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Autore: Nina Ninetta    03/07/2018    6 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 15
Chi sei?



Ancora oggi sono sicura che fu il colore dei capelli a dargli la certezza che fossi proprio io. Non ci sono altre spiegazioni, se non il fatto che sapesse che mi sarei occupata di lui durante la sua convalescenza, ma quando glielo chiesi negò stoicamente.
«Dimmi la verità, hai chiesto esplicitamente di me?» gli domandai un giorno, mentre lo aiutavo a muovere i primi passi post-operazione.
«No» rispose a stento, stringendo i denti per il dolore e con il viso madido di sudore, lo asciugai con un panno di cotone.
«Sicuro? No, perché mentirmi è il tuo passatempo preferito» ogni momento e ogni discussione erano buoni per ricordargli di quando avevamo sedici anni e nonostante si spacciasse per il mio finto fidanzato, non mi aveva detto come stavano veramente le cose ed era evidente che non avevo ancora metabolizzato il tutto.
«Sai una cosa Rosetta?»
«Viola.»
«Sei diventata davvero noiosa, una volta eri più divertente» con uno sforzo enorme si sedette sul tappeto che stava percorrendo, mantenendosi a entrambe le sbarre che correvano parallele ai suoi fianchi. Mi strappò via l’asciugamano e si deterse la faccia, il collo e le braccia nude imbrattate di tatuaggi in stile tribale. Io mi piantai proprio dinnanzi a lui, le mani sui fianchi.
«Ehi, che fai? Non abbiamo ancora finito!»
«Invece sì, io ho finito. Chiama gli infermieri e fatti portare una sedia a rotelle.»
«La tua camera è qui di fronte, potresti sforzarti di…» William appallottolò il panno di cotone e lo lanciò con forza contro la parete alle mie spalle.
«Chiama-gli-infermieri ho detto!»
Feci un respiro profondo, provai a contare fino a dieci, ma al tre sbottai:
«Io sarò anche diventata noiosa, ma tu sei diventato uno stronzo!» non rispose, né mi guardò e a me non rimase altro da fare che obbedirgli.
 
Willy era cambiato in tutto, a 360°.
Il primo mutamento che risaltò fu, ovviamente, quello fisico. Alla luce debole del sole invernale notai che il taglio a punta sulla testa manteneva ancora la sua forma originaria, benché urgesse una spuntatina nei lati. Il viso era scavato e tendente al grigio, cosa che quasi mi preoccupò, ma in fondo per un paziente che ha da poco subito un’operazione è normale avere un colorito malsano, inoltre se ne stava rinchiuso in quella stanza 24 ore al giorno, di certo non poteva presentare una bella cera con tutti quei fattori a sfavore. Metà volto era ricoperta dalla barba che, come i capelli, aveva bisogno di essere rasata. Gli donava un’aria da trasandato che non mi piaceva per niente.
Ero sotto shock. Avevo sognato così tante volte quel momento, l’attimo in cui ci saremmo rivisti - se mai ci fossimo rivisti - che mi sentivo come in una bolla d’aria, i suoni si attutirono, l’aria divenne pesante, il tempo fermò la sua corsa. Lui allungò una mano nella mia direzione e io la presi nella mia, muovendomi al rallentatore. La strinse, mi sorrise, la bocca una linea sottile e grigiastra che spiccava fra la barba nera.
«Sei sempre uguale, Cappuccetto.»
No, non è vero, avrei voluto rispondergli, sono cambiata, sono così diversa che stenteresti a riconoscermi, non sono più l’adolescente che hai… abbandonato.
«Tu invece hai un aspetto pessimo» dissi d’impulso e lui scoppiò a ridere, gettando la testa all’indietro; poi il professore De Martino si schiarì la voce e solo allora mi ricordai della sua presenza. Ritirai la mano da quella di Will e mi scusai, ero stata inopportuna, ero desolata, non si sarebbe ripetuto più. Ma con un gesto della mano il dottore fece intendere che andava bene così, affermando che forse ero proprio la persona più adatta a gestire quel caso.
«Sai quanti infermieri e psicologi ha fatto fuggire questo qui?» udendo le parole del professore, Willy si chiuse a riccio, le braccia conserte e la fronte corrugata.
« Le infermiere erano tutte brutte e gli infermieri mi mettevano mani ovunque
«Facevano solo il loro lavoro. Poiché non volevi alzarti dal letto manco per pisciare, non avevano altra scelta.»
Notai subito come quei due fossero in confidenza e, nei giorni successivi, compresi che il dottor Andrea era il suo ortopedico personale, tanto che lo aveva seguito fin dal suo arrivo nella squadra. Dopo quel simpatico siparietto, il professore mi invitò a seguirlo nei corridoi, qui mi spiegò a grandi linee la situazione, chiedendomi del mio rapporto con Will.
Bella domanda, pensai. Cosa siamo?
«Ci conosciamo da tempo» fu la mia risposta vaga e ciò sembrò bastargli.
«Il paziente ha avuto un grave infortunio alla gamba destra che non gli comprometterà la vita sociale, ma la sua carriera calcistica» scossi leggermente il capo, non capivo o non volevo capire. «Non potrà più giocare a calcio» quelle parole mi arrivarono addosso con la stessa violenza di una bomba. Mi portai le mani alla bocca.
« E lui lo sa?»
«Si, gliel’abbiamo spiegato con una troupe di psicologi che lo seguono ancora tutt’oggi. Non ha fatto scenate drammatiche, ha detto che lo sapeva già, lo aveva capito quando aveva sentito l’osso rompersi in campo, e che se non poteva più giocare a pallone tanto valeva evitare tutti i dolori della riabilitazione e restarsene a letto.»
Rimasi sbalordita. Più che dalla notizia in sé dalla reazione di Will. Il ragazzo che ricordavo io aveva superato vicissitudini che avrebbero demoralizzato qualunque essere umano. Il ragazzo che ricordavo io era sempre sorridente, sempre pronto ad aiutare il prossimo, mai sgarbato o maleducato. E ora, a soli venti anni, giaceva in un letto d’ospedale, con i capelli arruffati e un mucchio di peli in faccia, senza voglia di combattere per rialzarsi, senza la voglia di uscire all’aperto per respirare l’aria fresca e sentire i raggi del sole sulla pelle.
«Quando ne ho parlato a Jenny…» sentendo quel nome sussultai: ecco chi aveva progettato tutto. «… mi ha convinto che tu fossi l’unica in grado di smuoverlo dal suo stato di torpore, che saresti arrivata dove anche i psicologi hanno fallito. Tengo in maniera particolare a questo ragazzo, perché è giovane e può vivere una vita normale
Se pensava di rincuorarmi o darmi forza con quelle parole, il professore quel giorno si sbagliò di grosso. Mi stava facendo carico di responsabilità che non mi spettavano: non ero una sua specializzanda che mirava a diventare chirurgo ortopedico, né avevo in realtà così tante cose da spartire con quel paziente a cui, diceva, di tenere in modo particolare.
Si, tra me e Will c’era un passato e alcune cose erano ancora irrisolte, ma non ci vedevamo da così tanti anni che se lo avessi incontrato per strada avrei faticato a riconoscerlo.
Ok, forse lo avrei riconosciuto all’istante, il problema vero era che avevo paura di fallire. Nel bene o nel male avevo imparato a conoscerlo e se a sedici anni era testardo come un mulo, non osai immaginare come fosse diventato negli anni, con una gamba rotta e la prospettiva di dover fare atroci sedute di riabilitazione, pur sapendo che comunque non avrebbe più potuto scendere in campo: la sua passione, la sua vita. Il calcio era il motivo per cui era andato via dalla sua città, da sua madre e da Lu. Era il motivo per cui era andato via da me, lo stesso che però ci aveva fatto ritrovare. Strano a volte il destino. Tornando a casa una sera, mentre ero mezza addormentata con la fronte contro il finestrino della metropolitana, stanca e avvilita, mi tornarono in mente le parole che l’autista del bus mi riferì il giorno in cui io e Will ci salutammo: la vita è lunga e fa un sacco di giri. Non ricordo se la frase fosse proprio così, ma più o meno il senso era questo.
 
Il professore mi fece tornare con i piedi sulla terraferma quando il suo cercapersone prese a suonare. Lo vidi mentre lo estraeva dalla tasca e attraverso le lenti degli occhiali da vista vi leggeva il codice riportato. Quindi mi guardò, annunciandomi che doveva assentarsi per diverse ore, aveva un operazione che lo attendeva. Smise di far strimpellare il cercapersone premendo un tasto e riponendolo dove l’aveva preso:
«É tutto tuo» mi disse. «Puoi anche rivolgerti a lui con insulti e offese se questo servirà a farlo smuovere, hai il mio permesso. E se un infermiere ti rimprovera, digli che te l’ho ordinato io» accennò quello che per lui doveva essere un sorriso e che a me mise i brividi.
Per come si comportò Will in quel mese in cui gli feci – praticamente – da balia, credo che lo avrei preso a cattive parole anche senza il permesso del dottore. In fondo non era una cosa che mi veniva difficile: era una reazione volontaria che riusciva a cacciare fuori il peggio di me, proprio come a sedici anni.
Prima di dedicarmi a lui però, un pensiero non smetteva di darmi pace, perciò scivolai fino agli spogliatoi. Qui presi il cellulare e mi chiusi in bagno, sedendomi sul coperchio del water attesi la risposta di Jenny.
«Si?»
«Sei stata tu? Tu lo sapevi?» le chiesi cercando di non urlare.
«Sorpresa!» esclamò lei con troppo entusiasmo.
«Sorpresa? Jenny ma come ti è venuto in mente?»
«Perché? Non sei contenta?» mi domandò con quella vocina da bambina che faceva quando sapeva di essere dalla parte del torto. La sentii addentare qualcosa, forse una mela.
«Non è una questione di contentezza oppure no. La questione è che avresti dovuto dirmelo che c’era di mezzo lui .»
«E tu avresti dovuto dirmi che c’era qualcosa fra te e Christian» mi rispose con la bocca piena, mentre io, rinchiusa nel bagno dell’ospedale, roteavo gli occhi al soffitto bianco. Ogni volta che voleva evitarsi una ramanzina, Jenny metteva in mezzo quella storia perché sapeva che così facendo avrebbe capovolto la situazione, afferrando il coltello dalla parte del manico.
«Ti odio» le dissi, sconfitta. «E smettila di mangiare!» ringhiai poi, quel continuo masticare mi stava dando sui nervi, già abbastanza provati. Lei ridacchiò, ma perlomeno smise di mangiucchiare.
«Senti Viola, Andrea mi ha raccontato che aveva questo paziente che rifiuta la riabilitazione. I psicologi gli hanno riferito che ha bisogno dell’affetto di un parente o comunque di un amico, di una persona fidata, ma la sua famiglia non può venire a trovarlo e non ha amici se non quelli di squadra, che però sono impegnati con il campionato e altri grilli per la testa. Ci vuole qualcuno che lo conosca bene, che sappia come prenderlo nei momenti più delicati e difficoltosi e io ho pensato a te» ci fu un attimo di silenzio. «Ho fatto male?»
Iniziava a dolermi la testa. No, probabilmente Jenny non aveva tutti i torti, tuttavia restavo convinta del fatto che avrebbe dovuto avvertirmi a cosa stavo andando incontro e che, in ogni caso, mi stavano mettendo addosso una pressione e un fardello che non mi competeva.
Come avrei potuto lavorare serenamente avendo a che fare con lui?
La salutai e lei mi diede l’in bocca al lupo.
Come se mi stessi trascinando un macigno incollato alla schiena, uscii dal mio nascondiglio e tornai nella stanza di Willy, bussando alla porta prima di entrare. Non ebbi risposta, ma l’aprii comunque. Lo trovai a pancia in su, con le coperte tirate fino al petto, le braccia a sostenere il capo e gli occhi, dapprima rivolti al soffitto, si voltarono a squadrarmi.
«Oh Celestina, iniziavo a credere che ti avessi vista in sogno» chiusi la porta e mi avvicinai al letto, ripetendomi in testa una sorta di omelia “è malato, non ascoltare quel che dice, è malato, non potrà più giocare, sii gentile, è malato”. Lui seguì i miei movimenti, tenendo sempre quell’aria da saputello e quel mezzo sorriso che si intravedeva attraverso la barba. La detestavo, lo faceva sembrare una persona diversa, mi sembrava di aver di fronte chiunque altro, tranne che lui. Con la mano destra sfiorò il lembo del camice bianco che indossavo.
«Ti sta bene. Ti dona. Ti conferisce un’aria adulta … e sexy» mi fece l’occhiolino e io risposi con un sorriso, sedendomi sul bordo del letto, attenta a non sfiorarlo neanche per sbaglio. Ci guardammo negli occhi per un po’, ci studiammo, ripensammo a tutto il tempo che avevamo vissuto separati, alle coincidenze del destino che ci avevano fatto rincontrare in simili circostanze.
«Il dottore mi ha raccontato quello che ti è successo» dissi tutto d’un fiato, prima o poi avremmo dovuto affrontare l’argomento, tanto valeva farlo subito e nella calma piatta che era la sua stanza.
«Meglio, mi ha tolto il fastidio di farlo personalmente» la parola fastidio mi disturbò, ma ricordai il mantra (“è malato, non ascoltare quel che dice, è malato, non potrà più giocare, sii gentile, è malato”) e rimasi muta. «Quindi tu, Bianca, saresti l’arma che vorrebbe usare per farmi fare quello che vuole.»
«Mi chiamo Viola e non sono un’arma. Senti Will, il dottore sa che se non ti dai una mossa e cominci le terapie non riuscirai più a-»
«A giocare a calcio?» il suo tono era cambiato, era diventato così tagliente che avevo paura di ferirmi. «Non potrò comunque riprendere a giocare, mi sembrava di aver capito che te lo avesse detto il professorone.»
«Non prenderti gioco di lui, come fai con tutti. È il tuo medico è devi ascoltarlo!» mi alzai con uno scatto, avendo improvvisamente caldo. Lì dentro i termosifoni erano troppo alti, mentre fuori c’erano meno di 10°C.
«Stammi a sentire Cappuccetto: non sarò il tuo cucciolo da salvare, quindi se hai altro da fare puoi anche andartene.»
«Per tua sfortuna il mio unico compito e badare a te, che stai diventando un vegetale, altro che cucciolo.»
«Bene, allora visto che mi farai da babysitter, perché non mi vai a prendere da mangiare, che so… un croissant al cioccolato al bar di fronte. Qua la colazione fa schifo ed è per diabetici.»
Era davvero troppo. Non ero stata chiamata per fargli da governante, ma per aiutarlo a rimettersi in sesto, per stargli vicino quando avrebbe sentito un dolore così forte che avrebbe creduto di morire – che avrebbe preferito morire – e allora avrebbe cercato una mano da stritolare, un paio di occhi nei quali posare i suoi e qualcuno che ridesse o piangesse con lui ad ogni passo avanti.
«Se ti vado a prendere il croissant, poi ti alzi? O perlomeno ci provi?»
«Forse…» rispose lui facendo spallucce, con quella sua aria di disprezzo. Gli schioccai uno  sguardo truce, provando a capire se mi stesse mentendo oppure davvero ci avrebbe provato. Decisi di fidarmi e andai a prendergli la brioche che desiderava. Ne mangiò solo metà, l’altra la diede a me affinché la buttassi. Disse che faceva schifo, che la cioccolata era amara e la sfoglia vecchia. Con un sospiro e ripetendo dentro di me che era malato, dovevo essere gentile, gettai nella spazzatura ciò che restava della brioche, quindi tornai da lui più agguerrita che mai.
«Forza!» lo invogliai con un cenno della mano ad alzarsi, lui mi guardò come se parlassi cinese antico. «Su, forza, iniziamo con il mettere i piedi a terra.»
«Domani, oggi mi scoccio» si girò dal lato opposto al mio e finse di mettersi a dormire, sospirai rumorosamente e feci il giro del letto, cercando di tirargli via le coperte.
«Sono in mutande.» Mi informo tenendo le palpebre abbassate.
«Un paio di mutande non mi scandalizzeranno» non gli avrei creduto neanche se lo avessi visto con i miei occhi, il problema fu che aveva ragione. Quando provai a togliergli le coperte per l’ennesima volta, lui lasciò la presa e per quanta forza avevo messo in quel gesto, barcollai all’indietro. Willy era davvero in slip e d’istinto, tenendo ancora le coperte strette in mano, lo ricoprii alla bell’e meglio, tutta rossa in viso. Lui rise forte, rise di me. Di nuovo, ancora. Credevo che oramai fossi immune ai suoi scherzi, invece mi ritrovai a fumare di ira.
«Senti Will, devi alzarti, devi riprendere a camminare o non potrai mai più farlo. Non vuoi tornare da tua madre e da Lu sulle tue gambe, invece che spinto su una sedie a rotelle?» William tornò serio.
«Non immagini quanto» fu la sua risposta evasiva, la voce tremò appena. Fissò lo sguardo fuori dalla finestra, si era improvvisamente incupito, immerso in un pensiero che lo teneva occupato. Ne approfittai e muovendomi come un felino raccolsi le stampelle ai piedi del letto, porgendogliene una. Lui prima guardò me, poi l’oggetto, mentre io con un sorriso affabile gli dicevo di prenderla, dai forza, piano piano. Avevo il cuore che batteva fortissimo e ancor di più quando afferrò la stampella e la lanciò con violenza e rabbia contro la parete che teneva dinnanzi.
«Te l’ho detto Viola! Non sarò il tuo cucciolo da salvare, quindi se proprio devi stare a farmi da balia, renditi utile e ‘sta zitta!»
 
Chi era quella persona relegata nel letto di un ospedale?
Chi era quell’individuo con la barba sul volto e i capelli senza un taglio definito?
Chi era quello sconosciuto con il volto smunto e grigio, mentre decine di tatoo gli coprivano le braccia, c’erano teschi e figure nere con la falce.
Chi era quel ventenne che preferiva starsene in una stanza spoglia e triste, invece di prendere a morsi la vita?
Se all’inizio avevo creduto che fosse William, il ragazzo di sedici anni che mi aveva proposto di fare un patto in uno dei giorni più tristi della mia vita, scovandomi a piangere disperata perché Cris stava con un’altra;  se avevo rivisto nei suoi occhi color nocciola lo stesso sguardo profondo che mi aveva regalato alla festa della scuola, quando avevamo ballato insieme divertendoci come non mai; se mi era sembrato lo stesso tocco di mano delicato che più di una volta aveva già stretto le mie, beh mi ero sbagliata.
Quell’uomo di fronte a me io non lo conoscevo, non lo avevo mai conosciuto e non avevo intenzione di farlo.
Una cosa però non era cambiata negli anni: quando si arrabbiava era solerte rivolgersi a me con il mio nome di battesimo. Viola.
  
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