Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    25/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Da quella mattina all'alba aveva cominciato a diluviare senza sosta e il terreno s'era fatto fangoso e difficile da praticare.

Achille Tiberti sapeva benissimo che le decina d'ore che ci sarebbero volute di norma per arrivare a Modigliana sarebbero quanto meno diventate quattro o cinque in più. Però, anche mentre faceva la rassegna dei suoi uomini – cento fanti raccolti fortunosamente e pagati di tasca propria, come da accordi – davanti alla Tigre, non aveva dato alcuna mostra della propria insofferenza.

Aveva capito anche troppo bene che la Contessa gliene aveva perdonate anche troppe e sapeva che tirare la corda ancora un po' sarebbe stato pericoloso. Senza contare che, a detta di tutti, in quei giorni la Sforza si era fatta molto più rigida e intransigente del solito e probabilmente pure lui avrebbe finalmente conosciuto il suo pugno di ferro, se l'avesse irritata di nuovo.

Così il comandante cavalcava alla testa della colonna dei suoi appiedati, la pioggia che scivolava sul suo cappello d'armi, scelto solo per proteggere un po' la visuale dallo scrosciare dell'acqua, e non provò nemmeno a voltarsi indietro, sicuro che, in barba al tempo inclemente di quel giorno, la Leonessa doveva essere sui camminamenti, intenta a osservarlo, in cerca di un minimo segno di cedimento o insubordinazione.

E infatti Caterina era sulle merlature della rocca e lo stava tenendo d'occhio, granitica. Non dava peso al freddo che cominciava a sentire e agli abiti che si facevano pesanti di pioggia. Lo stava tenendo d'occhio e lo guardò mentre sfilava sotto la statua di Giacomo, e poi più in là, fino a vederlo sparire oltre il limitare della città.

“Mia signora, non dovreste stare qui...” fece il Capitano Golfarelli, arrivandole alle spalle: “Vi prenderete qualche malanno...”

“Non ho preso nemmeno la peste – rimbeccò la Contessa, distogliendo finalmente lo sguardo dall'orizzonte – figuriamoci se mi ammalo per un po' di pioggia...”

L'uomo non aggiunse altro, a quel punto, anche se aveva notato un lieve brivido nella sua signora e così non la trattenne oltre, quando questa venne chiamata dal castellano, che l'attendeva nel cortiletto.

La Tigre raggiunse Cesare Feo che la convinse a tornare al coperto e le disse che avevano alcune cose di cui discutere.

Passando nel corridoio, verso lo studiolo del castellano, la donna intravide Galeazzo che discuteva con un paio di soldati e così colse l'occasione al volo e gli chiese di accompagnarla, visto che si sarebbero discussi alcuni dettagli della campagna.

Il figlio, ben felice di essere stato preso in considerazione, salutò i due soldati e seguì la madre.

“Vi prego, prendete questo e asciugatevi un po'...” fece Cesare Feo, porgendo uno dei teli che teneva sempre a portata di mano, nei giorni di pioggia.

Decidendo che sarebbe stato da stupidi prendersi davvero qualcosa per un motivo del genere, la Sforza accettò e tentò di asciugarsi i capelli come meglio poteva e intanto gli chiese di dire quali fossero le novità.

“Ci ha scritto Dionigi Naldi per avvisarci che i veneziani stanno minacciando Marradi.” spiegò il castellano, mettendosi alla scrivania: “Anche se per il momento dice che resisterà, vuole sapere quando Fracassa arriverà con i rinforzi.”

A quelle parole, tanto Cesare quanto Galeazzo si misero a guardare la Leonessa che, dopo averci pensato un momento, commentò: “Ho già sollecitato Sanseverino a partire. Non è colpa mia se non lo fa.”

“Dovreste imporvi di più.” intervenne il castellano, con una certa durezza: “Se Marradi cadesse, i veneziani avrebbero facilmente accesso al Mugello e allora Firenze potrebbe anche non...”

“Ho capito, ho capito.” lo interruppe la Contessa, appoggiando il telo umido sulla scrivania e indicando poi Galeazzo: “Corri a chiamare Sanseverino. Gaspare o Giovan Francesco, non importa quale trovi prima. Portamelo qui.”

Il figlio raddrizzò la schiena e uscì di volata dallo studiolo. Il Feo, dopo aver guardato il ragazzino uscire, fissò Caterina con uno sguardo strano che la donna non riuscì a capire finché non parlò.

“Vostro figlio vi somiglia ogni giorno di più, sapete?” gli sussurrò l'uomo, abbozzando un sorriso un po' triste: “Almeno, nell'aspetto. Così come Bernardino somiglia a Giacomo. Anche se nel temperamento non assomiglia a mio nipote, ma piuttosto a voi... I figli sono una cosa strana...”

La Tigre non capì cosa avesse portato il castellano a fare quella considerazione, ma non aveva voglia di confrontarsi con lui su quell'argomento. Da quando aveva perso anche Giovanni, voleva evitare il più possibile di pensare ai suoi figli, agli uomini che aveva amato, e a quello che aspettava tutti loro.

Perciò, con un'alzata di spalle, si mise in poltrona, in attesa di uno dei fratelli Sanseverino, e tagliò corto: “Siete un buon osservatore. Ma siete pagato per fare il castellano, nulla di più.”

 

Galeazzo ci mise un po', prima di trovare qualcuno che potesse dirgli dove fossero i Sanseverino. E questi era Giovanni da Casale che, dopo aver fatto un po' di esercizio al coperto nella sala delle armi, era tornato al piano di sopra e guardava sconsolato il cortile, tentato di uscire, non curandosi della pioggia, e muoversi ancora un po'.

Non gli piaceva l'inattività, ma era stata la Contessa a volerlo alla rocca in quei giorni, sostenendo che bastava Ottaviano, sul confine orientale.

“So dov'è Giovan Francesco.” fece Pirovano, quando il ragazzino gli chiese dove potesse trovare i due fratelli Sanseverino: “L'ho visto poco fa andare nei baraccamenti dei soldati...”

Galeazzo lo ringraziò e l'uomo, dedicandogli un breve e rigido sorriso, tornò subito a osservare la pioggia che cadeva battente sul cortile d'addestramento.

Quando il giovane Riario arrivò nei baraccamenti, rimase un momento sulla porta, colto un po' di sorpresa da quello che vide. L'ambiente era saturo di risate e motti di approvazione e quando le voci dei soldati smisero di gridare incoraggiamenti e complimenti variegati, ripiombò il silenzio per qualche istante, fino a che la voce di Bianca, che cantava accompagnata da un paio di musici improvvisati, saturò i baraccamenti.

Galeazzo rimase come gli altri ad ascoltarla, ma nel frattempo cercava con lo sguardo il Sanseverino.

Il Conte di Caiazzo era poco lontano dalla figlia della Tigre e la osservava in modo fisso, con un sorriso particolare dipinto in viso e batteva le mani a ritmo, quando la canzone lo richiedeva.

Il Riario si sentiva un po' invadente a richiamare la sua attenzione in quel momento, mentre l'uomo pendeva dalle labbra di Bianca, ma aveva ricevuto un ordine preciso da sua madre e dunque, con discrezione, passò tra i soldati fino a trovarsi accanto a Giovan Francesco.

“Mia madre chiede di voi, con urgenza.” gli disse all'orecchio.

L'uomo lo guardò di sguincio e poi, dedicando un altro sguardo abbondante a Bianca, sbuffò: “E allora andiamo a sentire che diamine vuole questa volta.”

Galeazzo attese di essere fuori dai baraccamenti per dirgli, con voce perentoria, malgrado la sua giovane età: “Vi prego di usare termini più consoni, quando parlate di mia madre la Contessa.”

Sanseverino deglutì e poi, ricacciando indietro un paio di parole aggressive che gli erano balenate in mente, disse solo: “Perdonatemi.”

 

Il castellano era stato fatto uscire e, dopo una breve esitazione, Caterina aveva chiesto anche a Galeazzo di lasciarla sola con il Sanseverino.

Il ragazzino non aveva dato mostra di esserne rimasto deluso, anche se la Sforza notò in lui una leggera rigidità, quando si congedò da lei, assicurandole che sarebbe stato comunque a disposizione per qualsiasi cosa avesse avuto bisogno.

Giovan Francesco, con i suoi occhi un po' fissi e il mento volitivo, aveva ascoltato le richieste della Contessa che, senza che lei lo volesse davvero, erano passate da un tono vagamente lamentoso a uno decisamente più fermo e quasi aggressivo, tanto che l'uomo alla fine si sentì in dovere di ribattere con altrettanta fermezza.

“Io e mio fratello siamo stati mandati qui con il preciso compito di stare al vostro servizio, è vero, ma per difendere voi e il vostro Stato!” mise in chiaro, le grandi mani che si agitavano in aria: “Ma Marradi è dritta sulla strada che porta al Mugello e distrarre dei soldati là vorrebbe dire ridurre la difesa qui, e mettersi al servizio di Firenze e non vostro!”

“Ma noi siamo alleati di Firenze!” controbatté la Sforza, con ostinazione.

L'uomo strinse i denti e poi la fissò in un modo che non le piacque affatto. Era uno sguardo di condiscendenza e compatimento, lo stesso che nell'arco della sua vita aveva scoperto più di una volta negli occhi di uomini che la giudicavano un'incapace solo perché donna.

“Io sono qui per prendere ordini da voi, ma è il Duca di Milano, a pagarmi.” specificò Giovan Francesco, il viso che si irrigidiva in modo quasi minaccioso.

“E allora tornatevene a Milano, se non siete disposto a fare quello che vi dico. Vediamo il vostro Duca quanto ne sarà felice.” rimbeccò la donna.

Il Sanseverino ne squadrò il viso fiero e feroce e poi, capendo che la Contessa non stava affatto scherzando, cercò di raddrizzare i toni: “Se proprio lo ritenete indispensabile, posso coordinare un'azione di aiuto per Marradi, ma a patto che non si dimostri un impegno troppo gravoso. E a patto che voi vi affrettiate a soddisfare i punti del contratto d'alleanza stipulato con vostro zio. Mi risulta che non stiate facendo molto, per arruolare i soldati che vi ha chiesto come garanzia.”

“Non dovete preoccuparvi di quello che faccio io – lo zittì Caterina – pensate a quello che dovete fare voi, che con mio zio, se permettete, me la vedo io.”

Giovan Francesco annuì appena e poi, già capendo che presto sarebbe stato congedato e probabilmente pure in malo modo, cercò di spezzare la tensione con una proposta che gli era balenata in mente nei baraccamenti.

Da quando era alla rocca, non aveva potuto evitare di osservare sia la Contessa sia, soprattutto, la sua unica figlia, Bianca Riario. La trovava meravigliosa e una giovane donna non comune. Sapeva che era stata legata ad Astorre Manfredi, ma che essendo questi ancora un ragazzino, le nozze erano rimaste una mera formalità.

“Forse ho un'idea che potrebbe permettervi di avermi al vostro fianco, assieme ai miei uomini e a quelli dei miei fratelli, senza dover dipendere tanto strettamente da vostro zio Ludovico.” buttò lì il Conte di Caiazzo, quasi senza riuscire a trattenersi.

Caterina si accigliò e poi, stringendo le braccia sul petto, domandò: “Ovvero?”

“Permettetemi di sposare vostra figlia.” disse l'uomo, sollevando appena il mento e restando poi in attesa.

La Tigre, in un primissimo momento, fu sul punto di scoppiare a ridere, perché la proposta le pareva assurda. A parte il fatto che Giovan Francesco aveva quasi cinquant'anni e quindi era troppo vecchio per Bianca, e sorvolando pure sulla questione del matrimonio tra la Riario e il Manfredi...

“Non se ne parla, mi dispiace. Mia figlia non è in vendita.” rispose con secchezza Caterina.

Il Sanseverino strinse le labbra sottili e poi rimarcò: “Se è per la storia di Astorre Manfredi, lo faccio fuori io in persona, se lo vorrete.”

“Non è per quello.” disse la Sforza, facendo un paio di passi in avanti, come a voler indurre Giovan Francesco ad andarsene: “Il punto è che voi mi state chiedendo mia figlia in cambio del vostro esercito e mia figlia non è in vendita.”

“Però a Manfredi l'avete venduta, in cambio della pace, anche se adesso cercate disperatamente un modo per non fargliela avere.” notò pungente il Sanseverino, cominciando ad adirarsi.

“Andate a Marradi, immediatamente. Fate quello che vi ho ordinato di fare e smettetela di pensare ai matrimoni come foste una dama di corte che vive di pettegolezzi e belle favole.” lo riprese la Leonessa, indicandogli la porta.

“Se non volete lasciarmi sposare lei, allora sposatemi voi. Per me non fa differenza.” insistette Giovan Francesco.

“Andatevene.” lo freddò la Sforza: “Farò finta che non abbiate aperto bocca, ma adesso andate a fare quello che vi ho detto.”

“Pensateci, mentre sarò a Marradi a combattere per voi.” fece alla fine l'uomo, lasciandosi condurre fino alla porta: “Non potrete restare a lungo senza un uomo accanto. In un mondo come il nostro, il destino di una donna sola è molto tristo, ricordatevelo. Date tempo al papa, all'Imperatore o anche solo a vostro zio di capire che non avete intenzione di riprendere marito, di avere qualcuno che vi protegga, e caleranno su di voi con la furia di una tempesta!”

Proprio in quel momento, stranamente per essere settembre, la pioggia scrosciante che batteva le strade di Forlì si accompagnò a un lampo e poco dopo a un tuono roboante, che diedero maggior forza alla risposta della Tigre: “Ho sempre vissuto nella tempesta, non sarà un problema sopravvivere anche a questa.”

 

Dionigi Naldi, gli occhi stretti contro la pioggia che cadeva obliqua per via del vento, diede ordine di chiudere subito il portone e sollevare il ponte.

Centocinquanta fanti era tutto ciò che Naldi era riuscito a portarsi via da Marradi, quando i veneziani erano riusciti a farsi aprire le porte della città. Vedersi arrivare addosso Annibale Bentivoglio e Giuliano Medici aveva messo paura al Consiglio Cittadino e a poco erano valse le grida di Dionigi per convincerli a resistere.

Non aveva potuto far altro che ripiegare nella rocca di Castiglione e confidare nel pronto arrivo dei rinforzi. Aveva scritto alla Tigre, al Governatore di Imola e perfino direttamente a Firenze.

Lui avrebbe cercato di difendere quell'avamposto – senza il quale possedere Marradi era pressoché inutile – fino allo stremo delle sue forze, ma senza un numero adeguato di uomini e armi, difficilmente sarebbe sopravvissuto a quel violento attacco.

Stando nascosto dietro le merlature, guardò verso Marradi e vide come, malgrado la tempesta imperversasse, i veneziani si stessero organizzando molto in fretta.

Tempo qualche ora, pensò, divorato dall'ansia e dalla paura, avrebbero posto sotto assedio anche la rocca di Castiglione.

“Tutti ai vostri posti!” ululò Dionigi, prendendo poi subito da parte uno dei suoi attendenti, che era andato nell'armeria per vedere come fossero messi con l'artiglieria: “Allora?” chiese, agitato.

“Un paio di spingarde, poco di più.” riferì l'altro: “Ma in compenso una buona quantità di frecce.”

Naldi fece due conti e poi, avendo a noia la pioggia che lo accecava e lo infradiciava, ordinò ai suoi uomini: “Tenete i vostri posti! Chiamatemi al minimo cambiamento!” e detto ciò si ritirò all'interno della rocca, ufficialmente per studiare la situazione, ma in realtà per ritagliarsi un momento di silenzio e pregare Dio affinché qualcuno arrivasse ad aiutarli prima che facessero la fine del topo in trappola.

 

Caterina era rimasta agitata per tutto il resto del giorno. Lo scambio di battute con Giovan Francesco Sanseverino l'aveva gettata in uno stato di tensione costante che nemmeno lei riusciva a spiegarsi del tutto.

Da un lato, forse, si stava rendendo conto che l'età di Bianca le stava remando contro. Che fosse Astorre o qualcun altro, presto sarebbe stato sempre più difficile proteggerla da un matrimonio combinato e altrettanto complicato permetterle di scegliersi un uomo di suo gusto.

E dall'altro le parole di Sanseverino avevano un fondo di verità. Anche se la Tigre si riteneva una donna forte, molto più forte di tanti uomini, sapeva che tanti potenti stavano solo aspettando o di vederla di nuovo crollare in pezzi o di vederla di nuovo scegliersi un marito, magari ancora più ricco e potente dell'ultimo.

Stava tenendo in braccio Giovannino, che la fissava assorto. Era un bambino molto silenzioso e in quel momento, a parte lo scoppiettare del fuoco nel camino e il battere incessante della pioggia contro il vetro della finestra, l'unico rumore che si sentiva era il respiro a tratti sospiroso di Caterina.

Era sera inoltrata e faceva già buio. La Sforza aveva mangiato in fretta e bevuto molto poco rispetto al solito. La sua mente era così impantanata nei suoi pensieri che aveva anche fatto fatica a mandar giù lo stufato.

Giovannino, a un certo punto, cominciò a farsi un po' più inquieto e la madre comprese che era arrivato il momento di dargli da mangiare. Così lo riappoggiò un momento nella sua culla e andò a chiamare una delle balie, affinché facesse portare il cibo dalle cucine.

Ormai, prematuramente, forse, rispetto ai suoi fratelli, il piccolo era quasi del tutto svezzato e poco per volta la Sforza gli stava facendo aggiungere un po' tutto nella dieta. La risposta del bambino era ottima e, benché non apparisse un mangione, non faceva storie a finire quello che gli veniva proposto e cresceva forte e robusto come una piccola quercia.

Siccome a portare da mangiare per Giovannino era arrivata Bianca, Caterina decise di lasciare la figlia sola con il fratellino e andare a riposarsi. Sapeva quando alla ragazza piacesse prendersi cura del piccolo ed era felice di vedere quanto anche lui gradisse la compagnia della sorella.

Perciò li salutò e lasciò la stanza senza troppi indugi. Non andò subito in camera, però. L'aria era fresca, se non addirittura fredda, e il rumore della pioggia le ricordava qualcosa che non riusciva a riafferrare nella mente.

Era un ricordo profondo, ne era certa, che le stava infondendo molto calore nel petto, ma in quel momento, mentre camminava a passi lenti vicino alla serie di finestre del loggiato, non avrebbe saputo dire quale fosse.

Incrociò un paio di soldati che stavano andando a dare il cambio alle guardie, lamentandosi tra loro del tempo pessimo, e poi più nessuno.

Ravaldino pareva immersa in una pace assoluta. Strano pensarlo, visto che in quei giorni alla Leonessa pareva di aver tutto il mondo contro.

Si mise a guardare fuori dalla finestra, nella notte quasi del tutto buia. Stava pensando a Giovanni e al modo in cui si erano detti simbolicamente addio quando era partito per Pisa. Ricordava ogni centimetro del suo corpo e ogni tonalità della sua voce. E poi lo rivedeva disfatto e stremato, nel letto in cui era morto, lontano tanto dalla rocca in cui si erano conosciuti e amati, quanto dalla Firenze che l'aveva cresciuto.

Si mise una mano davanti alle labbra, quasi a impedir loro di tremare per il dolore che provava, così forte, benché volesse nasconderlo, così pressante e sempre presente, malgrado facesse finta che non fosse successo nulla. All'idea, poi, che Giovannino – ormai il nome Ludovico era stato spazzato via in ogni modo dalla mente della Tigre, felice di non dover più ricollegare il suo incubo più ricorrente con suo figlio – non avrebbe mai potuto conoscere davvero suo padre, dagli occhi della Leonessa scivolarono giù un paio di lacrime.

Mentre le asciugava in silenzio, intravide uno strano bagliore nel cortile e, perplessa, decise di andare a controllare.

Scese in fretta, ma senza fare rumore, assicurandosi di avere contro la gamba il suo fedele pugnale.

Benché non si aspettasse alcun reale pericolo, il suo istinto la obbligava a stare sempre allerta e pronta all'impensabile.

Arrivò giù e l'odore della pioggia e del terreno che liberava ancora calore – la siccità era durata troppo perché qualche ora di tempesta bastasse – le invase le narici. La sensazione di qualcosa di noto e amato la riprese, malgrado ancora le sfuggisse il collegamento sotterraneo fatto dalla sua coscienza.

Vide un movimento all'ingresso della sala delle armi e decise di andare a controllare. Prese il pugnale dal suo nascondiglio, seguendo sempre la regola aurea del non fidarsi mai, nemmeno in casa propria, e avanzò fino all'ingresso della sala.

Nella luce stentorea di un'unica torcia a muro, vide un uomo alto e muscoloso che stava rimettendo a posto una spada, prima di passarsi una mano tra i capelli corti e fradici di pioggia, per asciugarli un po'.

Il suo sguardo indugiò sulla schiena dritta e ben visibile, sotto il camicione bagnato, sui fianchi stretti e sulle gambe forti, anch'esse poco nascoste nelle loro forme precise, dalle brache tanto bagnate da gocciolare.

L'uomo si strizzò anche un po' la camicia, lasciando in terra una chiazza d'acqua non indifferente, e poi si irrigidì un istante, come se si fosse accorto di non essere più solo.

Quando questi si voltò, finalmente Caterina lo riconobbe. Era Giovanni da Casale. I tratti decisi, ma abbastanza fini dell'uomo si congelarono un momento, mentre i loro occhi si incrociavano.

Il suono quasi invadente della pioggia batteva sui loro timpani forte come i tamburi da guerra quando parte la carica.

La Tigre non riusciva a evitare di tenere gli occhi fissi su di lui. Con il suo quarto di secolo mal contato, Pirovano era un giovane uomo aitante e fin troppo bello, per essere un semplice mercenario. Aveva cercato di ignorarlo, da quando l'aveva alla rocca, ma adesso che si erano trovati soli, in una notte di pioggia, nella tranquillità dell'armeria, la donna non riusciva più a fingere di non esserne attratta.

Di contro, Giovanni non aveva fatto altro che pensare a lei da quando l'aveva vista la prima volta, anche se l'aveva considerata inarrivabile, per lui. Tuttavia, ora che se la trovava davanti, in quell'armeria, con nessun altro presente, con il fracasso della pioggia a difenderli...

“Perdonatemi – fece l'uomo, un po' impacciato – ero nel cortile a fare esercizio... Avrei dovuto avvisare che...”

Caterina, però, non lo stava ascoltando. Gli si era avvicinata e aveva posato una mano sul suo petto che si alzava e si abbassava veloce.

Il contatto con la stoffa fredda di pioggia e, appena dopo con il calore della sua pelle tesa, accese nella Leonessa di nuovo il desiderio di farlo suo. Anche se si era sempre imposta di non avere tra i suoi amanti occasionali nessuno che potesse in qualche modo condizionarla – quindi nessun Capitano, tanto meno nessun Consigliere nè altri notabili – quella volta sapeva che avrebbe fatto fatica a rinunciare.

Pirovano, sentendo il tocco leggero, ma deciso, della mano della Sforza, chiuse un momento gli occhi e poi, sicuro di non sbagliare, si propose, chinandosi su di lei, che era abbastanza più bassa di lui, e provò a baciarla.

In un primo momento la Contessa non ricambiò, un po' scossa per il modo in cui lui stava rispondendo. L'aveva sperato, ma...

Poi, però, non volle più sentire le remore della sua anima e lo baciò con uguale intensità, stringendolo a sè e apprezzando tanto la voracità con cui la stava baciando, quanto la solidità del suo corpo che ora si trovava premuto addosso.

Finalmente, mentre l'uomo affondava una mano nei suoi capelli lunghi e sciolti, Caterina capì cosa le aveva ricordato, quel profumo di pioggia: il suo primo bacio con Giacomo.

Quel lampo improvviso, per un istante la fece vacillare, tanto che l'uomo smise di stringerla a sè e deglutì, forse temendo di aver osato troppo.

La Tigre, però, si riprese in fretta e, in un insieme confuso di ricordi che la riportavano a Giacomo, legati al suono e al sapore della pioggia, e a Giovanni, mentre Pirovano la spingeva verso il tavolo delle armi, si concesse a quel giovane uomo che tanto le ricordava quelli che aveva amato davvero e che, allo stesso tempo, le stava portando una ventata di nuova vita che ancora non riusciva a capire fino in fondo.

 

“Sbagliate a far così!” avvertì Tommaso Feo, tenendo le redini del cavallo di Simone Ridolfi, che rischiava di impennarsi da un momento all'altro, agitato da alcuni lampi che stavano cadendo molto vicini alla rocca di Imola.

“Lasciatelo andare! Ha ragione lui!” sbottò Giampiero Landriani, che se ne stava al coperto, sotto la tettoietta, bagnandosi comunque come se fosse stato sotto al diluvio.

“La Contessa vi vuole qui a curare i suoi affari!” insistette Tommaso, cercando di convincere il cognato, che, però, aveva già radunato un numeroso manipolo di soldati ed era già pronto a partire, malgrado la pioggia e il buio, alla volta di Marradi.

“Se la città cadrà – insistette Simone, ostinato, quasi assordato dal fracasso delle gocce contro la propria armatura e l'elmo – i veneziani avranno libero accesso al Mugello e da lì a Firenze! Non lo posso permettere!”

Il Feo tentò ancora di balbettare qualcosa, ma Ridolfi diede di speroni al suo cavallo che, teso come la corda di un arco, nitrì con violenza e partì subito al trotto.

Appena fuori dalla rocca lo aspettavano gli altri soldati e così il Governatore lasciò Imola in un battito di ciglia.

“Folle! Si farà ammazzare e basta!” gridò Tommaso, parlando all'aria, mentre il suocero gli faceva segno di mettersi al riparo anche lui dalle intemperie.

“Scriverete a Caterina per avvisarla?” chiese Giampiero, serio, mentre conduceva il genero all'interno della rocca e lo scortava fino a una delle stanze che erano rimaste arredate così come le aveva arredate Lucrezia Landriani quando viveva lì.

Tommaso si sedette su un'ottomana, senza preoccuparsi di bagnarla con i suoi abiti gocciolanti e sussurrò: “Non voglio scriverle, no. Vi prego, fatelo voi.”

Il castellano annuì con gravità, i capelli bianchi un po' incollati alla testa per la pioggia che, malgrado tutto, l'aveva colpito: “Lo farò.”

Il Feo scosse lentamente il capo e poi sussurrò: “Simone non capisce che facendo così si sta scavando una fossa. Se non morirà in battaglia, ci penserà lei a punirlo.”

“Ma perché è diventato così insofferente verso gli ordini di Caterina?” chiese Landriani, sedendosi accanto al genero.

“Perché la Tigre non è una donna semplice con cui avere a che fare. O la ami o la odi. O entrambi le cose assieme.” spiegò Tommaso, con gravità: “E non lo capisci finché non è troppo tardi.”

 

Giovanni da Casale si stava riallacciando le stringhe delle brache, mentre Caterina controllava di essere discretamente in ordine.

La pioggia non aveva accennato a smettere di cadere nemmeno per un'istante, benché fosse passato parecchio tempo, da quando i due si erano appartati nella sala della armi. Per fortuna, però, forse anche complice la notte da lupi, nessuno era passato di lì in tutto quel tempo e così avevano fatto le cose con calma.

Anche adesso che si stava rivestendo, Pirovano lo stava facendo con lentezza, come se volesse far durare quel momento all'infinito, come se non volesse lasciare andare nè il sentore della che aveva amato e che ancora avvertiva sulla propria pelle, nè la sensazione di intimità che stava provando nel restare con lei, soli, in quella stanza poco illuminata e investita dall'odore pressante della pioggia e della notte.

“Quello che abbiamo appena fatto non è mai successo, intesi?” chiese la Tigre, il collo che prendeva un po' di colore, mentre gli occhi verdi vagavano per la stanza senza mai posarsi su di lui.

Pirovano non disse nulla, annuendo appena con il capo, mentre il suo sguardo si posava di continuo su di lei, la mente ancora ferma a qualche minuto prima, quando ancora la stringeva tra le braccia, sentendo il suo calore e assaporando i suoi baci.

“Tra noi non c'è nulla e mai ci sarà nulla.” mise in chiaro la Sforza: “Voi siete solo uno degli uomini che comando. Nulla di più.”

Giovanni annuì di nuovo, ma questa volta si accorse che lo sguardo della Leonessa non lo sfuggiva più.

Caterina lo stava guardando di traverso, quasi non volesse farsi scoprire, mentre ne osservava il corpo scattante e desiderabile. Mentre si mordeva il labbro, la Contessa indugiò sul ventre piatto dell'uomo, ancora visibile sotto la camicia che non aveva fatto in tempo ad asciugare del tutto.

“Con ciò – aggiunse la Leonessa, avvicinandosi a lui tanto da sentire il suo respiro caldo sulla fronte e da mettergli una mano sul fianco – non dico che non dovrà ricapitare mai più, anzi...”

Giovanni da Casale si permise di fare un breve sorriso, ma, quando abbassò un po' il viso per cercare di baciarla ancora, la donna si scostò con decisione e concluse: “Domani voglio che partiate anche voi alla volta di Marradi. Ricongiungetevi con Fracassa e andate a togliere dai guai Dionigi Naldi. I veneziani non devono riuscire per nessun motivo a passare gli appennini e arrivare a Firenze.”

Sorpreso e un po' interdetto dalla velocità con cui quella donna – che gli si era concessa tanto liberamente, pretendendo, anzi, da lui più di quanto lui avesse potuto sperare – era passata da discorsi molto personali ad affari di guerra, Pirovano raddrizzò le spalle e, con un brevissimo mezzo inchino, disse: “Sono completamente ai vostri ordini, mia signora.”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas