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Autore: Adeia Di Elferas    22/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Il messo veneziano vi attende.” disse a voce bassa Luffo Numai, raggiungendo la Tigre mentre era a tavola.

La donna si asciugò le labbra con il dorso della mano ed esclamò: “Passano gli anni, ma gli uomini del Doge restano come li ho conosciuti la prima volta: arroganti e fastidiosi. Quale buon ospite arriverebbe all'ora del pranzo?”

Il Consigliere non rispose, allargando appena le braccia, in segno d'accordo con la sua signora.

Era passato qualche giorno da quando era giunta la notizia del richiamo frettoloso che Gonzaga aveva fatto ai suoi balestrieri, ma la Contessa era abbastanza sicura di avere ancora tutto sotto il suo controllo.

Non aveva avuto più lettere da Simone Ridolfi, benché gli avesse scritto già due volte, per chiedergli ragguagli sulla situazione, ma immaginava che l'uomo fosse molto preso e ancora provato dalla notizia della morte di Giovanni e così per il momento soprassedeva sul suo ritardo.

Dopo aver fatto un cenno a Galeazzo, Bianca, e al Capitano Mongardini, che stavano mangiando assieme a lei, la Sforza andò a passo di marcia verso l'esterno della rocca. Aveva deciso di vedere tutti i portavoce stranieri lontano da Ravaldino, al palazzo dei Riario. Forse non era più sicuro, ma di certo permetteva agli ospiti di scorgere meno dettagli della sua dimora.

Prima di tutto, avrebbero potuto vedere coi propri occhi le armi e il numero di guardie che aveva messo alla protezione della sua famiglia, e poi avrebbero anche potuto cogliere informazioni ancora più importanti e facili da travisare. In quei giorni, infatti, Giovan Francesco Sanseverino e Giovanni da Casale dimoravano alla rocca e la presenza di due uomini di quella levatura avrebbe potuto sollevare quanto meno qualche domanda.

Caterina sapeva bene che fama aleggiasse su di lei ed era certa che quei due uomini sarebbero stati subito additati come i suoi nuovi amanti. E se da un lato l'idea di dividere il letto con il Sanseverino le faceva venir voglia di ridire, per quanto era assurda, dall'altro, il pensiero di fare altrettanto con Pirovano non era poi così ridicola, ai suoi occhi.

Dunque, meglio evitare pettegolezzi, soprattutto perché non era ancora successo nulla di cui sparlare.

In realtà, dopo il ragazzo che aveva fatto arrivare dal postribolo, non aveva più cercato nessuno e, sperava, avrebbe resistito ancora un po' prima di farlo di nuovo.

Mentre camminava a marce forzate verso il palazzo si ripeteva mentalmente tutto quello che sapeva circa le forze veneziani, e non poteva dimenticare che da pochissimo anche Bartolomeo d'Alviano – uomo da lei conosciuto come ottimo comandante – e Paolo Orsini fossero passati stabilmente al soldo del Doge.

Anzi, a voler essere precisi, le era stato riferito che accanto ai due cavalcasse anche Giuliano Medici, figlio del Magnifico e fratello del Fatuo.

Quando arrivò al palazzo, la donna trovò il veneziano in piedi, in attesa nel centro della sala delle questue, come un comune suddito. Anche quella, sapeva, era parte dell'arte dei Serenissimi: mostrarsi umili, quando di umile non avevano nemmeno le pezze ai piedi.

Seduti al loro posto c'erano già il suo cancelliere, pronto a prendere nota di tutto, e un paio di Consiglieri fidati.

“Prego, di cosa siete venuto a parlarmi?” chiese Caterina, andandosi a mettere sul suo scranno, come quando doveva ascoltare qualche bega di paese.

Il messo fece un inchino profondissimo: “Innanzi tutto voglio farvi i miei sentiti complimenti per l'opulenza e la meraviglia di questa città e della signora vostra. Mai vidi luogo più florido o donna più affascinante e riccamente vestita.”

La Tigre si guardò distrattamente. Quel giorno indossava l'abito un po' usurato che metteva quando si addestrava con la spada, aveva i capelli sciolti e non portava quasi gioielli, a parte il nodo nuziale e una collana.

“Credo che abbiate un'idea molto strana delle città opulente e delle donne riccamente vestite. Ma a parte questo – fece la milanese, che non aveva molta voglia di prestare il fianco alle sorde adulazioni del veneziano – vi ho chiesto che volete da me.”

L'uomo si raddrizzò, mettendo in mostra i suoi di abiti che, al contrario di quelli della Leonessa, erano davvero opulenti e composti da tessuti e materiali preziosi. Se quello era l'abbigliamento di un misero legato, pensava la Sforza, probabilmente il Doge girava coperto d'oro da capo a piedi.

“Sono qui per chiedere il passaggio dell'esercito del Serenissimo Doge di Venezia attraverso le vostre auguste terre.” spiegò il messo, chinando appena il capo.

Caterina gli fece domande e lo lasciò parlare a lungo, benché sapesse già che risposta dare. Quando ormai il veneziano pareva quasi convinto che la donna avrebbe accettato, questa scoppiò a ridere, raggelandolo.

“Dunque – chiese lui, un po' insicuro – concederete il passaggio al nostro esercito?”

“La mia risposta è semplice, al contrario delle vostre lunghe e lacunose spiegazioni.” rispose la Contessa, facendosi seria: “No.”

Il messo rimase di sale e dovette masticare l'aria un paio di volte prima di riuscire a dire: “Ma... Ma vi rendete conto che voi siete solo una povera vedova? Siete una donna sola! Con un erede incapace! Vi spazzeremo via! Se non ci lascerete passare, questa orribile città con le sue mura grigie e le sue case fatiscenti verrà rasa al suolo!”

“Oh, finalmente parlate chiaro! Ce n'è voluto!” esclamò Caterina, battendo le mani e alzandosi, raggiungendo in un paio di passi il veneziano, sotto gli occhi indifferenti dei suoi Consiglieri e del suo cancelliere: “Ma la mia risposta resta solo una: no.”

“Voi non vi rendete conto... Voi siete solo una donna... Siete solo...” barbottò il messo, rosso in viso e con la voce che si faceva acuta.

“Io sono la Tigre di Forlì!” sbottò la Sforza, dando un breve spintone all'ambasciatore che vacillò e quasi cadde: “Dite al vostro Doge o a chi per lui che dovrà passare sul mio corpo, se vorrà riuscire a prendersi la mia terra! E ora levatevi dai piedi! Sono stufa marcia di avervi davanti!”

L'uomo si gonfiò e si sgonfiò senza riuscire a gridare tutti gli improperi che aveva in mente, e poi rimettendosi la berretta in testa con un gesto secco e rabbioso, concluse: “L'avete voluto voi.”

“Ricordate al vostro Doge – soggiunse la Sforza, mentre l'altro era già sull'uscio: “Che mettersi contro di me equivale a mettersi contro il Duca di Milano e l'Imperatore!”

Il legato non ribatté più, andandosene tanto in fretta da dare quasi l'idea che stesse scappando e così alla Contessa non restò che tornare ai suoi impegni quotidiani.

Era sicura che quella sceneggiata non avrebbe compromesso ulteriormente la sua posizione. In fondo Venezia sapeva già che lei non avrebbe ceduto e quella pagliacciata era servita solo per poter dire che i tentativi pacifici erano stati fatti.

“Avete qualcosa da dire?” chiese ai Consiglieri e al cancelliere, prima di lasciare il salone.

Cardella scosse subito il capo e così fecero gli altri, così la donna si sentì libera di andare.

 

“Dicono che a Roma si stia formando una piccola fazione fortemente aragonese...” sussurrò Ermes all'orecchio dello zio, mentre il Duca prendeva un pezzetto di carne dal vassoio.

Al nipote infastidiva e non poco che il Moro volesse mangiare standosene in piedi. Lo trovava un modo assurdo per ricordare la moglie, una penitenza del tutto senza senso, soprattutto dato che passava le notti tra le braccia della Crivelli o di qualche altra amante, lasciando senza troppi problemi il ricordo fi Beatrice fuori dalla porta per qualche ora.

In quel tratto, si era trovato a pensare qualche volta Ermes, suo zio Ludovico assomigliava in modo impressionante a sua sorella Caterina. Come diplomatico, aveva avuto molto spesso tra le mani lettere che parlavano di lei e se c'era una cosa più famosa in Italia dopo la sua vendetta sanguinosa nel 1495, era proprio la sua voracità in fatto di amanti.

“E potrebbe impensierirci?” chiese il Duca, masticando rumorosamente, gli occhi scuri piantati sul viso largo e abbondante del nipote.

Questi imitò il Moro e prese qualcosa da mangiare, anche se avrebbe voluto sedersi, invece di stare in piedi in rispetto a suo zio: “Difficile dirlo. Lucrecia è sicuramente molto influente, in Vaticano, e quello che sta facendo...”

“Spiegati meglio.” lo invitò Ludovico, prendendo un calice dal tavolo e vuotandolo di colpo, mentre con l'altra mano già prendeva altra carne.

Ecco – pensò Ermes – l'amore per il cibo saporito e il vino era un'altra cosa che il Moro e la Tigre avevano in comune. Se in passato non si fossero urtati tanto, forse si sarebbero riscoperti amici e molto affini l'uno all'altra.

“Lucrecia e suo marito Alfonso hanno molto successo, alla corte papale. Anche se si distraggono facilmente – il giovane Sforza fece un sorriso malizioso, alludendo a tutte le volte in cui i due sposi sfuggivano gli impegni mondani per stare da soli – sono amatissimi dai cortigiani e dagli intellettuali, che trovano udienza presso di loro molto di più che non presso il papa. Ed essendo Alfonso un'Aragona, pare che Lucrecia stia spingendo la corrente in suo favore.”

“Ma lei dovrebbe parteggiare per suo padre, non per suo marito.” notò il Duca, masticando a bocca aperta: “Guarda che ha fatto con il nostro povero parente di Pesaro... Perché questa volta fa così?”

Ermes rinunciò a mangiare, perché stare in piedi proprio gli rendeva indigesto il pasto, e si concentrò sugli affari di politica: “Perché di questo marito sembra sinceramente innamorata e perché tutta quella questione del processo e del bambino potrebbe averla allontanata un po' dal papa...”

Ludovico deglutì e si fece versare altro vino, sussurrando poi: “Innamorata del marito...” e per un istante la sua espressione si fece dura, come se stesse ricordando qualcosa al contempo tragico e bellissimo.

“Quindi, che intendete fare?” domandò Ermes, gli occhi a mezz'asta come sempre e una mano sul ventre prominente che ormai faceva a gara con quello dello zio.

“Aspettare.” soffiò il Duca, pensoso: “E sperare che i Borja siano più veloci di me a far sparire questa fazione aragonese, come la chiami tu. Per ora posso solo tenere sotto controllo Isabella e impedirle di riprendersi suo figlio. È di Venezia e Firenze che ci si deve preoccupare, al momento.”

Il nipote annuì, benché fosse solo parzialmente d'accordo con quanto detto, e poi chiese congedo, dicendo che doveva ancora onorare un sacco di corrispondenza.

In realtà, appena fu nei suoi alloggi, si sedette comodamente alla scrivania e chiese che gli venisse portato un pranzo degno di tal nome e anche una caraffina di prunello.

 

Quando finalmente era scesa la sera, Caterina si era ritirata per un'oretta nella stanza del figlio Giovannino – ormai il diminutivo era già diventato la regola in famiglia – e poi si era ritirata per la notte.

Tuttavia, poco dopo essersi chiusa in camera, il castellano era arrivato a bussare e le aveva consegnato ben tre lettere, tutte quante importanti.

La prima era di Ottaviano Manfredi, che le chiedeva ancora cosa intendesse fare e così, con uno sbuffo, la Tigre la mise da una parte e passò alla seconda.

Arrivava da Firenze e aveva un aspetto molto formale, soprattutto per via dello stemma mediceo usato per chiuderla.

La Contessa la lesse in fretta, solo per farsi venire il sangue acido. Era firmata da Lorenzo, benché la grafia del testo fosse diversa da quella in calce, lasciandole intendere che l'uomo l'avesse dettata a uno scrivano, non prendendosi nemmeno il disturbo di farlo di proprio pugno.

Il messaggio era breve e scarno e, in sintesi, le chiedeva, o meglio, le intimava, di spedire a Firenze tutti gli averi di Giovanni, senza tralasciare nemmeno un abito o un libro.

Sollevando gli occhi dalla lettera, Caterina si guardò attorno e nella stanza in cui si era rifugiata vide solo oggetti che erano stati di suo marito. Le piaceva restare lì proprio per quello. In un certo senso era come averlo ancora alla rocca con lei.

Come poteva suo cognato chiederle di separarsi da tutto quello che le ricordava Giovanni? E, soprattutto, come poteva far sì che il figlio di suo fratello rimanesse con nulla, a parte il nome, a ricordargli il defunto padre?

Passandosi con forza una mano sulla fronte, la Sforza decise che avrebbe risposto al Medici il giorno dopo, a mente fredda.

Passò allora alla terza missiva. Si trattava di una lettera del Moro ed era datata 17 settembre. Ci aveva messo un po', ad arrivare, calcolando che era stata mandata con una staffetta veloce. Era probabile che le vie fossero meno sgombere di quanto pensava e che il messaggero avesse dovuto fare qualche deviazione...

Già alterata dalle parole di Lorenzo il Popolano, quando si imbatté nelle velate critiche e mezze minacce di suo zio Ludovico, Caterina non ne poté più.

Il tono paternalistico con cui il Duca le aveva scritto la sua 'preoccupazione' circa la sua fragilità, non perdendo occasione di sottolineare quando temesse di vederla rovinarsi con le proprie mani, le fece saltare i nervi.

Prese il necessario per scrivere e rispose per primo a Ottaviano Manfredi, dicendogli di portarsi nel suo Stato appena gli fosse stato possibile, in modo da discutere faccia a faccia del da farsi.

Inconsciamente, accettando già quel tentativo di contatto, la Tigre si stava preparando a doversi difendere anche dal Moro, coprendosi le spalle con Manfredi e con i soldati che di certo avrebbe saputo trovare sfruttando il suo carisma da esule.

Poi prese un altro foglio e rispose bellicosamente a Lorenzo Medici, dicendo senza giri di parole che non intendeva separarsi dagli averi del marito, tanto più che gli aveva permesso di portarlo a sepoltura a Firenze solo ed esclusivamente perché sapeva quanto Giovanni fosse legato alla sua città. Si firmò, con la mano che tremava appena: 'Caterina Sforza Medici'.

Infine si trovò di nuovo dinnanzi la missiva di suo zio. Soffiò un paio di volte e infine decise che a lui non avrebbe risposto per lettera. Avrebbe risposto coi fatti. Gli avrebbe dimostrato che non solo poteva cavarsela da sola, ma che le sue allusioni alla sua incapacità di trovare una regola senza avere qualcuno che gliela imponesse erano del tutto infondate.

Se avesse voluto avere anche mille amanti diversi in un anno, allora li avrebbe avuti, senza per questo essere politicamente e militarmente una banderuola al vento, come suo zio sembrava temere.

Quindi, rabbiosa, si alzò in fretta dalla scrivania e, senza pensarci sopra nemmeno un istante, andò spedita nei baraccamenti dei soldati. Giocò ai dadi con alcuni di loro per un'oretta e infine, quando ne trovò uno che non le dispiaceva e che era libero da ogni legame, gli propose di seguirla in camera e, come previsto, questo non le si negò.

 

Simone si era dibattuto come un pesce nella rete per giorni, prima di decidersi ad andare a Forlì per parlare con la Contessa. Era perfino partito di sera, contro ogni rigore logico, e solo perché sua moglie, esasperata nel vederlo tanto combattuto, gli aveva imposto di andare e non pensarci più.

Così aveva preso un cavallo, aveva salutato Lucrezia con un bacio e le aveva chiesto di assicurarsi che Tommaso facesse le sue veci mentre era assente, ed era partito.

Dovendo attraversare i boschi per non farsi notare ai confini faentini, Ridolfi era arrivato a Forlì che quasi albeggiava. Riconosciuto dalle guardie, era stato fatto entrare a Ravaldino e, con la fretta di uno che si sentiva un peso enorme addosso, aveva svegliato il castellano chiedendo della Tigre.

Cesare Feo, che con l'età aveva preso l'abitudine di svegliarsi molto prima del sole, aveva provato a tergiversare, dicendo che forse sarebbe stato il caso di attendere la mattina, per un colloquio con la Contessa.

“In fondo – gli aveva detto, scrutandolo alla luce delle candele – non vedo che ci sia di così urgente che non possa aspettare qualche ora... Che io sappia non ci sono stati attacchi, nè battaglie...”

“Lo so io che cosa c'è di così importante.” tagliò corto Simone e, ignorando le deboli proteste del castellano, aveva lasciato lo studiolo dirigendosi verso quella che era stata la camera matrimoniale di suo cugino e della Sforza, sperando che lei non avesse cambiato appartamenti.

Quando arrivò alla porta, fece un paio di respiri smorzati e faticosi. Forse aveva ragione Cesare Feo a dirgli di aspettare, ma l'uomo sentiva il sangue ribollire nelle vene e voleva sapere dalle labbra della Tigre come era morto Giovanni e perché mai il suo corpo non era stato portato a Forlì.

Bussò un paio di volte, ma non ottenne risposta. Colto da un dubbio, si spostò di qualche metro, ponendosi davanti a quella che era stata la camera della Leonessa prima che si sposasse con Giovanni. Bussò allora tre volte, con troppa forza, facendo vibrare il legno pesante e facendosi quasi male alla mano.

Tuttavia tanta irruenza pagò, perché appena dopo il terzo colpo, l'uscio si aprì e si profilò la Contessa: “Ma che diamine state..?” e la voce le morì in gola non appena riconobbe il Governatore di Imola.

Di contro, Simone, che fino a un istante prima si sentiva nel petto la voce pronta a esplodere, non riuscì a spiccicare parola. La donna che gli aveva aperto la porta indossava una vestaglia mezza slacciata, probabilmente appena infilata, giusto per non mostrarsi nuda a chi la cercava. Aveva i capelli scarmigliati e un'espressione assonnata che avrebbero anche potuto starci, con un risveglio brusco nel mezzo del sonno, se non fosse stato per quello che Ridolfi intravide alle sue spalle.

Sul letto sfatto, coperto solo per metà, c'era un ragazzo che si stava risvegliando a fatica per via dei rumori improvvisi.

Quando il Governatore tornò a cercare lo sguardo di Caterina, gli occhi verdi della donna ebbero un fremito. Anche se la situazione era palese, Simone non aveva voluto crederci fino a quel preciso istante.

“Che razza di donna siete?!” sbottò Simone, facendo un passo indietro e guardando con sdegno la Contessa.

In tutta risposta, la Sforza chiuse in fretta la porta, celando ai suoi occhi il ragazzo che, forse comprendendo di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, si era alzato dal letto e stava cercando affannosamente i propri vestiti nella luce soffusa del camino morente.

“Io...” Ridolfi si passò una mano tra i capelli rossicci e poi la guardò di nuovo e chiese, ostinato, senza nemmeno sapere che risposta volesse sentire: “Ma che razza di donna siete?”

“E voi? Che razza di uomo siete, voi?” chiese la Leonessa, fredda, benché il suo stomaco si stesse stringendo come se una mano invisibile glielo stesse strozzando: “Che tradite vostra moglie di continuo, e lei è viva, al contrario di Giovanni.”

“Ma che c'entra..! Voi..! Voi..!” balbettò Ridolfi, che era rimasto tanto stranito e sconvolto da quella situazione da non riuscire nemmeno ad arrabbiarsi per quanto detto dalla sua signora: “Una moglie non può fare così... Voi siete vedova da pochi giorni, voi...”

“Pensa alla tua, di moglie – ribatté con un sussurro aggressivo Caterina, inchiodandolo con uno sguardo di ghiaccio – che si infila nel letto degli altri mentre tu sei ancora vivo!”

Ridolfi parve spegnersi all'improvviso. Mentre il fracasso che avevano fatto cominciava a richiamare qualche curioso mattiniero, tra cui anche Bianca, che aveva la sua nuova camera poco lontana da lì, l'uomo si irrigidì e si chiuse in un silenzio che avrebbe voluto essere dignitoso, ma che risultò solo patetico.

“Cosa siete venuto a fare qui?” chiese Caterina, aggiustandosi la vestaglia, visti i testimoni indiscreti che stavano arrivando.

“Non importa più.” sussurrò Simone, abbassando lo sguardo.

“Tornate a Imola, allora. Vi ho dato ordini precisi da eseguire. Dovete smetterla di delegare a Tommaso. Lui non è più Governatore, lo siete voi.” rimarcò la Sforza, cercando di riportare quello strano litigio su un piano più neutro.

“Perdonate per il disturbo.” concluse Ridolfi che, voltandosi, aggiunse: “Ripartirò subito.”

Il silenzio che accolse quella dichiarazione portò la Contessa a cercare un minimo tentativo di scusarsi per la propria reazione, benché anche quella del Governatore fosse dal suo punto di vista difficile da perdonare.

“Riposatevi un paio d'ore.” gli disse, a mo' di ordine: “Potrete ripartire a mattina fatta.”

Simone deglutì e poi, ignorando le poche persone – della decina accorsa, ne era rimasta meno della metà – ancora presenti, chiese: “Posso almeno vedere il mio figlioccio Ludovico?”

“Lo abbiamo fatto ribattezzare.” intervenne Bianca, temendo che sua madre potesse dire qualcosa di troppo duro, vista l'espressione che stava già facendo.

Ridolfi fissò la Riario attonito e poi chiese: “E come l'avete chiamato?”

“Giovanni.” questa volta fu Caterina a rispondere.

Simone strinse i denti e commentò: “Potevate anche farmelo sapere. In fondo Giovannino era mio parente e mio amico. Avrei voluto esserci, il giorno in cui suo figlio ha preso il suo nome.”

Il silenzio un po' colpevole che scese tanto su Bianca quanto sulla Contessa fece decidere al Governatore che non sarebbe rimasto a Ravaldino un momento di più.

“Torno subito a Imola. Ho impegni urgenti da portare a termine. E non temiate – assicurò, rivolgendosi alla sua signora – malgrado tutto, io vi resto fedele.”

Caterina lo guardò allontanarsi veloce come il vento e quando lo vide imboccare le scale in fondo al corridoio, guardò quelli che ancora stavano lì in attesa di colpi di scena e ordinò: “Tornate subito alle vostre occupazioni. Lo spettacolo è finito.”

Incrociò per un istante lo sguardo di Bianca e non lo sopportò. In quei giorni, da quando aveva capito che sua madre era tornata subito a cercare un certo tipo di compagnia, sua figlia la osservava in modo strano.

La Tigre non capiva se la stesse giudicando, o se si stesse sforzando di capirla. Quale che fosse la realtà, comunque, non voleva affrontarla. Così le fece un cenno, a mo' di congedo, e tornò in stanza, chiudendosi di nuovo la porta alle spalle.

“Forse sarebbe meglio che io me ne vada...” disse il ragazzo che era rimasto tutto il tempo in attesa nella camera.

Caterina lo guardò. L'aveva scelto bene. Era giovane, alto, muscoloso, e quella notte era stato capace di soddisfarla. In fondo, se n'era accorta la notte stessa in cui aveva tradito per la prima volta la memoria di Giovanni, non cercava più un surrogato di Giacomo, in quelle avventure di poche ore. E non cercava nemmeno l'eco lontana del suo terzo marito. Non cercava altro se non una distrazione abbastanza importante da farle dimenticare tutto per un po' e da placare la fame del suo corpo.

“Va', se vuoi.” gli disse la Leonessa, avvicinandosi e passandogli una mano sul petto, lasciandola scivolare verso il basso: “Oppure resta ancora un po'. Non è ancora sorto il sole. Abbiamo ancora un po' di tempo.”

Il giovane deglutì e poi, non sapendo resistere a quell'invito, non fermò le mani della donna che aveva saputo terrorizzare la Romagna appena tre anni addietro e le lasciò fare quello che voleva, sapendo che, probabilmente, una fortuna del genere non gli sarebbe più ricapitata.

Tutti sapevano che la Tigre non portava mai due volte la stessa preda nella sua tana. O, almeno, così aveva fatto prima di conoscere il Medici. Dunque, nel caso in cui le sue abitudini fossero tornate quelle di un tempo, il ragazzo ne approfittò e tornò ai baraccamenti solo a mattina fatta, con la voglia pazza di raccontare a qualcuno quello che era successo.

Tuttavia tacque, anche quando si chiacchierò della sceneggiata del Governatore di Imola, arrivato a Ravaldino prima dell'alba e ripartito con il sole non ancora sorto, e lo fece più per rispetto alla sua signora che non per paura della sua eventuale vendetta, che, la Tigre stessa aveva assicurato, sarebbe arrivata di certo, se lui avesse parlato troppo.

“Non devi vantarti, per essere stato scelto per una notte – gli aveva detto, prima di lasciarlo andare via – è capitato ad altri, prima di te, e capiterà ad altri ancora, dopo di te. Se verrò a sapere che hai sbandierato quello che è successo stanotte con qualcuno, ti spedirò subito al fronte a diventare carne da cannone.”

 
   
 
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