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Autore: Adeia Di Elferas    28/06/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quel 24 settembre Firenze era battuta da un vento gelido che prometteva un inizio d'inverno improvviso e violento.

Ranuccio da Marciano era stato presso la Signoria per prendere gli ultimi ordini e si apprestava a lasciarsi alle spalle la città, diretto prima al Mugello e da lì verso Marradi, in soccorso alle truppe forlivesi che avevano chiesto direttamente l'aiuto di Firenze.

La Signoria aveva discusso a lungo, prima di decidere che fosse giusto mandare Ranuccio oltre gli Appennini con otto squadre di cavalieri e balestrieri a cavallo, a anche a decisione presa, qualche malumore era rimasto.

L'effetto di alcune dicerie messe in giro chissà da chi – e mai confermate, però, dalle spie fiorentine che tenevano d'occhio il campo veneziano vicino a Pisa – Piero il Fatuo si era presentato all'accampamento e si era detto pronto a guidare l'esercito alla riconquista di Firenze, se Firenze non si fosse calmata.

Lorenzo il Popolano, capo di una fazione che in quei giorni stava vivendo un momento molto difficile, aveva disertato senza troppi complimenti la Signoria, perché aspettava da un momento all'altro il ritorno del corpo del fratello. Una staffetta rapida aveva anticipato il corteo funebre che stava scortando i resti mortali di Giovanni, ma non era stata sicura del tempo che ancora ci sarebbe voluto, prima che arrivassero.

Le piogge battenti che avevano trovato lungo la strada li avevano rallentati moltissimo, perché il capo della comitiva aveva deciso – su consiglio pregresso del dottore che aveva seguito il Medici negli ultimi giorni – di evitare il più possibile quel genere di intemperie, per evitare che il corpo si rovinasse troppo.

“Se quello che dicono su tuo fratello Piero fosse vero...” sussurrò Jacopo Salviati, sbriciolando un pezzo di pane sul tavolo, pensoso.

Lucrezia Medici guardò il marito per un lungo istante. Il vento soffiava con tanta forza che perfino nella sala in cui si erano messi a pranzare si sentiva il suo ululato.

Jacopo, trentasette anni appena compiuti, teneva gli occhi fissi sul vassoio di formaggi che stava nel centro della tavola e aveva le labbra un po' sporte in fuori, mentre con le dita continuava a tormentare il pane nero già ridotto a pezzettini.

“Smettila di rovinare il cibo.” lo riprese Lucrezia, che pure, malgrado volesse nasconderlo, in quei giorni era inquieta quanto lui, anche se per un motivo diverso.

Salviati, in quasi quarant'anni di vita, era sempre stato attento a non pestare mai troppo i piedi a nessuno e c'era riuscito meglio di tanti altri. Aveva sposato una donna che lo aveva posto in modo abbastanza netto in favore di una fazione, ma, malgrado questo, era passato indenne attraverso passaggi di potere e Falò della Vanità, senza mai rischiare davvero di essere dalla parte del torto.

Dunque pensare che il Fatuo stesse, forse, riuscendo a trovare la sua strada per tornare a Firenze, lo destabilizzava. Essendo sposato a Lucrezia, la logica lo avrebbe voluto, in tal caso, sostenitore di Piero, anche se in quel momento era sui Popolani che stava puntando, per trovare la propria stabilità.

La Medici, invece, era inquieta perché aveva paura che tutto il castello di carte messo in piedi da Piero stesse per implodere. Lei stessa aveva cercato con ogni suo mezzo di favorire il suo rientro a Firenze, ma più di un tanto non era riuscita a fare. Anche cercare una mediazione con Lorenzo il Popolano pareva inutile, ancor di più da quando si era saputo della morte di suo fratello Giovanni.

Era un uomo distrutto, si era fatto ombroso, taciturno, scontroso. Prima, per quanto scialbo, rispetto al fratello minore, era noto per essere un uomo accogliente e a modo suo apprezzabile. Ma, ultimamente, era diventato un altro.

“Se fosse vero che tuo fratello ha raggiunto i veneziani, forse sarebbe stato meglio se la Signoria avesse evitato di mandare Ranuccio a Marradi...” concluse Jacopo, sollevando gli occhi scuri verso quelli della moglie.

Questa, i capelli chiari raccolti in una reticella, deglutì e sorbì un po' di vino, chiudendo in fretta il discorso: “Non credo che Piero sia al campo. Immagino si stia nascondendo. Non è un uomo d'armi...”

Salviati parve quasi rincuorato da quella notizia e annuì silenziosamente, smettendo finalmente di fare briciole del pane che aveva tra le dita e tornando a mangiare, per quanto ancora silenzioso e assorto.

Lucrezia stava per aggiungere qualcosa, ma una delle bambinaie si presentò nella sala e la reclamò, perché non riuscivano a calmare Battista, ultimo nato in casa Salviati.

La donna strinse le labbra e poi, scusandosi con il marito, andò a vedere cosa fosse successo di così tragico da scatenare quella crisi di pianto.

 

Caterina quella mattina era uscita molto presto per andare fino alla rocca di Forlimpopoli. Prima di tutto l'aveva fatto per vedere con i propri occhi come e se suo fratello Piero stesse adoperandosi per portare a termine gli ordini.

E poi, non secondario, voleva allontanarsi per qualche ora da Ravaldino, e così aveva unito l'utile al dilettevole prendendosi quella mezza giornata di apparente pausa.

Giovanni da Casale aveva lasciato Forlì quella mattina assieme a Fracassa alla volta di Marradi e la Sforza aveva trovato una scusa per non presenziare alla partenza. Da quando l'aveva fatto suo nella sala della armi, non poteva negarlo, aveva continuato a pensargli e non voleva.

Si conosceva abbastanza bene da sapere che l'attrazione che provava per quell'uomo era abbastanza vaga e prettamente fisica, tuttavia il fatto che a tratti quel giorno stesse oscurando il ricordo presente e fisso di Giovanni e di Giacomo la stava infastidendo. Anche se si ostinava a convincersi di volerli dimenticare, la realtà era che non li voleva oscurare con l'immagine di nessun altro.

“Hai fatto un ottimo lavoro, davvero.” fece la Tigre, quando il fratello ebbe finito di mostrarle tutto quello che aveva messo a punto: “Sono sicura che Forlimpopoli sia uno dei nostri migliori baluardi difensivi. Tuttavia...”

“Tuttavia?” chiese Landriani, accigliandosi.

Caterina soffiò e ammise: “Milano ci chiede un arruolamento di massa. Coercitivo, se necessario, e in effetti...”

Piero si schiarì la voce, gli occhi chiari che correvano dalla sorella a una delle torrette della rocca, mentre il cielo cominciava a coprirsi di nuovo di nuvole: “Io non posso andare per le campagne a prelevare i contadini che non vogliono arruolarsi. Abbiamo già abbastanza soldati. Uno di loro ne vale dieci. E poi hai detto che entro un mese torneranno gli esuli e libererai i carcerati. Non saranno truppe scelte, ma a Milano andranno bene per far numero.”

Siccome cominciava a cadere qualche goccia di pioggia, la Leonessa propose di entrare e stare al coperto. Così, una volta sistemati in una delle stanze più comode, la Contessa si disse d'accordo con lui, ma gli spiegò anche che conoscendo Ludovico, si aspettava da lui pressioni forti, in caso di mancato ottemperamento di quella richiesta.

Finito di discorrere – in modo in realtà abbastanza sterile – della situazione, Caterina si prese un momento per osservare suo fratello. Ormai era un uomo a tutti gli effetti, e aveva preso quel velo di eterea bellezza che era stato proprio della madre.

“Forse dovresti lasciare il posto da castellano...” gli disse dopo un po', mentre beveva un sorso di vino: “Sei giovane e sei bello. Se sprecato qui dentro.”

“Io ci sto bene, qui.” si oppose Piero, vagamente preoccupato, come se temesse che quello fosse il preambolo di un congedo forzoso.

“Non vorresti una moglie? Una famiglia?” chiese la Sforza, che, rivedendo nel fratello ciò che di più vicino a una famiglia d'origine aveva, avrebbe voluto permettergli di avere il meglio: “Se resti qui rischi solo di farti ammazzare...”

“Io non sono da solo.” le confessò il giovane, arrossendo un po'.

A quel punto la Tigre si accigliò e attese maggiori spiegazioni. Piero pareva molto in difficoltà, ma alla fine trovò il coraggio di parlare.

“In realtà è da un po' di tempo che... Ecco, c'è una donna che viene alla rocca e resta con me per qualche giorno, di quando in quando. So che forse non dovrei, perché io sono il castellano e non dovrei avere distrazioni, ma...” farfugliò lui, il viso color fuoco e la voce che si perdeva un po' sul finale delle frasi.

“La ami?” chiese Caterina, senza voler sapere nè che donna fosse, nè come si chiamasse, nè da dove venisse, perché quelle, secondo lei, a quel punto erano solo informazioni secondarie.

“Sì.” affermò lui.

“La vuoi sposare?” chiese la Sforza, sentendosi già pronta a lasciare il fratello libero di andarsene, magari a Fortunago, dato che quel borgo, in tutti quegli anni, era servito solo a far ingrassare degli amministratori che nemmeno conosceva.

“Non potrei.” sussurrò Piero, facendosi di colpo serio: “Lei un marito l'ha già.”

A quella rivelazione, la Leonessa versò da bere a entrambi e, sollevando il calice verso il fratello, sospirò: “È proprio vero, non si può avere mai quello che si vorrebbe.”

Landriani annuì appena, bevve mezzo calice in un fiato e poi concluse: “Almeno ho il suo cuore.”

“Che non è poco.” concordò la Sforza, vuotando il suo bicchiere e respirando l'aria profumata di pioggia che entrava dalla finestra lasciata un po' aperta.

 

Simone Ridolfi, assieme ai suoi uomini, aveva dovuto aggirare Marradi, per evitare di finire in mano veneziana. Per fortuna i suoi esploratori avevano capito subito che ormai la città era caduta e così si erano diretti verso la rocca di Castiglione, che batteva ancora la bandiera della Sforza.

Ci avevano messo parecchio, a coprire la distanza da Imola a lì, e non solo per la pioggia battente che li aveva infradiciati fino al midollo, rendendo difficile ai cavalli attraversare anche le strade migliori, ma soprattutto la paura di cadere in qualche imboscata e il tentativo di non farsi vedere dai faentini.

Dionigi Naldi riconobbe all'istante gli stendardi portati dagli uomini del Governatore di Imola e fece aprire il portone e calare il ponte.

“Finalmente!” esclamò: “Sono così felice di avervi qui!” e mentre parlava, fece segno a un paio dei suoi di far sistemare i cavalli nelle stalle e chiamò a sè Ridolfi.

Il Governatore smontò di sella e lo seguì all'istante al coperto: “Appena ho ricevuto il vostro messaggio sono corso qui...”

“Venite. Dentro c'è anche messer Giovan Francesco Sanseverino... Non ha fatto che arrivare pochi minuti fa...” spiegò Dionigi.

Simone si accigliò un momento, passandosi una mano tra i capelli gocciolanti. Alla fine, dunque, la Sforza aveva mandato pure lei degli uomini. Forse era stato avventato a precipitarsi fino a lì di sua iniziativa...

“Venendo qui – disse a Naldi, mentre lo accompagnava nella camera in cui era stato alloggiato il Sanseverino – ho visto i veneziani che apparecchiavano le armi da assalto...”

“Lo so, lo so, per Dio! Noi ci aspettiamo di essere sotto assedio da un momento all'altro.” confermò con gravità Naldi: “Ma per fortuna ora anche voi e Sanseverino siete qui e presto, dice messer Giovan Francesco, dovrebbe arrivare anche suo fratello Fracassa assieme a Giovanni da Casale. Sì, vedrete, i veneziani non ci avranno.”

Ridolfi affettò un sorriso, ma il suo unico pensiero a quel punto correva alla Tigre di Forlì e temeva il momento in cui sarebbe venuta a sapere del suo colpo di testa. Forse, pensò, se non avesse avuto nulla da perdere, avrebbe trovato il modo di farsi ammazzare in battaglia. Sarebbe stato di certo meno doloroso e più rapido che non finire nelle grinfie della sua signora.

Ma a Imola aveva una moglie che amava. Aveva la memoria di Giovanni da difendere. Aveva ancora troppe cose da fare.

Dunque, si disse, mentre saliva le scale con Dionigi, avrebbe venduta cara la pelle e, se avesse dovuto affrontare la Sforza, l'avrebbe fatto a mento alto e spalle dritte.

 

Dopo aver passato la notte a Forlimpopoli ospite del fratello, Caterina aveva deciso di tornare a Forlì.

Aveva voglia di rivedere suo figlio Giovannino e, anche se si era riposata e, malgrado la pioggia, moriva dalla voglia di andare nei boschi e passare ancora qualche ora da sola, magari alla Casina, senza dover pensare a tutto quello che le stava capitando.

Invece, non appena mise piede sul ponte della rocca di Ravaldino, dalle merlature, coprendosi la visuale con la mano, il castellano Feo, bagnato come un pulcino, le fece segno di affrettarsi.

Temendo che fosse successo qualcosa di grave, la donna spronò il cavallo, scendo quando ancora gli zoccoli non si erano fermati, e chiese subito a Cesare, che stava scendendo le scale di corsa: “E dunque? Che è successo?”

“Al palazzo, mia signora...” fece lui, il fiato grosso per lo sforzo fisico: “Il nuovo ambasciatore di Firenze vi attende per importanti comunicazioni.”

“Il nuovo ambasciatore?” chiese la Contessa, irritandosi subito all'idea che Giovanni fosse stato già rimpiazzato anche dai fiorentini: “E perché non mi hanno avvisata prima? Dovevano annunciarmi il suo arrivo in modo ufficiale. Per quello che ne so io, potrebbe essere una spia di Venezia!”

“Vi prego, mia signora...” fece il castellano, a voce più bassa, guardandola di sguincio: “Siate ragionevole. Pensate al momento in cui siamo...”

La Tigre comprese quello che il Feo le stava dicendo. La richiamava alla calma, al lasciarsi alle spalle la sua proverbiale istintività. E aveva ragione.

Così, senza nemmeno andarsi a cambiare, si fece ridare il cavallo e corse come un fulmine fino al palazzo dei Riario, pregna di pioggia così come era arrivata da Forlimpopoli.

 

Andrea Pazzi stava aspettando da almeno un paio d'ore e stava perdendo le speranze. Se non fosse stato per la condanna del cognome che portava, non avrebbe mai accettato di andare a Forlì. E invece aveva sulle spalle un peso molto difficile da portare e così, pur di riabilitarsi e farsi ricordare per altro che non fossero i suoi sciagurati parenti, aveva dovuto piegare il capo e accettare quella missione.

Il palazzo Riario era spoglio, sporco e dimesso. Per metà, addirittura, era stato smembrato. Quando gli avevano detto di attendere lì la Tigre, all'inizio aveva pensato a uno scherzo. Quell'edificio sembrava vittima di un assedio, e, invece, così gli era stato detto era stata proprio la Sforza ridurlo in quelle condizioni.

Quel fatto, assieme alle teste impeciate che aveva visto sulla Torre, e alla quantità di soldati che inondava le strade, gli aveva fatto capire subito che le voci su quella donna non potevano che essere vere.

“Siete voi il nuovo ambasciatore?” chiese una voce femminile, alle sue spalle.

Quando Andrea si voltò, si trovò dinnanzi una donna dall'aspetto ferino. I capelli lunghi e tanto chiari da sembrare bianchi, sciolti e fradici di pioggia, gli abiti semplici, quasi rovinati, e il viso tirato in un'espressione di aggressiva diffidenza. Malgrado ciò, però, il suo profilo era quanto di più terreno e affascinante il Pazzi avesse mai visto. Era una di quelle donne capace di risvegliare gli istinti perfino degli uomini più pii e pacati. Se avesse dovuto dare una forma alla tentazione, quella sarebbe stata l'effige della Sforza.

“Andrea dei Pazzi, ambasciatore di Firenze presso la vostra corte.” si presentò l'uomo, con un profondo inchino, riscuotendosi con difficoltà da quella visione.

Al contrario di quanto era accaduto durante il su primo incontro con Giovanni, Caterina trovò irritante, anzi, proprio insopportabile, l'accento fiorentino di quell'uomo e il tono con cui gli parlò tradì tutta la sua avversione: “Un Pazzi? Dunque ne esiste ancora qualcuno. Credevo che il Magnifico vi avesse fatti estinguere, ma forse funziona come con i topi: pensi di averli ammazzati tutti, e invece qualcuno nel buio finisce sempre per salvarsi...”

Il diplomatico restò raggelato da quell'incipit, tuttavia, non badando al sudore freddo che gli imperlava già la fronte, si fece coraggio e cominciò a dire: “La Signoria mi ha mandato qui per...”

“Volete del vino?” chiese Caterina, interrompendolo subito e uscendo un attimo dal salone per chiamare qualcuno che potesse portare loro da bere.

Nel palazzo era rimasta una piccola dispensa, che la Contessa teneva sempre abbastanza rifornita, dato che comunque quella non era ancora una sede del tutto abbandonata. Quando si occupava delle questue e degli incontri diplomatici, qualche calice e magari un po' di cibo potevano sempre tornare utili.

Quando si trovò di nuovo da solo con lei, Andrea Pazzi accettò il calice che gli veniva offerto, ma attese che fosse la donna a bere per prima. Lo metteva a disagio, stare da solo con lei e non sapeva che aspettarsi.

La Leonessa lo invitò a parlare e quando l'uomo ebbe esposto per intero la sua dissertazione, la donna soffiò: “Non avevano soldati... Queste sono tutte scuse. Diciamo che preferite darmi i soldi, imponendomi la cifra di uomini da reclutare e infischiandovene se invece io pago i miei uomini con cifre più alte.”

“Non è questo che...” provò a dire Pazzi, ma la donna lo interruppe.

“Come pensate che trovi dei fanti a quello stipendio, se tutti sanno che ai miei uomini do di più? La vostra è ipocrisia, non supporto.” lo attaccò Caterina.

Andrea, che pure si era imposto di mantenere la calma, cominciava a capire perchè tutti quelli che l'avevano conosciuta la tenevano a distanza: “Ebbene, se volete rifiutare questi soldi io...”

“No, no.” lo fermò la Leonessa, mostrando i palmi delle mani: “I soldi li prendo, ma riferite alla Signoria che sono molto delusa da una cifra tanto scarna e che non assicuro di poter raggiungere la quantità di uomini che mi richiedono. Le mie campagna si stanno spopolando e tutt'attorno a me Rimini e Ravenna stanno reclutando a tappeto anche uomini che di diritto spetterebbero a me.”

L'ambasciatore riappoggiò il calice al tavolo, e sospirò: “Farò come dite.”

In fondo, pensava, l'importante era averle strappato un'ammissione di fedeltà nei confronti di Firenze. Quella donna, infatti, non sembrava affatto intenzionata a tradire la patria del defunto marito.

Proprio a quel pensiero, Pazzi si ricordò di un altro compito, collaterale per così dire, che gli era stato affidato prima della partenza.

Lorenzo Medici lo aveva pagato bene affinché facesse pressioni sulla Sforza che, evidentemente, o non aveva ricevuto o faceva finta di non aver ricevuto il suo ordine perentorio di rispedirgli a Firenze tutti gli effetti personali del marito.

“C'è un'altra cosa...” fece il fiorentino, quando capì che la Contessa lo stava per congedare: “Si tratta dei beni materiali di messer Giovanni Medici. Suo fratello vi prega nuovamente di fargli avere ogni cosa, dai libri agli abiti.”

“Non se ne parla.” si incaponì Caterina, dopo un solo istante in cui, nel sentir nominare Giovanni, aveva avuto un attimo di cedimento: “Quelle cose spettano a me, molto più che a suo fratello. Io ero sua moglie e un giorno darò i suoi oggetti a suo figlio.”

“Ambasciator non porta pena.” fece il Pazzi, sollevando le sopracciglia: “Ma vi avviso che messer Lorenzo è pronto a ingiungervi causa legale, se non farete quanto detto. In fondo si tratta di oggetti di valore... Libri costosi, vestiti pregiati, monili...”

“Causa legale...” sbuffò la Tigre, scuotendo il capo: “Piuttosto, fate sapere a Lorenzo che presto reclamerò la mia parte di eredità. Mio figlio deve avere quello che gli spetta. Suo padre lo voleva e io non mi darò pace finché non darò a mio figlio fino all'ultimo soldo.”

“Forse non sono affari miei – si permise di dire Andrea – ma io starei attento, al vostro posto.”

“Andate all'inferno, Pazzi.” lo salutò la Leonessa e, furente tanto con lui, quanto con il cognato e con sè stessa, che non era riuscita a mantenere la calma, lasciò il palazzo senza aggiungere altro e si chiuse nella sua stanza alla rocca.

Prese il necessario per scrivere e vergò una lettera molto succinta e decisa per Lorenzo, in cui non solo si rifiutava in modo irrevocabile di fargli avere le cose di Giovanni, ma anzi citò anche la sua intenzione di pretendere a breve la sua parte di eredità.

In calce, poi, si firmò senza indugio: Caterina Sforza Medici.

 

Giovanni da Casale e Fracassa avevano faticato parecchio ad arrivare alla rocca di Castiglione, una volta passati i soldati veneziani che stanziavano a Marradi, ed erano riusciti a entrare nella fortificazione per poco.

L'assedio, infatti, cominciava a delinearsi e forse, all'alba, sarebbero cominciati i primi assalti alle mura.

“Adesso la rocca sta diventando quasi imprendibile – disse Dionigi Naldi, quando ebbe gli altri comandanti seduti con lui attorno al tavolo su cui era spiegata la mappa della zona – ma siamo in tanti e i viveri potrebbero non bastare per un lungo periodo.”

“Io e i miei potremmo uscire dalla rocca e fare da martello, mentre voi qui fate da incudine.” si propose Fracassa, che non vedeva l'ora di menar le mani.

“Loro sono troppi. Vi spazzerebbero via appena varcato il portone.” si oppose Ridolfi che, per quanto non fosse un uomo di guerra, si era fatto un'idea molto chiara della situazione.

“E allora? Che facciamo?” chiese Giovan Francesco Sanseverino, allargando le braccia.

“Aspettiamo finché possiamo che arrivino i rinforzi da Firenze.” propose Naldi, indicando sulla cartina il punto da cui, probabilmente, sarebbero arrivati i fantomatici soldati della Signoria: “E quando li avremo, romperemo la morsa dei veneziani.”

Se li avremo.” disse con un filo di voce Giovanni da Casale, attirando subito gli sguardi preoccupati degli altri che, in tutta onestà, la pensavano esattamente come lui.

Pirovano non si era seduto al tavolo. Se ne stava in un angolo, le braccia incrociate sul petto e l'espressione triste. Era sempre stato un soldato preciso e puntuale in tutto quello che faceva e alla corte dello Sforza, a Milano, era stato notato quando era ancora solo un ragazzino. Aveva origini bassissime e tutto quello che aveva lo doveva solo alla sua bravura con le armi. La vita del soldato gli aveva dato tutto. Amava quel modo di vivere e accettava senza problemi il rischio di morire per colpa del suo lavoro.

Eppure in quel momento avrebbe dato tutto quello che aveva, pur di non essere lì. Non voleva rischiare di farsi uccidere nel corso di quella disperata difesa. Voleva solo ritornare dalla Tigre, a Forlì. Se anche da lei avesse potuto ottenere solo qualche notte rubata, come quella che ancora gli tornava alla mente con la violenza di una tempesta, gli stava bene. Ma non poteva accettare il pensiero che forse non l'avrebbe rivista più.

“Non siate così pessimista.” disse Naldi, dopo un po': “I fiorentini arriveranno, salveremo la rocca e riprenderemo Marradi.”

“E la Contessa sarà fiera di noi.” concluse Ridolfi che, in tutto questo, sperava di ottenere una grande vittoria per avere il perdono della sua signora.

“Farsi comandare da una donna... E cercarne anche l'approvazione...” scosse piano il capo Fracassa, usando, però un tono divertito e privo di qualsiasi rancore o astio: “Quasi non mi riconosco più...”

 
   
 
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