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Autore: Adeia Di Elferas    03/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non hai nemmeno avuto il coraggio di andare a vederlo.” sussurrò Semiramide, prendendo un pezzo di pane dal centro della tavola e iniziando a masticarlo silenziosamente.

La donna, da quando aveva rivisto il corpo del cognato, non aveva fatto altro che piangere e quello era uno dei primi momenti in cui i suoi occhi erano sgombri da lacrime. Nemmeno quando era morto Averardo, forse, aveva pianto tanto.

Fino a che il cadavere di Giovanni era stato lontano, non aveva sentito in modo tanto pressante il vuoto che aveva già lasciato. Adesso, invece, che mancavano poche ore alle esequie, non riusciva a fare altro che disperarsi e pensare a come lui e Lorenzo si fossero lasciati l'ultima volta, e ogni ricordo era solo una stilettata in più nel petto.

“E cosa avrei dovuto vedere?” fece il Popolano, secco, rifiutando di prendere da mangiare, malgrado il suo stomaco fosse così vuoto da fargli male.

Aveva incrociato suo figlio Pierfrancesco, la sera prima, di ritorno dalla veglia organizzata in chiesa per Giovanni. Lo aveva visto scosso e in lacrime. Poi aveva visto gli altri suoi figli, e poi sua moglie. Erano tutti in quello stato. Lui, invece, si sentiva come anestetizzato.

“Fai come vuoi.” fece allora l'Appiani, facendo grattare la sedia contro il pavimento e alzandosi, pulendosi appena gli angoli delle labbra con la punta delle dita: “Ma se non ti prenderai un momento, prima che lo mettano in una tomba, non te lo perdonerai, lo so.”

Lorenzo fissò la donna, mentre si allontanava e non poté evitare di trovarla bella come il giorno in cui gliel'avevano data in moglie. Anche se il vestito nero era un po' frusto – era lo stesso che aveva indossato a lungo alla morte di Averardo – il modo in cui incedeva, la rendeva elegante e affascinante, come sempre.

Il Medici abbandonò la schiena contro la sedia e guardò un momento il soffitto. Poi chiuse gli occhi, concentrandosi sul rumore fine delle fiamme basse del comune e del ticchettare della pioggia che cadeva in sbieco contro la finestra.

Deglutì un paio di volte, cercando di pensare, ma tutto quello che gli frullava per la testa, nel farlo, erano le parole vergate da Andrea Pazzi nella sua ultima lettera, con le quali sottolineava come la Sforza non avesse alcuna intenzione di essere ragionevole. E subito dopo, nitide come se le avesse davanti agli occhi, Lorenzo vedeva le lettere scritte dalla mano crudele di quella donna, che nel rivolgersi a lui aveva avuto l'ardire e la cattiveria di firmarsi 'Caterina Sforza Medici'.

“Desiderate ancora qualcosa?” chiese uno dei servi, vedendo come il Popolano non avesse più toccato cibo e paresse immerso in un altro mondo.

Questi si riscosse e poi, alzandosi in fretta, commentò: “No, no... Adesso devo... Devo...” e uscì dal salone senza trovare il modo di concludere la sua dichiarazione.

 

“Guidobaldo Maria da Montefeltro, Bartolomeo d'Alviano e Carlo Orsini.” elencò Jacopo Appiano, riassumendo la situazione: “Si stanno muovendo in massa verso Marradi e da lì probabilmente assalteranno la rocca di Castiglione.”

La pioggia cadeva con tanta assiduità e con gocce tanto grosse che il padiglione di Ranuccio da Marciano sembrava preso di mira da centinaia di bombarde. La voce sottile di Jacopo quasi non si sentiva e il comandante fiorentino dovette addirittura fargli ripetere le ultime parole.

“Strozzi.” fece Ranuccio, indicando Matteo Strozzi, che aspettava ordini accanto a lui: “Prendete duecento uomini e portate alla rocca di Castiglione vino e acqua, in quantità bastante per rifocillare i nostri alleati, ma senza mettere in difficoltà noi, sia chiaro.”

Mentre Strozzi annuiva, già pensando a come organizzare la spedizione, il suo superiore andò verso l'ingresso della tenda e guardò fuori. Quell'ultimo giorno di settembre, il mondo era grigio, preda di un diluvio incredibile, la terra trasformata in fango e il cielo in una cascata gelata.

“Se solo fossimo riusciti a fermare l'Alviano a Bibbiena...” disse tra sè Ranuccio, ricordandosi ancora con disappunto come ci avessero messo troppo ad attraversare gli Appennini per riuscire a prendere i veneziani di spalle in tempo: “Ma speriamo che la pioggia adesso renda la vita difficile a loro, come fino a oggi ha fatto con noi.”

 

Lorenzo si tolse la berretta scura, prima di entrare in chiesa. I suoi passi risuonarono lievi lungo la navata scura e fredda. L'odore dell'incenso gli pizzicava il naso e gli occhi. A metà strada, fu tentato di andarsene, ma ormai era stato visto.

Botticelli, Marulli, e altri notabili di Firenze erano compostamente schierati davanti al feretro che era stato messo in prossimità dell'altare. Nessuno di loro parlava. L'unica voce che riempiva l'ambiente era quella di un prete che, spargendo incenso, intonava inni sacri.

Il Medici abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello degli altri e, quando fu loro abbastanza vicino, li pregò: “Lasciatemi un momento da solo.”

Sandro, che fra tutti pensava di essere quello che conosceva meglio il Popolano, invitò gli altri a fare come era stato chiesto loro e, con un'occhiata significativa, convinse anche il prete a ritirarsi un momento.

Questi, pur non allontanandosi davvero, si spostò di lato, cantando a voce molto più bassa, ma senza smettere per un momento le proprie orazioni.

Lorenzo attese che i suoi conoscenti fossero fuori dalla chiesa, prima di guardare davanti a sè. La cassa in cui era stato posto Giovanni era di legno semplice, quasi troppo spoglio. Il bordo era alto e il corpo era coperto da uno spesso telo ricamato.

Il Popolano si prese qualche momento, prima di muoversi. Quando finalmente trovò il coraggio, colmò la distanza con pochi passi e alla fine osò guardare nella bara. Ovviamente la stoffa celava il corpo, anche se se ne poteva intravedere molto bene la sagoma.

L'odore pungente che ne arrivava denunciava il lungo tempo trascorso dalla morte e il sentore forte degli unguenti e delle misture con cui si era cercato di imbalsamare un po' il cadavere, in vista del lungo viaggio, non faceva che peggiorare la situazione.

Lorenzo, però, sentiva a mala pena quel tanfo, coperto pure dall'incenso, sparso in quantità notevoli probabilmente più per far fronte all'incedere irrefrenabile della natura, che non per ragioni prettamente religiose.

Il canto del prete, flebile e lontano, arrivava alle sue orecchie come qualcosa di completamente estraneo.

Aveva la bocca completamente secca e le mani sudate. Non sentiva lo stomaco tanto chiuso da tempo, non avrebbe saputo dire da quando. Forse non si era mai sentito così. Nemmeno quando era morta suo padre, quando lui era appena un ragazzino. Nemmeno quando era morta sua madre, quando lui era un bambini di quattro anni mal contati. Anche se era piccolo, ricordava benissimo quei giorni. Ricordava anche come la casa fosse stata avvolta da un clima indecifrabile: da un lato la tragedia della morte e dall'altro la gioia della vita. Sua madre era morta, ma suo fratello era appena nato.

La confusione che aveva provato in quel momento non lo aveva mai lasciato del tutto, e anche ora che si trovava accanto alle spoglie di suo fratello, quella sensazione di instabilità tornava a colpirlo.

Senza ragionarci davvero, allungò una mano e scostò appena il pesante telo ricamato che copriva Giovanni. Intravide appena i corti riccioli castani e tanto gli bastò. Rimise subito a posto tutto quanto e uscì di corsa dalla chiesa, senza nemmeno dare un cenno di saluto agli uomini che stavano pazientemente attendendo sul sagrato per dargli un po' di privatezza.

Corse le poche centinaia di metri che dividevano San Lorenzo dal palazzo della sua famiglia e una volta arrivato si andò a chiudere nella sua stanza. Solo quando fu solo, si prese la testa tra le mani e cominciò a piangere, singhiozzando con tanta forza da sentirsi mancare il fiato.

 

“L'elenco preciso è stato stilato?” chiese Caterina, guardando Luffo Numai con attenzione.

Si era aspettata una certa ritrosia, da parte dei suoi sudditi, dinnanzi a un arruolamento coatto, dato che da sempre aveva aperto le porte dell'esercito solo a volontari, ma quello suonava proprio come un affronto in piena regola.

“Sì, mia signora.” confermò il Consigliere, seguendo la donna lungo la via fangosa: “Malgrado ciò, però, i due deputati all'arruolamento mi hanno assicurato che ancora nessuno dei nominati, o meglio, solo una piccola parte si è presentata al banco...”

Stavano attraversando il quartiere militare e, malgrado le migliorie alle strade interne che la Tigre aveva predisposto in quegli ultimi anni, la pioggia scrosciante di quei giorni – che stava dando loro una breve tregua solo da un'oretta – aveva trasformato Forlì in una fanghiglia quasi impraticabile.

Luffo avrebbe di gran lunga preferito stare a discutere al chiuso, sia per non insozzarsi troppo gli stivale e le brache, sia perché cominciava a fare un certo freddo, ma la Contessa era stata irremovibile e aveva deciso di andare subito al Quartiere, discorrendo lungo la via.

Quel giorno, lo avevano notato tutti, la Leonessa sembrava incapace di stare ferma. Fin da prima dell'alba non si era data pace un momento. L'unica persona, però, che aveva un'idea del perché stesse facendo così era Bianca.

Aveva incrociato la madre nella stanza di Giovannino e l'aveva vista molto tesa. Anche se stringeva tra le braccia il figlio più piccolo, la Sforza aveva lo sguardo perso e sembrava intenta a pensare a qualcosa di molto angosciante.

“Qualcosa vi impensierisce?” aveva chiesto la ragazza, temendo che c'entrasse in qualche modo la guerra e quindi Astorre Manfredi.

In quei giorni aveva sentito i Consiglieri di sua madre citare Manfredi anche troppo spesso, e dunque era tornata a temere quel matrimonio che, formalmente, non era mai stato sciolto da nessuno.

“Oggi faranno il funerale a Giovanni.” aveva risposto invece Caterina, prendendo la figlia un po' alla sprovvista.

La Riario non si era chiesto quando avrebbero sepolto il patrigno. Si era limitata a recarsi a Messa tutti i giorni, da quando aveva saputo della sua morte, sperando che quello fosse già un buon modo per ricordarlo e pregare per lui, e aveva intenzione di continuare per un mese almeno.

Quando la madre le aveva riferito che quel 30 settembre Giovanni sarebbe stato infine tumulato, Bianca aveva capito subito il comportamento della Tigre. L'aveva già vista così. L'unica differenza era che questa volta la rabbia era meno evidente, e aveva lasciato il posto a un attonito dolore che la stava rendendo molto più efficiente e meno distruttiva di quando era morto Giacomo.

“Ebbene...” fece la Sforza, accelerando il passo, con Luffo Numai che per starle dietro per poco non scivolò sul fango: “Darò loro ancora due o tre giorni. Se non combineranno nulla, mi vedrò costretta a prendere dei provvedimenti. Forlì e Imola sono la loro patria. Se non impugnano loro le armi per difenderla, chi pensano che lo farà?”

Il Consigliere le diede tacitamente ragione e maledisse il clima scontroso dell'autunno, quando poco per volta dal cielo ripresero a cadere gocce sottili e fredde, che nel giro di dieci minuti fecero ripiombare la città in un'atmosfera da Diluvio Universale.

 

“Che diamine! Che diamine! Che diamine!” sbottò Manfrone, dando uno spintone al suo soldato, come se fosse colpa sua se i cannoni non riuscissero a sparare, con tutta quella pioggia che infradiciava la polvere: “All'armi! Attaccate! Non vedete?! Attaccate! Quelli sono gli uomini di Strozzi!”

Malgrado le urla di quel comandante e quelle poco lontane di Annibale Bentivoglio, i soldati veneziani non riuscirono a far partire nemmeno un colpo che andasse a centrare la colonna di soldati fiorentini che stava entrando nella rocca di Castiglione, tanto meno i carriaggi che si portavano appresso.

“Siete degli incapaci!” ululò ancora Manfrone, i piedi che affondavano nel terreno molle, per colpa di tutto il ferro che si portava addosso: “Al campo! Al campo!”

Anche il Bentivoglio ordinò una mesta ritirata, allentando il cerchio ampio che stavano stringendo attorno alla rocca. Non osavano avvicinarsi troppo, perché assaltare con quel tempo infausto si sarebbe rivelato un errore madornale, ma avevano almeno sperato di boicottare quello che sembrava un rifornimento di viveri e forse di acqua.

“Quando arriveranno l'Alviano e gli altri?” chiese Annibale, appena riuscì a essere a portata d'orecchio di Manfrone.

“L'ultima staffetta ha detto al massimo entro sera.” rispose questi.

Bentivoglio si tolse l'elmo, sicuro che tanto il pericolo ormai fosse lontano e, con i capelli fradici e gelati, che gli stavano procurando un violentissimo cerchio alla testa, diede una piccola pacca sulla spalla al suo commilitone ed esclamò: “Pensate se venisse ogni tanto il Doge, a combattere le sue guerre... Ah, che bello spettacolo sarebbe, con le sue vesti di velluto e le sue collane d'oro...”

“Affonderebbe nella melma.” rise Manfrone di rimando.

“E quanto mi dispiacerebbe.” ribatté Annibale, il morso stretto e gli occhi freddi che guardavano l'orizzonte, come se sperasse di vedere davvero Barbarigo arrivare a Marradi e sprofondare nel fango assieme a tutta la sua ricchezza e la sua boria.

 

Semiramide smise di leggere il componimento che Michele le aveva appena porto. Deglutì a fatica, per non rimettersi a piangere. Trovava quei versi molto belli ed era certa che Giovanni li avrebbe apprezzati.

“Avete fatto un'ottima cosa.” gli assicurò, lasciando che l'uomo le stringesse un momento la mano nella sua.

Il salone di palazzo Medici era abbastanza pieno di gente. Si era deciso che i conoscenti più noti e gli amici più stretti sarebbero partiti da casa assieme alla famiglia, e si stava aspettando che Lorenzo si palesasse, per poter partire.

L'Appiani rilesse ancora qualche breve verso della nenia funebre che l'amico aveva composto per il Popolano più giovane, ispirandosi, così aveva detto al Carme di Catullo dedicato al fratello morto, una poesia che, Michele come Semiramide, sapeva tra le più amate di Giovanni.

“Davvero avete deciso di partire per Forlì?” chiese la donna, sottovoce, guardando il bizantino che continuava a tenerle stretta la mano, come per darle forza.

“Sì.” annuì lui: “Nessun dubbio in merito.”

“E vostra moglie?” chiese Semiramide, scrutando gli occhi lontani dell'uomo.

“È d'accordo anche lei.” assicurò Marulli, senza aggiungere poi più altro, perché il Medici era finalmente arrivato.

“Vuoi leggere quello che il nostro amico ha scritto per Giovanni?” chiese l'Appiani, rivolgendosi al marito.

Lorenzo, gli occhi pesti come se avesse appena smesso di piangere, e i vestiti a lutto che erano diventati larghi, rispetto a quando li aveva indossati l'ultima volta, scosse il capo e commentò, a denti stretti: “Non ho voglia di leggere niente. Andiamo. È già tardi.”

Semiramide sospirò, ma non si oppose. Aveva visto le iridi sperse del marito, aveva capito che finalmente stava comprendendo più a fondo quanto era accaduto. Era umano, essere sconvolti quanto lui.

Tuttavia, quando arrivarono in chiesa e si misero in prima fila, uno accanto all'altra, Semiramide si sentì sbiancare, un brivido gelido lungo la schiena, quando Lorenzo, la voce ridotta a un filo, le sussurrò: “Quella sgualdrina della Tigre me la pagherà. Se Giovanni è morto, la colpa è solo sua. Se non l'avesse mai conosciuta, se non fosse mai partito, io lo so che sarebbe ancora vivo. Appena il funerale finirà, fai chiamare i miei legali a palazzo. Voglio sapere come muovermi per toglierle tutto. Non deve avere niente, di quello che era di mio fratello. Nemmeno un soldo, nè un filo di seta, nè un quadrato di terra. Lei mi ha tolto tutto e io toglierò tutto a lei.”

 

Era riuscita a non pensarci fino a che non era scesa la sera. A quel punto della giornata non aveva altro da fare se non ritirarsi in buon ordine e riposarsi.

Aveva i muscoli a pezzi e stare tutto il tempo o quasi con addosso i vestiti bagnati le stava risvegliando anche qualche dolore alle ossa. La stanchezza, però, la difficoltà che aveva avuto nel corso dell'estate per colpa delle sue febbri, se n'era davvero andata.

Quella che le sfiancava le membra, in quel momento, era di tutt'altra natura. E non le impediva di pensare.

Caterina sospirò e si versò ancora un po' da bere. Non voleva eccedere, quella volta. Era troppo in ansia per le notizie che avrebbero potuto arrivare dal fronte da un momento all'altro e non voleva farsi trovare impreparata, nel caso in cui avesse dovuto prendere decisioni improvvise.

Così centellinava i sorsi, quasi illudendosi che due dita di vino potessero durare quanto una piccola botte, e intanto lasciava la sua mente libera.

Cercava di immaginare cosa fosse successo a Firenze, quel giorno. Tentò di ricordarsi come fosse la chiesa di San Lorenzo, ma erano passati troppi anni, dal suo viaggio alla corte del Magnifico. Era solo una bambina.

Si passò una mano sugli occhi, premendo con forza. Quando era stata a Firenze con suo padre, ancora non immaginava quello che sarebbe stato della sua vita. Non aveva ancora ricevuto la condanna di un matrimonio imposto a soli nove anni. Non aveva ancora conosciuto Girolamo e la sua follia violenta. Era ancora un'altra Caterina, quella spensierata ed entusiasta, che si sentiva amata e protetta da una famiglia numerosa, da un padre che sosteneva di preferirla a tutti gli altri, e da due madri, non una, ma due, che millantavano di essere pronte a proteggerla da tutti i mali del mondo.

Batté un pugno sul davanzale della finestra e vuotò il calice, imponendosi subito di non versarsi altro vino.

La cosa che più la stava facendo sentire era la sensazione di ineluttabilità e impotenza che la sopraffaceva. Sapeva che ormai Giovanni era stato tumulato nella pietra, così come più di tre anni prima era successo a Giacomo. Non c'era più nulla che potesse fare. Poteva solo cercare di proteggere il figlio che avevano e fare del suo meglio per non dimenticarlo.

Si toccò il nodo nuziale che portava all'anulare e si sentì una vigliacca. Giovanni sapeva che donna era, glielo aveva anche detto. Sapeva che morto lui non sarebbe rimasta sola, ma ogni volta che Caterina si trovava a desiderare di spegnere la mente accompagnandosi a un uomo, non poteva evitare di sentirsi una vigliacca.

Per non impazzire – la mente continuava a riproporle varie declinazioni del funerale, con tante possibili forme per la lapide e molte diverse reazioni dei presenti alle esequie – la Tigre decise di non combattersi più.

Come la prima volta in cui aveva cercato un uomo dopo la morte di Giovanni, anche quella volta si rese conto in uno sforzo di onestà che non sarebbe riuscita a far fronte a tutto, se si fosse anche imposta di controllarsi sotto quel punto di vista.

Non si volle togliere il nodo nuziale, però, quella volta, così come non l'aveva fatto quando aveva ceduto alla tentazione di fare suo Giovanni da Casale.

Andò a passo di marcia fino nei baraccamenti. Quel giorno i soldati erano stanchi e arruffati, perché avevano passato ore sotto la pioggia ad allenarsi, ma ne trovò comunque uno che sembrava ancora abbastanza bellicoso da fare al caso suo.

Gli chiese se fosse impegnato e quello disse di no, anche se, confessò, aveva avuto una moglie, morta di febbri nel corso dell'estate.

“Allora possiamo consolarci a vicenda.” aveva detto lei, senza la traccia di un sorriso sulle labbra.

Lo portò nella stanza che aveva occupato dopo la morte di Giacomo, scartando subito quella che aveva condiviso con Giovanni. Assicuratasi di aver chiuso la porta, riattizzò un po' il fuoco nel camino e poi si dedicò a quel giovane uomo.

Le sue mani, però, erano impacciate, quella sera. Era molto più agitata di quanto non credesse, e sapeva che i suoi nervi erano scossi per colpa del funerale e della sua consapevolezza di non essere mai stata all'altezza del suo ultimo marito.

“Aspettate...” fece il soldato, aiutandola a levargli di dosso il cinturone.

Le mani della Tigre, però, a quel gesto, smisero di tremare e la sua voce si fece ferma e implacabile, come quando dava ordini: “Sta' fermo. Faccio io.”

L'uomo, allora, smise di soccorrerla e in effetti la donna pareva essere tornata del tutto padrona di sè.

“Non è certo la prima volta che spoglio un soldato.” commentò la Sforza, a denti stretti, mentre levava la casacca al giovane, saggiando i suoi muscoli ancora tesi per tutto il faticare di quella giornata.

Quella frase, detta da lei stessa, le fece perdere per un momento di nuovo la sicurezza ritrovata. Si rese conto con una sorta di stupore di quanti uomini aveva già avuto, da che era rimasta di nuovo vedova.

Non li aveva portati tutti in quella stanza. Con Giovanni da Casale l'occasione si era presentata all'improvviso nella sala delle armi, ma poco importava.

Stava quasi per cacciare il soldato, vergognandosi per la sua manifesta incapacità di trattenersi, quando sentì le sue mani forti stringerle i fianchi e si disse che quello sarebbe stato solo un peccato veniale, nell'elenco delle sue colpe. Aveva fatto di peggio. Perfino Giovanni avrebbe capito, se avesse potuto sapere quello che le si agitava nell'anima.

E così, ricacciando una volta per tutte le sue remore in un angolo buio di sè, la Tigre si lasciò svestire e si abbandonò a quel corpo giovane e fresco, senza illudersi di ritrovare nessuno dei suoi due amati mariti nel sentore di quel soldato, tanto meno nei suoi abbracci o nel calore della sua pelle.

Alla fine, quando non ebbe più nulla da chiedere a quell'uomo, si sistemò sotto le coperte, in silenzio, lasciando che i suoi sensi restassero ancora per un po' immersi nell'illusione di pace che avevano trovato.

“Devo andarmene?” chiese il soldato, seduto accanto a lei, una mano, forte e grande, che le accarezzava lentamente la schiena celata dalle coperte.

“Ti manca tua moglie?” domandò lei, di rimando, senza voltarsi.

Seguì un breve silenzio, e la mano dell'uomo si fermò per un istante, prima che la sua voce profonda rispondesse: “Sì. Sempre.”

“Allora resta fino a domattina.” fece la Contessa: “Fa troppo buio, di notte, per restare soli.”

 
   
 
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