiuso troppo a lungo mi dava una sensazione di claustrofobia, forse perché non ero più abituato a trascorrere tante ore all'interno di un ambiente insonorizzato che sembrava quasi una bolla sospesa sul resto del mondo.

«Usciamo a fumare e ti racconto» gli dissi, per poi alzarmi e frugare nelle mie tasche.

«Okay.»

Raggiungemmo in fretta il balcone che si affacciava su un grande parco immerso nel verde, e io mi appoggiai con i gomiti alla balaustra, mentre Sonny costruiva una stecca di erba.

«Dicevo... eravamo in giro per Kingston, abbiamo visto una locandina di un evento e abbiamo deciso di andarci. Sembrava divertente. Bryah, una giornalista musicale che abbiamo conosciuto laggiù, conosceva i due artisti e ci ha voluto accompagnare a tutti i costi» spiegai.

«Oddio! E com'è andata?»

Ridacchiai. «Sono stati loro a riconoscere noi. Eek ha fin da subito preso Daron in simpatia e gli ha fatto un discorso insensato che ci ha fatto morire dal ridere. C'è stato uno scambio assurdo di foto e autografi, e i due poi ci hanno regalato qualche loro disco. È stato incredibile!»

Sonny mi batté sulla spalla. «Hai avuto una fortuna pazzesca.»

Annuii. «Lo so. E poi hanno insistito per rimanere in contatto con noi, così ci siamo scambiati il numero di cellulare.» Mi bloccai d'improvviso e mi voltai completamente verso Sonny. «Ehi! E se li invitassimo alla serata di beneficenza?» proposi.

Il mio amico mi fissò per un attimo. «Sai che ti dico?»

«Cosa?»

«Che sei un fottuto genio!»


Sonny aveva insistito perché mi fermassi a dormire da lui almeno per una notte, facendomi intendere che anche sua moglie e i suoi figli ne sarebbero stati contenti. Lo avevo ringraziato tantissimo, ma avevo rifiutato.

E ora, mentre mi trovavo sul volo notturno diretto a Las Vegas, non mi pentivo della mia decisione. Volevo andare da Leah, avevo qualcosa di importante da dirle e sentivo che lei aveva bisogno di me.

Mi ero accordato con John, mentre correvo in aeroporto, affinché stesse con lei finché non fossi arrivato. Lui aveva accettato senza pensarci due volte e mi aveva assicurato che le sarebbe stato accanto, portandola con sé nel piccolo appartamento che aveva affittato in vista del tempo che avrebbe trascorso a Las Vegas per via di Torpedo Comics.

Mi gettai letteralmente giù dall'aereo, travolgendo numerosi passeggeri che stazionavano per inerzia nel corridoio e cercavano di recuperare i loro bagagli stipati nelle cappelliere.

Mi beccai diverse imprecazioni, ma non mi importava. Dovevo correre da Leah, ed era già l'una meno venti di notte.

Dovetti attendere il mio turno per prendere un taxi, e maledissi tutto l'afflusso di passeggeri che anche a quell'ora sciamava disordinato sul marciapiede illuminato da forti lampioni dalla luce giallastra.

Una volta seduto a bordo, comunicai all'autista l'indirizzo che John mi aveva inviato su WhatsApp e cercai di rilassarmi sul sedile mentre l'auto procedeva fin troppo a rilento per i miei gusti.

Quando giungemmo a destinazione era l'una e dieci. Pagai la corsa con una banconota da cinquanta dollari e dissi all'autista di tenere il resto, poi mi scaraventai giù dall'auto, trascinandomi dietro il mio modesto bagaglio.

Suonai il campanello che John mi aveva indicato e attesi. Un attimo dopo, un click mi avvertì che il portone si era aperto. L'appartamento si trovava al secondo piano, così ignorai la presenza dell'ascensore e salii di corsa le scale, senza preoccuparmi di star facendo un baccano infernale.

Quando giunsi di fronte alla soglia, lei era Leah: indossava una canottiera e un paio di pantaloncini leggeri, sulle spalle teneva un plaid bordeaux e i piedi carezzavano nudi il pavimento di linoleum. I capelli erano legati disordinatamente sulla nuca e qualche ciuffo ricadeva sul viso, adombrandolo un poco. I suoi occhi scuri erano malinconici e parevano volermi rimproverare.

Lasciai andare il mio borsone e di slancio abbracciai Leah, tenendola stretta a me con tutte le forze che avevo. Lei posò la testa sul mio petto e ricambiò il mio gesto, tremando leggermente tra le mie braccia.

«Leah, come stai? Oddio, ero così in ansia...» sussurrai, affondando il viso tra i suoi capelli.

«Shavarsh... sto bene, ma tu...» Mi spinse via e mi guardò negli occhi. «Sei impazzito? Ti avevo detto di non farlo!»

John ci raggiunse sulla soglia e rimase in silenzio, avvolto nei suoi abiti scuri e in un velo di discrezione.

«Amico! Grazie, davvero, grazie! Hai prenotato la stanza che ti avevo chiesto?» domandai al batterista, accostandomi a lui per salutarlo con un breve abbraccio fraterno.

«Certamente» confermò lui con un lieve sorriso. «Lei sta bene, davvero. La tua ragazza è forte, Shavo» sussurrò.

Leah lo affiancò e annuì. «Diglielo! Ha fatto una cazzata!» Poi si rivolse al batterista. «E tu l'hai assecondato! Sei impazzito anche tu?»

John le arruffò affettuosamente i capelli. «Adesso basta protestare. Andate a riposare, domani pomeriggio alle tre ti voglio al lavoro!» esclamò.

«Okay, capo!» Leah si allungò per dargli un bacio sulla guancia, poi corse dentro per rimettersi le scarpe.

«John, grazie. Senti...» Mi guardai attorno e cercai di capire dove si trovasse la mia ragazza. La sentii muoversi in una stanza all'interno dell'appartamento, così proseguii a bassa voce: «È davvero un casino continuare così. Sono molto ansioso, saperla lontana da me mi uccide».

John sospirò. «Shavo, non puoi trasferirti a Las Vegas o correre qui ogni volta che c'è un problema. Leah ha ragione» mi fece notare con calma.

«Ma noi stiamo insieme, io non riesco a...» Scossi il capo, togliendomi il cappellino da baseball e prendendo a farlo roteare tra le dita.

«Shavo. Non essere impulsivo, rifletti.» Il mio amico mi batté sulla schiena. «Su, dormi e non pensarci. Domani tutto ti sembrerà diverso, più semplice. Davvero.»

Ci guardammo negli occhi e io pensai che potesse davvero avere ragione. Del resto, John aveva sempre ragione.

Leah ricomparve nell'ingresso e rivolse un'occhiata al batterista. «Tengo il plaid, te lo riporto domani a Torpedo.»

John ci salutò e si richiuse la porta alle spalle.

Presi Leah per mano e feci qualche passo, ma lei si fermò prima che potessimo scendere le scale.

«Che c'è?» le chiesi con sospetto.

«Ti detesto» sibilò.

«Perché?»

Sospirò. «Perché sei venuto fin qui.»

Mi portai di fronte a lei e le sollevai il mento con due dita, guardandola negli occhi nonostante la penombra. Non dissi neanche una parola, mi limitai a fissarla per un po', poi mi chinai a baciare teneramente le sue labbra. Infine la lasciai andare a presi a scendere le scale.

Poco dopo lei prese a corrermi dietro. «Shavo!» strillò.

E io pensai che in quel momento qualcuno avrebbe chiamato la polizia a causa di tutto il baccano che stavamo facendo.


John aveva prenotato una camera in un alberghetto a poca distanza dal suo nuovo appartamento. Avevo calcolato e organizzato tutto mentre andavo in taxi dallo studio di Sonny all'aeroporto. Sì, ero stato impulsivo anche stavolta, ma non riuscivo a pentirmi di essere corso dalla mia donna. Non ce la facevo.

Mentre giacevamo immobili tra le lenzuola, immersi nel buio e nel silenzio, sentivo che quella notte non avremmo fatto l'amore. Non che io non desiderassi stare in intimità con Leah, ma avevo capito che non era il caso. E avevo bisogno di parlare con lei, di tenerla tra le braccia e coccolarla senza arrivare a nient'altro.

«Ti va di raccontarmi cos'è successo?» sussurrai, rompendo il silenzio.

Lei sospirò e si sottrasse alla mia stretta. Si inginocchiò sul materasso e cominciò a spogliarsi, poi fece lo stesso con me finché entrambi non rimanemmo in biancheria intima. Poi tornò a stendersi accanto a me e mi si rannicchiò contro, intrecciando le gambe alle mie.

Era successo diverse volte che ci spogliassimo senza poi entrare in intimità, limitandoci a parlare o a stare in silenzio uno tra le braccia dell'altra. Era il nostro modo per stare più vicini, per sentire il calore che solo i nostri corpi insieme sapevano sprigionare.

«Sei anni. Shavarsh, sono passati sei anni» cominciò Leah con voce amareggiata. «E adesso lei ha il coraggio di comparire nuovamente nella mia vita? No, non esiste.»

«Aspetta un figlio?» chiesi, ricordando ciò che Leah mi aveva detto al telefono.

«Una sorellina, ha detto. Che stronza. Chissà da chi si è fatta mettere incinta» commentò con disprezzo. «Io non voglio pensarci. L'ho cacciata, così come ieri ho tagliato fuori Alan Moonshift dalla mia vita. Sono esseri spregevoli e io non voglio averci niente a che fare.»

Accarezzai la sua schiena nuda e sospirai. «No, infatti non devi pensarci. Devi seguire il tuo cuore e il tuo istinto, e se questi ora ti suggeriscono di stare alla larga dai tuoi genitori, be'...» Feci una piccola pausa. «Nessuno può dirti se sia giusto o sbagliato. Forse hai bisogno di tempo, forse no. Però per ora cerca di stare tranquilla e di pensare solo a te stessa» le suggerii, sperando che i miei consigli non fossero banali o inutili.

«Hai ragione. Lo so bene. Però mi sono infuriata così tanto!» esclamò, aggrappandosi a me con più forza.

«È normale, Leah. È comprensibile.»

«Tu sei impazzito, comunque» cambiò discorso, mollandomi un piccolo pugno sul petto.

«Senti, Leah...» Mi feci serio e mi scostai appena da lei, in modo da poter cercare il suo sguardo.

«Dimmi. Che c'è? Com'è andata a San Diego?» mi chiese, sollevandosi su un gomito per potermi osservare meglio.

Le accarezzai la guancia con delicatezza. «Dopo te lo racconto, ora ascoltami. Per me è davvero difficile starti lontano. Vengo assalito dall'ansia e dalla preoccupazione se solo penso che... okay, be'...»

«Shavarsh, cosa stai cercando di dirmi?» volle sapere lei, lanciandomi un'occhiata sospettosa.

«Avevo pensato di trasferirmi a Las Vegas e di chiederti se ti andasse di vivere con me...»

«No! Sei impazzito? È uno scherzo? Tu non puoi... hai una vita, una casa... hai...»

Le posai un dito sulle labbra. «Aspetta, lasciami finire. Ci avevo pensato, ti giuro che avevo deciso di proportelo.» Sospirai e mi grattai dietro l'orecchio. «Però poi ci ho pensato bene. A volte prendo delle decisioni avventate, sono impulsivo. Ma ho capito che non posso chiedertelo. Non posso chiederlo né a te né a me stesso. Ho anche pensato che avresti potuto venire a Los Angeles da me, ma tu adesso hai un lavoro qui. E io ho tante cose da fare e da gestire nella mia città.»

Leah annuì con vigore. «Esatto. Non è il momento.»

Ci guardammo negli occhi per un po', poi lei si accostò a me e mi baciò lentamente sulle labbra.

La strinsi a me e ricambiai il gesto, approfondendolo con calma, in modo che quel contatto risultasse fluido e dolce, intenso e colmo di tutto ciò che sentivo per lei.

«Lo vorrei tanto, ma per ora è meglio lasciare che le cose stiano così» sussurrò, accarezzandomi teneramente il viso.

«Lo so anche io, me ne rendo conto perfettamente» ammisi. «E John mi ha invitato a rifletterci.»

«John è fantastico!» affermò Leah, tornando ad accoccolarsi accanto a me. «Allora? Mi racconti di San Diego?» ripeté dopo un po'.

Le raccontai di Sonny, della sua idea per la serata di beneficenza e della mia proposta di invitare anche Eek-A-Mouse e Barrington Levy.

«Hai avuto un'illuminazione fantastica!» esclamò, agitandosi per l'eccitazione. «Io voglio esserci assolutamente!» aggiunse.

«Ma certo! Sarà una serata memorabile, ne sono certo. Sonny non sbaglia mai in queste cose.»

Leah sbadigliò. «Già.» Si stiracchiò sensualmente al mio fianco.

I miei occhi percorsero lentamente il suo corpo magro e pallido, avvertendo il bisogno di accarezzarlo e prendermene cura, ma subito mi resi conto di quanto fossi stanco.

Avevo viaggiato per quasi tutto il giorno, e in quel momento tutto si stava riversando sul mio corpo. Sbadigliai a mia volta e chiusi gli occhi.

Leah mi diede le spalle e io la abbracciai da dietro, facendo aderire il mio petto alla sua schiena.

«Leah?» mormorai.

«Dimmi» biascicò.

«No» risposi. «Niente.»

«Su, dimmelo» mi incoraggiò.

Sospirai, accarezzando distrattamente la sua pancia. «Mi ha fatto piacere ricevere quel messaggio» spiegai con cautela.

La sentii sorridere. «Sei uno sciocco. Tutto qui?»

«Be', sì...»

«Buonanotte, Shavarsh.»

«Sogni d'oro, Leah.»

  
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