STORIA DI UNA PROFONDA AMICIZIA
“Essere sé stessi è una virtù esclusiva dei bambini,
dei matti e dei solitari”.
Fabrizio de André.
“A volte perdere quello che si voleva salvare
può essere la vera salvezza.
perché se dall’altra parte
trovi un muro e delle persone che volevano vedere
solo quello che gli faceva comodo distorcendo la realtà,
la verità,
allora non ha più senso salvare nulla.
Ma salvare sé stessi…”.
Roberta Pace, Quello che vorresti dire.
Un altro giorno qualsiasi, su un marciapiede qualsiasi, in
una metropoli qualsiasi. Erano tutti dannatamente uguali i giorni, come lo
scorrere del tempo, e come le persone che lo circondavano.
Angelo, sessantacinque anni, languiva ormai da un decennio
abbondante ai margini delle strade, nell’indifferenza generale.
Il suo era il corpo di un vecchio; la barba che era diventata
candida troppo presto, lunga fino all’ombelico, quasi. Le mani erano arrossate
per via del freddo, e i geloni ne affliggevano le nocche. La carne era
rattrappita, sotto i miseri vestiti che indossava, per via dei pasti sempre
consumati saltuariamente, forse troppo, in certi periodi. I suoi abiti erano
logori, resi lordi dal tempo inclemente e tutti chiazzati di chissà quali
schifezze con cui erano venuti a contatto.
La vita del senzatetto l’aveva sfiancato sia nel corpo e sia
nella mente. Non riusciva più a vedere nulla oltre la coltre di rassegnazione
che si era arroccata dentro di lui, una sorta di muraglia invalicabile, un muro
che lo distanziava non solo dalla sua vera essenza interiore, ma anche dagli
altri.
Così, il marciapiede era diventato il suo più fedele compagno
di vita.
Da oltre dieci anni, aveva trascorso ogni momento della sua
vita in quel modo, all’addiaccio più completo, isolato.
A cinquantaquattro anni aveva perso il lavoro, e per una
persona già di una certa età, senza alcun requisito particolare, trovare
un’altra occupazione era stata un’impresa impossibile. La fabbrica metallurgica
in cui lavorava l’aveva lasciato a casa, e ben presto si era ritrovato a provare
in tutti i modi di cercare un nuovo posto di lavoro, pure molto umile o
socialmente utile. Niente.
Sua moglie l’aveva lasciato, e dato che la casa era la sua,
lei era rimasta con i loro due figli, ancora minorenni; di conseguenza, a lui
la scelta di risollevarsi di nuovo e di provare a mantenere la sua famiglia in
frantumi. Ce l’aveva messa tutta, ne andava del suo onore.
Comunque, infine si era trovato sommerso dai debiti, con un
mutuo che aleggiava su di lui come una ghigliottina pronta a farlo fuori in
qualsiasi momento, e impossibilitato a pagare l’affitto del monolocale in cui
aveva condotto per diversi mesi la sua vita da uomo solo. La moglie aveva
richiesto incessantemente gli alimenti per i figli, ma nulla aveva potuto
versare.
In quel momento era notte fonda, e Angelo ringraziava il
Cielo per essere riuscito a trovare di nuovo un posto dove poter dormire, dove
il gelo dell’inverno non avrebbe avvinghiato le sue carni già fragili.
Aveva sistemato il suo cartone sotto un loggiato, tra due
possenti colonne le cui basi erano state insozzate dall’urina dei cani, ma poco
importava. Quella era come se fosse diventata la sua tana, il suo unico
rifugio.
Avrebbe lottato anche con gli altri senzatetto, pur di poter
continuare a conservare quel posticino che poteva essere scaldato facilmente.
In quella nicchia, in pieno centro storico, conviveva
l’essenza dei più nobili e famosi artisti, a fianco di quella dei poveretti
nullatenenti. Molti altri suoi simili infatti erano disseminati in qua e in là,
anime anch’esse in pena, già pronte all’alba a recarsi a fare la fila di fronte
ai battenti del vicino centro Caritas, presso il quale tanti volontari
cercavano di fare del loro meglio per servire i pasti ai bisognosi.
Anche Angelo dipendeva dal volontariato, e tutte le mattine
era pronto a fare a cazzotti con gli altri suoi compagni di sventura per poter
usufruire prima del servizio. Ultimamente, però, si era accorto che aveva
cominciato a perdere quella grinta che l’aveva a lungo aiutato a sopravvivere
ai margini della strada.
All’inizio, senza più nulla, vivere in quel modo gli era
parso qualcosa di davvero sgradevole, ma anche di unico e di libero. Non aveva
più nessuno a dirgli quel che doveva fare, o altro; insomma, non aveva più
legami con un mondo che l’aveva ferito, con il quale non desiderava avere più
rapporti. Così, aveva imparato in fretta tutte le strategie di sopravvivenza, e
anche come riuscire a lavarsi in uno dei tanti bagni pubblici, seppur fossero
sporchi come non mai.
Era stata tutta una scoperta, al di là del solito modo di
vivere abitudinario che per tanto tempo la società gli aveva imposto. Forse era
ammattito.
Chi lo conosceva gli aveva tolto il saluto, e se lo
incontrava casualmente faceva finta di non averlo visto, o di non conoscerlo
proprio. Anche gli stessi amici del bar, con i quali aveva condiviso tanti
problemi e tantissime bevute, avevano decisamente preso le distanze da lui. Ma,
in fondo, era ciò che si aspettava.
L’inizio era quindi stata una sorta di avventura al di là di
ogni previsione; era vero che la vita di strada era dura, ma quando faceva più
caldo, in fondo, dormire a cielo aperto non dispiaceva e i marciapiedi erano
sempre freschi, a notte fonda. Nessuno lo cercava più, nessuno esigeva più
nulla da lui.
Sembrava che un capitolo della sua vita, quello più
ordinario, fosse concluso.
Era stata girata la pagina, ora si poteva solo improvvisare,
ma l’importante era non tornare tra le grinfie della vita quotidiana, quella
che aveva conosciuto fin da quando era nato, poiché essa l’aveva spinto ad un
punto in cui pensare al suicidio poteva essere qualcosa di piacevole.
Non voleva togliersi la vita per i problemi che una società
malsana gli imponeva, a lui e a tantissimi altri individui… oppure, forse,
l’umanità intera era vittima del sistema. D’altronde, la gente voleva bene al
prossimo solo quand’esso guadagnava, s’impegnava. E quando si verificava la
disgrazia di fallire in qualcosa, tutti fuggivano al largo e le grane restavano
da affrontare al singolo.
La vita di ogni giorno, quella che il sistema imponeva, era
diventata quindi una gabbia claustrofobica da evitare ad ogni costo.
Era presto giunto anche il primo inverno, ma non era stato
rigido, per fortuna, e così lo furono anche quelli degli anni successivi,
relativamente miti.
Angelo a volte si soffermava a pochi passi dagli ingressi dei
locali e dei bar, con il cappello lercio che lasciava a terra davanti a sé, in
attesa di qualche spicciolo che difficilmente cascava al suo interno, ed
origliava ciò che trasmettevano alla tv.
I tg spesso trattavano il problema dei cambiamenti climatici,
che aveva compromesso l’ecosistema italiano, per via delle piogge sempre più
scarse e delle ondate di freddo latitanti, a favore di anticicloni africani più
possenti e duraturi.
Quando udiva quelle notizie, in modo soffuso, socchiudeva gli
occhi e pensava che forse quello era un segnale divino, poiché il freddo e la
pioggia erano i suoi unici nemici. Fin quando essi non si sarebbero presentati
con troppa insistenza, lui sarebbe stato al sicuro.
Aveva saputo cavarsela per anni, lottando contro gli altri
senzatetto che infestavano la grande città, alla ricerca costante di un posto
relativamente sicuro in cui lasciarsi andare al sonno, volendo evitare le
panchine. Non aveva mai desiderato che qualcuno lo aiutasse materialmente, non
voleva rivivere l’incubo che l’aveva gettato nel baratro in cui ancora
continuava a vivere, a sopravvivere. Ormai si era abituato così, quella era la
sua nuova esistenza.
Erano passati in fretta cinque, sei, sette, otto, nove anni,
e il tempo scorreva senza sosta. Il corpo suo ne aveva risentito eccessivamente
solo negli anni più recenti, quando gli animi caritatevoli erano diminuiti e
poteva dipendere solo dal servizio della Caritas. Il suo berretto era sempre lo
stesso, e sempre più vuoto.
Aveva digiunato più spesso, e perso molte forze. Forse, la
vita di strada aveva cominciato a fiaccarlo.
Il suo stesso cuore non funzionava più come qualche mese
prima, e a volte sembrava volesse scoppiargli nel petto; di notte, si svegliava
di soprassalto e si spaventava. La tosse era diventata una sua fedele compagna,
assieme ad un pressante catarro che sembrava aver messo le radici nei suoi
polmoni. Quando tossiva forte, anche il suo cuore aumentava i battiti.
Il decimo anno di strada era stato quello più duro, Angelo lo
percepiva. Capiva anche che poteva essere l’ultimo della sua vita.
A volte le mani gli tremavano, puzzava come non mai e non
riusciva più ad avere un minimo di cura nei suoi confronti. Il suo corpo
invecchiato troppo in fretta non gli obbediva, e a volte era incontinente e si
bagnava con la sua stessa urina. La tosse era violenta, eccessiva, a tratti, e
il cuore a volte sembrava sul punto di esplodere nel petto.
Tutto sommato, provava comunque a reggere come poteva.
Fu durante quella decima estate trascorsa in strada che
accadde una sorta di miracolo, che gli avrebbe permesso di tornare, seppur solo
per una breve frazione della sua esistenza, ad avere un contatto con il resto
dell’umanità.
A mandare in frantumi l’alto muro che lo separava dal resto
dei suoi simili fu, incredibilmente, un bambino.
Era infatti una calda giornata di metà luglio quando un
bimbo, tenendo la mano della mamma, transitò a solo due passi da Angelo.
L’uomo non degnò i due neppure di uno sguardo, come suo
solito. Eppure, il piccolo parve restare molto colpito da lui.
Da lì a qualche istante, tornò indietro assieme alla madre, e
lasciò cadere una monetina nel berretto sudicio e vuoto. Solo allora Angelo
alzò il suo sguardo e fissò il piccolo; era un bambino esile e castano, non
doveva avere più di otto anni. Era stato proprio lui a donare la moneta da
cinquanta centesimi, che in quel momento riluceva nel fondo del cappello.
“Grazie, piccolo”, gli sussurrò, guardandolo con i suoi occhi
opachi. Aveva perso leggermente anche la vista, ormai faticava a mettere a
fuoco con precisione le cose più vicine a lui. Non era nemmeno più abituato ad
udire così distintamente il suono della sua voce, così che essa uscì dalle sue
labbra in un modo che gli parve molto roco, forse troppo.
Ebbe timore di aver spaventato il bambino gentile, ma egli
invece gli sorrise e lo salutò con un cenno della manina libera dalla stretta
materna. Madre che poi lo trascinò via in fretta.
Angelo non perse di vista la sagoma del bambino, finché poté,
e percepì che il piccolo lo stava fissando, anche mentre si allontanava. Sorrise,
per la prima volta dopo tanto tempo.
Raccolse allora i cinquanta centesimi e se li rigirò tra le
mani, prima di muoversi subito verso un qualche negozio in cui avrebbe potuto
comprare qualcosa.
In realtà, i cinquanta centesimi non bastarono per comprare
nulla; si arrese, Angelo, ma conservò con sé la monetina.
Finì a frugare in uno dei tanti cassonetti dell’organico,
stando attento a non farsi pescare dagli abitanti dei condomini limitrofi.
Trovò qualche avanzo e lo mangiò. Il cibo della Caritas non
sempre bastava a fargli passare i morsi della fame, come quella volta.
Sazio, tornò piano e quasi arrancando alla postazione che
aveva abbandonato poco prima, credendo gli portasse fortuna, e si rimise in
posizione.
Nessun altro, per quella giornata, gli lasciò uno spicciolo.
Nel pomeriggio del giorno successivo, il bimbo tornò. Anche
quella volta teneva la mano della mamma, e ancora, una volta che gli giunse di
fronte, lasciò cadere una monetina. Erano altri cinquanta centesimi.
Angelo si lasciò spingere dall’istinto e afferrò subito la
moneta, stringendola alle dita e portandosela alle labbra, dandole un leggero
bacio.
“Grazie”, disse, cercando di mantenere una nota dolce nella
sua voce da vecchio. “Grazie, signora”, ringraziò anche la madre, riconoscendo
che era la scelta giusta da fare.
Guardò i due; il bambino gli sorrideva, e lui tornò a
ricambiare il suo sorriso, poi alzò ulteriormente gli occhi ed incrociò lo
sguardo della signora, che invece non trasmetteva alcuna emozione. Nessuno
rispose, e il bambino fu allontanato in fretta.
Angelo ritrovò gli altri cinquanta centesimi, e le due
monetine assieme giungevano alla piccola cifra di un euro. Poteva finalmente
comprarsi un panino.
Si recò in panetteria, comprò un euro di pane, con lo sguardo
astioso e innervosito della commessa che quasi ebbe ribrezzo ad afferrare le
due monetine che la mano dell’uomo le porgeva, per pagarla. In vita sua, non
aveva mai rubato nulla, neppure quando era più disperato che mai.
Senza lasciarsi intimorire da un mondo che lo ripudiava e che
voleva tenerlo lontano dai luoghi ritenuti puliti e per bene, Angelo tornò nel
suo angolino, nella sua piccola nicchia, dove poté mangiare in santa pace il
suo pasto. Era pane leggero, e con un solo euro era riuscito a comprare ben una
mezza baguette.
La divise in due parti, e una la mangiò subito. E con quanto
gusto! Erano anni che non si comprava nulla.
Con quel breve pasto, fu come se gli fosse tornata anche la
voglia di reinserirsi nella società, di sanare quella frattura dalla parvenza
incolmabile.
Quella notte dormì serenamente, e il suo cuore non gli diede
problemi, così come la tosse.
Il mattino successivo, sempre nella sua nicchia, consumò il
pane che gli era rimasto, e che aveva custodito gelosamente tra le braccia
anche quando dormiva, come se fosse un tesoro. Poi, tornò al centro Caritas,
dove mangiò la sua razione.
Di solito, non riusciva mai a saziarsi davvero, essendo
serviti pasti molto semplici e frugali, ma quella volta sì. Si sentiva meglio,
aveva ritrovato un po’ di energie, e l’artrite, il cuore e la tosse sembravano
più a posto del solito.
Andò alla fontana pubblica a bere e se ne andò ad elemosinare
di buon’ora.
Pure quel giorno, restò immerso nell’indifferenza totale. Gli
altri barboni erano nelle loro postazioni, sembrava che andassero molto meglio
rispetto a lui. Forse, era diventato davvero troppo reietto per poter attirare
la carità di qualcuno.
Si fece pomeriggio, e con l’uscita dalle scuole, tornò di
nuovo il bambino dei due giorni precedenti. Questa volta, l’uomo avvertì e
riconobbe con chiarezza i suoi piccoli passi, mentre si avvicinavano in fretta.
Aveva lasciato la mano della mamma, ed era corso verso di lui.
Gli sorrise, e per la prima volta si vergognò della sua bocca
parzialmente sdentata; per quella creatura così giovane, innocente e dal cuore
nobile, serviva un vero sorriso, di quelli brillanti e perfetti, senza
irregolarità. Era tuttavia certo che al bimbo bastasse anche quello.
Si avvicinò e si allungò verso il barbone seduto, e gli mise
tra le mani scure e sporche una moneta da un euro.
“Grazie, mio piccolo amico. Che Dio ti benedica”, gli
sussurrò, senza smettere di sorridere. Il suo cuore così freddo ed indurito
come la pietra parve tornare ad essere pervaso da un calore che lo faceva
ritornare a funzionare come doveva, in tutti i sensi.
“Mamma ha detto che, se rinunciavo al gelato, potevo darti il
soldino”, disse. Poi, si ritrasse e corse di nuovo verso la madre, tornando a
prenderla per mano e salutando da lontano.
Colmo di gratitudine, Angelo andò a prendere altro pane. Gli
bastò anche quella volta per andare a dormire sereno.
I giorni di quella calda estate si susseguirono in fretta, e il
piccolo si ripresentava con costanza.
Ogni giorno, lasciava una monetina, quasi sempre da un euro,
o in altri rari casi da cinquanta cent. Per le prime quattro volte, Angelo
comprò pane o qualche fetta di mortadella, eppure, alla quinta, si accorse che
aveva bisogno di togliersi uno sfizio, che gli parve molto aristocratico. Una
vera e propria tentazione.
Erano dieci anni che beveva l’acqua della fontanella pubblica
che il comune offriva alla cittadinanza e ai nullatenenti come lui, ed aveva
però decisamente voglia di assaggiare di nuovo il gusto dell’acqua minerale di
bottiglia. Ricordava che la Levissima gli piaceva molto, in quella che era
stata una sua sorta di vita precedente.
Con il suo euro, ne comprò una bottiglietta da mezzo litro, e
poté gustarsela e sorseggiarla fresca, il che riuscì a dargli anche ristoro dal
caldo.
Il sesto giorno il piccolo tornò a lasciare una monetina,
ancora da un euro. Fu sfuggevole, non rispose al saluto né al ringraziamento.
Angelo, che si era abituato al suono della sua voce, l’unica
che si rivolgeva a lui, ne rimase colpito e ferito. Temeva che si stesse
stancando, e che molto presto si sarebbe dimenticato di lui, come era accaduto
per il resto dell’umanità.
Fu allora che si accorse di quanto fosse stato egoista; la
vita non era solo un ricevere, ma anche un dare, e ciò era la base per la
formazione di ogni rapporto duraturo. Il bambino d’altronde gli donava una
monetina che i suoi stessi genitori dovevano aver faticato a guadagnare, e ben
sapeva che il lavoro era un rischio e un impegno di proporzioni madornali, in
una società dove i soldi erano tutto e sancivano l’appartenenza sociale ad un
gruppo di individui o ad un altro.
Il piccolo stesso dava dimostrazione della sua grande bontà
interiore, sacrificando un gelato o una partitella alle macchinette delle
biglie colorate per donare a lui la moneta che otteneva quotidianamente. Non
era da tutti una scelta del genere, e Angelo se ne accorgeva in modo così
limpido solo in quel momento.
Spinto dai sensi di colpa, abbandonò l’angolo di marciapiede
in cui elemosinava e decise che quel giorno toccava proprio a lui un piccolo
sacrificio, in nome dell’affetto e della gratitudine che provava per quello che
ormai nel suo immaginario era diventato un piccolo eroe.
Si recò presso una delle tante bancarelle di ambulanti che
infestavano la metropoli, e comprò una minuscola macchinina Made in China,
l’unico giocattolo che gli diedero per un solo misero euro.
Conservò il suo dono nella tasca lisa dei suoi calzoni, fino
al giorno successivo, quando il piccolo si ripresentò, ancora più triste delle
volte precedenti. Il sorriso felice però tornò a illuminare il suo visetto
paffuto quando l’uomo si alzò da terra, e chinandosi su di lui, gli porse il
giocattolino.
“E’ per te”, gli disse.
Il bimbo lasciò cadere l’euro nel berretto, e afferrò subito
la macchinina.
“Grazie!”, affermò, euforico, per poi voltarsi verso la madre
e correre da lei, molto felice. Angelo udì che, mentre si allontanavano, le raccontava
come aveva ricevuto quel piccolo dono.
Provò ad avvicinare la mamma del bambino, nel tentativo di
ringraziarla, ma essa si allontanava in fretta, e non poteva raggiungerla con
il suo passo traballante e a tratti malfermo.
Gli faceva male la gamba destra, sempre indolenzita a causa
delle posizioni innaturali che doveva assumere durante la giornata.
Lasciò perdere, nella speranza di poterla ringraziare a
breve, di nuovo e con maggior calore.
Un grave imprevisto capitò quando Angelo meno se l’aspettava.
Il giorno successivo alla consegna del piccolo regalo, si
stava preparando a occupare la sua solita postazione dove elemosinava. Era tra
l’altro ancora mattina, il mezzogiorno era distante.
Tutt’a un tratto avvertì un piagnucolare disperato, e pure in
avvicinamento; volgendosi verso la fonte di quel lamento, riconobbe il bambino,
il suo piccolo amico, colui che ogni giorno nell’ultima settimana aveva
sacrificato una monetina per donargliela.
Il bimbo lo vide e lo fissò per un istante.
Angelo fu subito molto turbato da quel che stava accadendo;
come mai era lì a quell’ora, il suo piccolo amico? E perché era tutto solo, e
piangeva in modo disperato? Saranno state le dieci del mattino, forse anche
prima, e doveva essere a scuola un piccolo della sua età, e non in giro per la
strada.
Il bambino a quel punto gli corse incontro. L’uomo smise di
pensare ad ogni cosa, quando con le sue piccole braccia lo cinsero alla vita, in
una stretta disperata.
Si sciolse in un attimo, e gli accarezzò con dolcezza la
nuca, tutta spettinata.
“Cosa c’è, piccolino?”, gli domandò, cercando come ogni volta
di mantenere un tono di voce dolce.
“E’ successa una cosa brutta… bruttissima!”, borbottò, in
lacrime. Angelo sospirò, non sapendo bene come comportarsi.
“Mi… dispiace”, riuscì a dire, uniche parole che la sua mente
riuscì a formulare, dopo tanti anni di profonda solitudine, in cui aveva
parlato solo per infamare gli altri poveretti che, come lui, si litigavano il
posto migliore sul marciapiede.
“Ma… mamma e il babbo… hanno buttato via la macchinina che mi
hai regalato ieri, sai?”, bisbigliò di nuovo il bambino. Il senzatetto ci
rimase di stucco, di fronte a quell’affermazione, e non riuscì a pronunciarsi.
“Ha detto che l’ha fatto… perché sei una persona sporca,
quello che mi hai dato era… cacca, da buttare via. Ha detto che non devo più
venire qui… perché…”.
Si interruppe, il piccolo. Il suo sfogo era divorato dalle
lacrime incresciose che scivolavano lungo le sue gote.
Angelo era mortificato; ferito nel suo orgoglio, o in quel
poco di esso che gli era rimasto dopo tutto il tempo trascorso sul marciapiede,
a beccarsi gli insulti di tutti, e a sedersi sugli sputacchi dei fumatori e
sulle chiazze di piscio di cane.
Aprì la bocca, poi la richiuse. Non esistevano parole che potessero
venirgli in aiuto.
Poté solo fare una cosa, una sola. Si chinò e abbracciò il
suo piccolo amico.
Lui era l’unico al mondo che ancora lo vedeva, che lo
trattava come un essere umano. Aveva accettato il suo regalo, e probabilmente
era entrato in conflitto con i suoi stessi genitori per quella faccenda. Non
voleva che andasse a finire così, proprio no, ma che poteva fare? Nulla, lui
era una nullità, la faccia repressa e tenuta nascosta dell’umanità.
Rappresentava la classe sociale più bassa, quella dei derelitti, solamente
odiati e infamati, poiché visti come sommersi di debiti, come falliti. E la
società per bene non ammetteva né sbagli, né falliti, tra le sue fila.
“Ehi”, si sbloccò infine, quando meno se l’aspettava, “te ne
ricomprerò un’altra, va bene? Appena riesco a trovare racimolare qualche
centesimo”. Il piccolo parve quietarsi, ed alzò finalmente lo sguardo verso il
faccione barbuto del vecchio.
“I miei genitori non vogliono più che io dia i miei soldini a
te”, affermò. Era incredibile quanto fosse vasta la sincerità dei bambini.
Angelo non si fece infatti più sorprendere, dalle sue
affermazioni sincere.
“Se i tuoi non vogliono, non devi farlo”.
“Ma quella è la mia paghetta. Mi hanno sempre dato una
monetina ogni volta che mi comportavo bene a scuola e a casa, così da poterla
spendere come preferivo. Se io la voglio dare a te, la do! Non mi importa dei
gelati, o delle caramelle… tu… ne hai bisogno”, si spiegò, con grande maturità.
Angelo gli sorrise, molto commosso. Stava per piangere a sua
volta.
“Assomigli molto a Babbo Natale, sai?”, tornò a dire,
allungando poi una manina e sfiorando la barba dell’uomo. “Io voglio darti il
mio soldino perché so che sei tanto buono. Mi hai fatto anche un regalo! Vorrei
che tu stessi meglio, e che tu facessi un regalino anche agli altri bambini
come me, quelli che sono tristi e piangono perché con i loro genitori
litigano”.
Ad Angelo, a quel punto, veniva davvero da piangere per la
commozione estrema. Ritrasse il viso, in modo da divincolare la peluria dalle
mani del bambino, e si volse verso il muro retrostante, a nascondere le lacrime
che stavano per bagnargli le gote.
Si vergognò all’improvviso per il fatto che stesse per
nascondere il suo pianto al suo piccolo amico, quando egli invece si era
lasciato andare di fronte a lui. Si chinò di nuovo, quindi, e si lasciò
sfuggire qualche lacrima. Il bambino allungò le dita, e con l’indice ne sfiorò
una.
“Anche tu piangi? Non devi! Tu devi essere forte per noi, per
me…”.
L’adulto lasciò che le parole del piccolo scivolassero su di
lui, senza sosta, come pioggia battente.
Il bambino ora era sereno, non si disperava più e interagiva
come nessuno aveva mai fatto con il poveretto. Un uomo che aveva pianto, otto o
nove anni prima, quando la sera di Natale gli erano tornati in mente i suoi
figli, coloro che non l’avevano cercato mai più. Che fossero stati meglio senza
di lui? Che lo ritenessero un fallito? Forse, istigati dalla madre, lo odiavano
anche e l’avevano ripudiato.
Ormai dovevano essere grandi, tutti oltre i venticinque anni,
ma non si erano mai sprecati neppure a tentare di allungargli una mano. Forse
addirittura non sapevano neppure se fosse ancora vivo… non gliene importava,
semplicemente.
Così, non era abituato ad una benevolenza come quella che il
piccolo gli stava riservando; si vedeva che, a modo suo, gli voleva davvero
bene e si era affezionato. Una dimostrazione di affetto così grande valeva più
di una banconota da cinquanta euro, per Angelo.
La commozione lasciò comunque presto spazio alla razionalità.
“Ma tu non devi essere a scuola, a quest’ora? O a casa, con i
tuoi genitori?”, domandò, indurendo la voce. Il bambino scosse con vigore la
testa.
“Non mi andava. Volevo venire a trovarti, perché il babbo mi
ha fatto male quando ha buttato via la macchinina. Io volevo solo giocarci!”. I
suoi occhi tornarono ad adombrarsi, di nuovo pronti al pianto.
Angelo, immaginando che fosse scappato in qualche modo e che
avesse commesso una marachella spinta dal forte senso di angoscia che
attanagliava la sua giovanissima mente, davvero troppo giovane per comprendere
alcune delle reazioni spontanee tipiche del mondo degli adulti, si rese conto
che doveva fare qualcosa.
Come poteva far sì che il piccolo non finisse in pasticci
maggiori? D’altronde, con lui non poteva restarci, o sarebbero stati guai per
tutti.
Scelse in fretta di recarsi al limitrofo bar, per chiedere di
poter effettuare una chiamata ai carabinieri o alla polizia; d’altronde, si
trattava pur sempre di un minore rimasto solo.
“Non mi hai mai detto come ti chiami, piccolo”, disse con
rinnovata dolcezza. Ormai, anche il senso di gratitudine verso il bimbo si era
tramutato in ansia, e di voglia di riportarlo al sicuro, presso la sua
famiglia. Era grato immensamente al fatto che solo lui, con i suoi occhi da
bambino, riuscisse a vederlo, e forse gli si era anche sinceramente
affezionato, da quel che pareva, però non poteva assolutamente permettere che lo
strano legame di amicizia che si era instaurato tra loro potesse diventare
pericoloso.
Provò un forte istinto protettivo, quando meno se
l’aspettava; quando ormai, dopo un decennio di isolamento, senza mai aver
coltivato un rapporto umano, si credeva prosciugato di ogni risorsa interiore.
“Mi chiamo Federico”, affermò, deciso, “Federico Muccioli”.
“E tu?”, domandò, subito dopo una brevissima pausa.
“Angelo”, rispose il vecchio, afferrando una manina del
bambino, così come aveva visto fare da sua madre, e spingendolo a camminare
verso il bar.
“Angelo, come quelli del Cielo?”, tornò a chiedere il
bambino, evidentemente sorpreso.
“Sì”, lo rassicurò l’uomo, rivolgendogli un sorriso
affettuoso.
“Il mio babbo invece si chiama Claudio”, proseguì il piccolo.
“E’ un bel nome”.
“Ma dove mi stai portando?! Io voglio restare lì, con te!”,
strillò il bambino, strapazzando la mano dell’adulto. Si inalberò, fermandosi
ed indicando il punto esatto dove ogni giorno chiedeva l’elemosina, e dove i
sue si erano visti per la prima volta.
Angelo allora sospirò, si fermò a sua volta e si mise
lentamente in ginocchio, per essere alla stessa altezza del suo piccolo amico.
“Federico, non puoi stare qui con me. Devi tornare dai tuoi
genitori, immediatamente”, gli spiegò con sincerità, andando dritto al punto. Il
bimbo strabuzzò gli occhi.
“No, loro sono cattivi! Io voglio restare con te…’’. Stava
per tornare a piangere.
Il senzatetto non voleva che la gente lo vedesse in compagnia
di un bambino solo, tra l’altro in lacrime, poiché immaginava che avrebbero
potuto pensare male subito. Ma non poteva non dare qualche spiegazione, sentiva
che doveva farlo.
“Questo non è il posto per te”, proseguì, infatti, con
l’intento di interrompere ogni reticenza del suo piccolo interlocutore, “vedi,
lo vedi come sono io?”, si sfiorò poi i vestiti logori che indossava. Federico
seguì i suoi gesti con attenzione.
“Sono tutto sporco. Tu sei un bambino pulito, che ha una vita
intera davanti, e che deve studiare per fare del bene a lui e agli altri.
Diverrai un grande uomo, un giorno, e non un poveretto come me”.
Il bambino scosse il capo con forza.
“No, non dire altro”, lo fermò l’adulto, prima che
riprendesse a lamentarsi e a piagnucolare, “perché immagino che tu non voglia
diventare come me, vero? Un vecchio malato, che sta male, e che per vivere deve
chiedere l’elemosina a chi passeggia per strada? No, tu vuoi diventare un
professore, un medico, un artista… quello che vuoi, perché puoi. Io sono una
persona finita, emarginata, non va bene che stai con me. Devi tornare subito dai
tuoi”, concluse, con maggior risolutezza.
Federico parve riflettere un attimo sulle parole che aveva
appena udito, poi annuì.
“Ci torno, se proprio vuoi. Ma tornerò a trovarti, e non mi
piace quello che hai detto su di te”, proferì col suo vocino ridotto ad un
sussurro.
“Puoi venire quando vuoi, io sono sempre qui, ma dovrai farlo
con i tuoi genitori e se loro lo vorranno”.
Il vecchio tornò a camminare verso il bar, ormai distante
pochissimi passi.
Rallentò la sua marcia poiché si sentì fiero di quel piccolo
contatto umano, e fu come se, per un istante, fosse nonno. Come tutte le
persone della sua età, o anche più anziane, camminava lungo il marciapiede a
fianco di una giovane vita che riponeva speranze in lui, e che gli si era
verosimilmente affezionata. Era una sensazione bellissima, nel complesso.
Fu un minuto di paradiso, un minuto di quotidianità strappata
ad un lunghissimo periodo di assoluta emarginazione.
Sorrise a Federico, mentre stavano per varcare la soglia del
bar, dal quale si sarebbe messo in contatto con le forze dell’ordine, al fine
di riportare a casa il piccolo fuggitivo. Avrebbe voluto riaccompagnare a casa
egli stesso il suo piccolo amico, ma temeva la reazione dei suoi genitori, e
non solo; continuava ad essergli sconveniente il girovagare per strada con un
bambino, quando tutte le persone che transitavano abitualmente nella zona ben
lo conoscevano e sapevano quanto egli fosse in realtà solo.
Aveva paura, in fondo. Aveva paura di loro, degli altri.
Se avesse potuto, si sarebbe isolato con il suo giovanissimo
amico nel mondo delle favole, dove tutto era possibile.
Anche che lui divenisse una sorta di nonno, in grado di
donare affetto a chi gliene riponeva a sua volta, in modo disinteressato.
Angelo non riuscì mai a varcare la soglia di quel bar;
infatti, un uomo gli si parò di fronte, bloccandogli l’accesso, e afferrò la
mano del bambino, strappandola malamente dalla sua stretta. Il piccolo gemette
di dolore.
“Ma… cosa…”, quasi inveì il senzatetto.
“Come ti permetti, eh, a prendere con te mio figlio?! Cosa
credevi di fare, mascalzone?!”, cominciò a gridare con rabbia il nuovo
arrivato, pure con il fiatone dalla foga con cui era intervenuto. Di fronte
alle grida folli e rabbiose, le persone dentro il bar e quelle lungo la strada
si volsero a guardare la scena.
“Io…”, tentò di scusarsi Angelo, letteralmente senza parole.
Non era più abituato a tali affondi. Un tempo avrebbe saputo rispondere e
difendersi, ma dopo tanto isolamento, nulla lo salvava più dall’aggressione
verbale.
“Hai portato via mio figlio”, affermò, “mio figlio”, rimarcò,
“da scuola. Mia moglie lo aveva appena portato di fronte alle elementari. Poi è
sparito! E… lo stavi portando in questo locale”.
Era un fiume in piena, quell’uomo calvo, sulla cinquantina ma
ancora con un fisico da trentenne, vestito con abiti firmati e con un piglio
nervoso e provocatorio. Infuriato poi com’era, sembrava un vero gradasso, uno
dei vincenti abituati da sempre a sottomettere gli altri.
“Il bambino è giunto da me in lacrime. Io stavo solo andando
in questo bar per chiedere del telefono, ed avvisare le autorità che il piccolo
si era smarrito…”.
“Tutte scuse! So che l’avevi attirato con l’inganno, mia
moglie mi ha parlato del regalo, che io ho provveduto a cestinare. Tu a mio
figlio devi starci lontano, hai capito? Hai capito? Hai capito?”, continuò a
gridare, come un ossesso. Si fece sotto con un vago accento del sud, e quasi
spintonò il povero e provato Angelo, che chinò il capo.
La gente lo stava fissando e giudicando, ed aveva fatto la
figura del mostro di turno.
Claudio, quindi, gongolante per aver schiacciato il probabile
orco e per aver ripreso il figliolo sotto le sue ali protettrici, deviò il
senzatetto e si allontanò, con il piccolo Federico che veniva trascinato per un
braccio. Il bimbo piangeva come non mai, e allungava la manina libera verso
Angelo, travolto ed impotente. Sconfitto, con il volto in fiamme, giacché tutti
i passanti lo fissavano come se fosse stato un marziano. Una vergogna che lo
marchiava a fuoco.
“Ti farò avere dei problemi grossi se torni ad avvicinare il
bambino, capito?”, gli urlò di nuovo il padre del piccolo, a distanza. E mentre
tutti gli sguardi ancora aleggiavano sul barbone, Claudio ne approfittò per
calare la sua mano destra sul viso del figlio, smollandogli tre o quattro
rapidi ceffoni di fila, senza sosta, sussurrandogli parole orrende.
Angelo fuggì via, con tutta la forza che aveva, e si
dimenticò del suo cuore traballante, del fiato che gli mancava, del ginocchio
dolorante… la vergogna e il senso di impotenza che provava erano superiori ad
ogni altra sensazione che riusciva a provare sulla propria pelle.
Angelo non vide più il suo piccolo amico, nei giorni a
seguire. In cambio, riceveva occhiatacce dalla gente del posto, e pensò presto
che sarebbe stato meglio per lui cambiare zona di accattonaggio, dove le
persone che bazzicavano in loco non l’avrebbero potuto riconoscere.
Tuttavia, ancora sperava che Federico potesse tornare per
donargli un sorriso, e non avrebbe voluto deluderlo, se si fosse accorto della
sua assenza. Quindi, continuò come se niente fosse mai accaduto, pregando
affinché qualcuno di affettuoso potesse presentarsi al suo cospetto, a donargli
ancora un minimo di fiducia.
Era riuscito, nonostante tutto, a ritrovare un minimo di
gusto nella vita, e anche a trovare un legame con la società che l’aveva
rifiutato.
Infine, qualcuno si presentò al suo cospetto, e si trattava
di due carabinieri in divisa. Senza parole, il senzatetto rimase in uno stato
di choc tale da lasciarsi condurre in caserma senza neanche riuscire a
spiccicar parola.
Là lo attendeva un prevenuto maresciallo, un uomo maturo e
dall’aspetto ordinato e severo, che lo fece accomodare per chiarire quella
convocazione così rapida, e quella sorta di arresto.
“Immagino sappia perché lei è qui al mio cospetto”, esordì il
maresciallo, stuzzicandosi il pizzetto con il pollice e l’indice della mano
destra, con fare distante e poco interessato.
Angelo, sempre ammutolito, scosse il capo con un cenno di
netto diniego.
“Allora, sarò di poche parole, così da riportarle a mente
quello che è accaduto nei giorni scorsi”.
Fece una breve pausa ad effetto, prima di proseguire.
“Lei è stato denunciato per violenza aggravata su minore.
Avrebbe allontanato un bambino, Federico Muccioli, dalla sua famiglia, per poi
tenerlo sulla strada e condurlo verso un locale pubblico”, finì di spiegarsi,
sempre con tono distante e remoto.
“Io…”, provò a borbottare un Angelo sempre più intimorito,
mentre il viso s’imporporava e il suo misero corpo tremava tutto. Dopo giorni
in cui era sembrato tutto a posto, il suo cuore riprese all’improvviso a fare
le bizze, nel suo petto.
“Non è nelle condizioni per trattare, o comunque per dire la
sua; potrà far richiesta di un avvocato d’ufficio, che la difenderà da tale
accusa. Il padre del bambino ha sporto denuncia e sarà un tribunale a decidere
chi dei due ha torto o ragione, mentre io e i miei uomini ci occuperemo di
trovare prove che possano accusarla o scagionarla”.
Il pover’uomo si lasciò crollare sulla sedia, quasi
sciogliendosi su di essa. Le sue ossa scricchiolavano, come se avesse perso
decine d’anni di vita.
Avrebbe tanto voluto dire la sua versione dei fatti, ma a
cosa sarebbe servito? Era stato denunciato per un reato gravissimo e
diffamante, riguardante tra l’altro un minore, e tutti già lo giudicavano un
colpevole. D’altronde, quelli come lui erano così, agli occhi del mondo; erano
dei marci dentro, pronti a compiere ogni genere di vergognosa azione, solo
perché non avevano nulla da perdere.
“Non conosciamo bene la gravità dell’accaduto, per questa è
stata aperta una veloce indagine su di lei. Non si dovrà allontanare dalla
città e dovrà essere sempre reperibile, per non aggravare la sua situazione”,
lo congedò poi il maresciallo, alzandosi per primo ed andandosene.
Altri due carabinieri lo identificarono.
“Non ho un telefono”, riuscì a mormorare, quando si stava per
concedere di nuovo al pianto.
Alla fine, precisò che l’avrebbero sempre trovato lì, a loro
completa disposizione, proprio nel punto in cui l’avevano trovato. Non provò
neppure a dire che era innocente, che lui a quel bimbo si era affezionato come
se fosse un nipotino; non aveva senso parlare a persone che erano come un muro.
I due militari furono anche loro impassibili nel trattarlo,
davvero freddi, e probabilmente già lo vedevano colpevole. Con il cuore che gli
batteva forte nel petto, fu portato da una pattuglia nel luogo dove era stato
quasi arrestato.
Non fu trattenuto ulteriormente solo perché non c’erano prove
schiaccianti nei suoi confronti, tuttavia pareva quasi sicuro che presto ne
sarebbero saltate fuori di quelle davvero incatenanti e chiare. Lui avrebbe
solo dovuto aspettare il verdetto della giustizia…
Ma la giustizia, in Italia, purtroppo era già ben conosciuta
per la lentezza delle sue procedure.
Angelo era innocente, lo sapeva, ma non riponeva grandi
speranze in essa. D’altronde, era un soggetto molto vulnerabile, e quello che
Claudio stava facendo era probabilmente frutto del fatto che lui stesso
picchiasse suo figlio, e questo il senzatetto l’aveva visto, quindi voleva
anche scaricare il frutto delle sue violenze su qualcun altro.
Gli dispiaceva che il piccolo Federico, il suo unico vero
amico, avesse dovuto affrontare poi quella belva anche tra le mura domestiche;
se era stato picchiato e schiaffeggiato in una strada pubblica, chissà quante
altre sberle gli venivano riservate a casa. Ma nessuno aveva notato il padre
che malmenava il suo bambino, poiché tutti si erano limitati a guardare con
sdegno il nullatenente che era stato infangato con delle accuse gravissime.
Angelo avrebbe tanto voluto essere aiutato, in modo serio
quella volta. Non tanto dagli esseri umani, poiché aveva perso ogni fiducia in
loro, soprattutto negli adulti, ma almeno da Dio, che aveva ricominciato a
pregare durante le lunghe notti in cui stava poco bene. Qualcuno avrebbe dovuto
avere misericordia di lui, e riuscire a lavare l’onta che lo devastava.
Nessuno tese mai una mano, anzi, era evitato come la peste.
Per lunghi mesi, Angelo restò a disposizione della giustizia,
senza mai lasciare il punto dove mendicava e dove le forze dell’ordine
avrebbero potuto rintracciarlo.
Restò all’addiaccio, e digiunò perché faticava a raggiungere
il centro Caritas e nessuno più gli faceva l’elemosina.
Giunse l’autunno, e il suo corpo fu bagnato più volte dalle
piogge incessanti, senza che nessuno poi l’asciugasse.
Giunse infine un inverno molto più rigido di tutti quelli
precedenti, e il povero vecchio, prossimo all’undicesimo anno trascorso sulla
strada, non vide mai nessuno venirgli incontro. Non seppe più nulla delle
indagini in corso su di lui, e della denuncia gravissima che pesava sulle sue
spalle, poiché durante una notte gelidissima morì.
Fu ritrovato morto la mattina successiva dai passanti, e il
poveretto era tutto raggomitolato in posizione fetale, entrambe le mani poste
all’altezza dei polmoni.
Nessuno pianse per lui, né s’interessò; ben presto fu
dimenticato anche da chi l’aveva visto elemosinare, e il suo corpo fu
seppellito in una tomba anonima, in periferia.
Federico crebbe, e lasciò che la sua mente venisse plasmata
dai desideri della società; tuttavia, non dimenticò mai quel poveretto che suo
padre aveva ulteriormente rovinato, portandolo alla morte per stenti.
Un giorno, compiuta la maggior età, si arrischiò in solitaria
a cercare la sua tomba, ma non la trovò mai. Angelo non riposava in città, ma
lontano da essa, ancora una volta emarginato dalla società, e ripudiato in
eterno dalla memoria collettiva.
NOTA DELL’AUTORE
Questa storiella è nata grazie ad un suggerimento e ad un
invito posto da Innominetuo, che ringrazio profondamente per il suo impegno in
ogni ambito sociale e per il desiderio di giustizia che la spinge sempre a
lottare e ad affrontare una realtà spesso molto dura.
Grazie anche a Kim, come al solito.
Spero che il raccontino sia stato di vostro gradimento, e… a
presto ^^