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Autore: Adeia Di Elferas    05/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Questa non è una perdita di tempo!” gridò Annibale Bentivoglio, togliendosi con rabbia l'elmo e tornando a respirare.

Stare fuori, con quel clima impossibile lo aveva sfiancato e tornare al campo e sentire dire certe assurdità gli aveva subito fatto perdere le staffe.

Tuttavia, malgrado il suo sguardo rabbioso, nè Bartolomeo d'Alviano – che era stato, a quanto pareva, l'artefice di quella mezza sollevazione – nè gli altri presenti si scomposero di una virgola.

“E va bene...” fece allora Annibale, scuotendo il capo e facendo qualche colpo di tosse: “Se volete ripiegare su Bibbiena, fate come volete. Li respingo volentieri da solo, questi dannati fiorentini.”

Carlo Orsini allargò le braccia e spiegò: “Loro hanno le bombarde, e truppe fresche e Ranuccio da Marciano. Anche se abbiamo provato a mandare una spia per tirare dalla nostra il loro comandante, ci è andata male. Troveremo un altro modo per assicurarci la via degli Appennini. È inutile restare per prendere quella rocchetta...”

“Io resterò fino alla fine.” si oppose Annibale, ostinato: “Ripeto e ribadisco, voi fate quel che vi pare. Sarà il Doge a decidere come punirvi.”

“Parlando di punizioni...” fece Guidobaldo da Montefeltro: “Lo sapete che il vostro collaterale, Filippo Aureliano, ha mosso formale richiamo a vostro nome per i quaranta disertori che vi sono sfuggiti da sotto al naso...”

Bentivoglio deglutì. Le defezioni erano all'ordine del giorno, ormai, e da quando si era messo a piovere in quel modo, sempre più soldati avevano trovato, nottetempo, la strada per andarsene senza farsi notare. Solo che nel suo battaglione ne erano mancati ben quaranta e tutti nel corso della medesima sera. Sapeva che sarebbe stato un problema, alla fine...

“Come volete.” concluse Annibale, osservando con odio Bartolomeo d'Alviano che, muto e impassibile come sempre, lo fissava di rimando: “Andate a Bibbiena, al diavolo, o dove diamine vi pare. Io resterò a combattere e basta. Ho una dignità da difendere.”

“Disse il pastore che mentre dormiva aveva lasciato scappare quaranta pecore...” ridacchiò Guidobaldo, ma senza troppa acrimonia.

Bartolomeo d'Alviano, a quel punto, si mise nel centro del padiglione e guardò ancor più fisso Bentivoglio e disse solo: “Partiremo prima di sera.”

 

“Adesso basta...” soffiò la Sforza, stringendo la mano a pugno e scuotendo il capo, oltraggiata dal resoconto pessimo che le era appena stato riferito: “Non volevo arrivare a tanto, ma a questo punto, procedete come deciso.”

Luffo Numai annuì in silenzio e poi, dedicando appena uno sguardo a Bianca e Giovannino, che stavano alle spalle della Tigre, lasciò la sala delle letture.

La Contessa si era ritirata lì per trovare un po' di svago, per leggere qualcosa al suo figlio più piccolo, ma evidentemente non poteva restare tranquilla nemmeno un istante.

La figlia la guardò di sottecchi, ma non osò domandare nulla. Non aveva idea di quali fossero le misure ideate dalla madre, ma immaginava che dovesse essere qualche provvedimento che lei stessa non approvava.

La situazione si stava facendo seria e, con la questione di Marradi e Castiglione ancora in bilico e Achille Tiberti incapace di prendere in mano la situazione come Caterina avrebbe voluto, era chiaro che la Leonessa non potesse più attendere che il suo popolo capisse qualcosa di sua sponte.

“Bianca...” la voce della Contessa era un po' appannata, come se i troppi pensieri la stessero confondendo: “Ascolta... Potrebbe esserci un po' di confusione, domani. E nei prossimi giorni...”

La Riario osservò la madre, trovandola distratta e sconfitta, tuttavia le assicurò subito: “Non temete. Anzi, se volete chiederò anche ai miei fratelli di non lasciare la rocca...”

“Meglio, meglio... Ah e nelle prossime settimane...” il viso della Tigre si distorse in una smorfia poco piacevole, come se quelle parole le lasciassero l'amaro in bocca: “Cerca di non... Di non dare troppa confidenza alle reclute che si uniranno all'esercito. Dobbiamo essere prudenti. Non vorrei che tra loro ci sia qualcuno che possa provare a farti del male solo per vendicarsi di me.”

Quella raccomandazione fece correre un brivido lungo la schiena della ragazza che, però, stringendo un po' di più il fratellino al petto, confermò: “Resterò nelle cucine o in compagnia vostra o di Giovannino.”

“Brava.” sussurrò Caterina, prima di andare alla porta e lasciare i figli con un laconico: “Adesso ho da fare...”

 

Ottaviano Manfredi si dondolava appena su talloni e punte, le braccia allacciate dietro la schiena e dipinta in viso un'espressione da bambino discolo che fece sorridere Lucrezia Feo, quando lo vide.

Il faentino, trovandosi davanti quella donna, si rimise composto e, un po' sorpreso di non vedere il Governatore di Imola, ma quella che doveva essere la sua signora, si esibì in un profondo inchino.

“Siete molto gentile...” constatò Lucrezia, mentre l'uomo le faceva il baciamano: “Ma mi spiace dirvi che mio marito al momento non è qui.”

“E dunque io con chi posso parlare?” chiese Manfredi, puntando i suoi occhi azzurri in quelli scuri come la pece della Feo.

La moglie del Governatore lo squadrò per qualche istante più di quanto normalmente sarebbe stato considerato lecito. Era un giovane alto, robusto, con le spalle larghe e lunghi capelli biondi che cadevano lisci sulle spalle. Aveva gli occhi piccoli, ma molto vivi e di un color cielo difficile da dimenticare. Aveva tratti delicati, lineamenti fini, e malgrado le sue mani fossero abbastanza rovinate – probabilmente per l'uso continuo delle armi – nel tenere alta quella di Lucrezia, avevano dimostrato di saper toccare una donna con gentilezza.

Un ultimo dettaglio colpì la Feo: dal colletto della sopratunica che portava si intravedeva la base del collo e con essa qualche lieve segno un po' in rilievo, come delle cicatrici. Il primo pensiero di Lucrezia fu che si dovesse trattare del ricordo di qualche vecchia battaglia.

“Potete parlare con me e con mio fratello.” spiegò ella, facendogli strada verso il salone: “Al momento Tommaso è impegnato alla rocca, assieme a suo suocero, ma presto sarà di nuovo qui. A meno che non abbiate fretta di ripartire.”

Ottaviano portava con sè un ordine da parte di Paolo Vitelli con cui si diceva che lui e Dionigi Naldi dovevano recarsi a Brisighella per sollevare il popolo contro Venezia. Tuttavia, ne era certo, nell'ordine non si faceva alcun cenno alla fretta, e dunque avrebbe passato molto volentieri qualche ora in compagnia di quella meravigliosa donna.

“E ditemi...” disse piano Manfredi, mentre raggiungevano il salone: “Vostro marito è lontano, sì?”

“Sta combattendo per la Contessa.” confermò Lucrezia, sforzandosi di sorridere.

Benché non lo volesse dare a vedere nemmeno con suo fratello, da quando Simone era partito, viveva una profonda inquietudine. Lo sapeva un uomo di calcoli e pianificazioni economiche, non un soldato. La paura di vedere arrivare una staffetta che gliene notificasse la morte cresceva di giorno in giorno.

“Capisco.” annuì Ottaviano, sedendosi sul divano davanti al fuoco, laddove gli era stato indicato dalla padrona di casa: “E vostro fratello tornerà quando..?”

“Per l'ora di cena, immagino.” sussurrò Lucrezia.

C'era qualcosa, nel tono della donna, che spense di colpo le aspettative di Manfredi. Fino a pochi istanti prima era stato certo che la moglie del Governatore fosse rimasta ammaliata da lui e che non si sarebbe tirata indietro, nel caso in cui lui le avesse fatto una proposta esplicita.

Tuttavia, quando aveva nominato il marito in guerra... Qualcosa nel suo viso accattivante era cambiato e i suoi occhi si erano fatti mesti e pensosi.

Sospirando, Ottaviano si disse che forse aveva avuto la sfortuna di incappare in una donna davvero innamorata del consorte, e così si mise il cuore in pace e chiese: “Voi siete autorizzata a parlare di affari di Stato?”

“Io e mio marito facciamo tutto alla pari, quando ve ne è necessità.” fu la risposta pronta della Feo.

“Ebbene – iniziò allora Ottaviano – dunque posso cominciare a discorrerne con voi...”

 

Francesco Gonzaga guardò esterrefatto Cesare da Birago. Il gioco al rialzo che sua moglie Isabello lo aveva convinto a fare aveva finalmente dato i suoi frutti.

La pioggia cadeva silenziosa su Mantova, quella sera e il Marchese sentiva di avere il bisogno di bere qualcosa di forte. Fece un cenno a un domestico e questi gli versò un po' di liquore.

Dopo averlo sorbito tutto d'un fiato, Francesco si schiarì la voce e chiese, come se non avesse capito bene: “L'Imperatore Massimiliano mi vuole come comandante generale delle truppe imperiali in Italia?”

“Avete capito bene, mio signore.” affermò Cesare, un sopracciglio alzato, indice di uno scetticismo che per poco non fece vacillare il Marchese.

In effetti il diplomatico si era aspettato tutta un'altra reazione dall'eroe di Fornovo e nutriva già qualche dubbio sul fatto che l'Imperatore avesse scelto bene. Tuttavia sapeva che Massimiliano aveva modi di decidere che sfuggivano alla sua comprensione ed era certo che Ludovico Sforza avesse fatto pressioni notevoli, per favorire il mantovano.

Molti, aveva sentito dire, vociferavano fosse tutto merito di Isabella Este, la moglie del Gonzaga, che con il Duca di Milano aveva argomenti che poche altre donne avevano. Ma Cesare da Birago si sentiva più propenso a credere che lo Sforza avesse agito per mera politica e non per le moine di una cognata sposata e con figli.

“Bene, bene...” disse allora Francesco, riappoggiando il bicchiere e battendo le mani, come a darsi un tono: “Parleremo dei dettagli domani mattina, se siete d'accordo...”

“Come preferite. Mi basta sapere che accettate l'incarico.” precisò l'altro.

“Chiaro, chiaro... Ma adesso s'è fatto tardi e credo sia meglio andare a riposare. Inizia a far freddo, vero? Non abbiate paura a chiedere qualche coperta in più, i miei servi vi tratteranno come un bambino, se glielo permetterete...” farfugliò il Marchese, accompagnandolo fuori dal salone e congedandosi da lui all'imboccatura delle scale.

Euforico e terrorizzato in egual misura, camminò a passo spedito, quasi di corsa, rischiarato appena dalla luce fioca che entrava dalla finestra. Benché fosse una sera di pioggia, non c'era molto buio. O forse era lui, a vedere tutto migliorato.

Bussò alla porta della stanza della moglie e dovette attendere almeno una decina di minuti, prima che una delle dame di compagnia di Isabella andasse ad aprirgli.

“Voglio parlare con la Marchesa.” disse Francesco, occhieggiando oltre la spalla della donna.

Questa, che evidentemente aveva preso ordini in anticipo, lo lasciò passare subito e, con un ultimo sguardo alla sua signora, si dileguò lasciandoli soli.

Isabella si stava cambiando per la notte e aveva i capelli tendenti al rosso sciolti e solo una vestaglia a coprirla.

Il Gonzaga, che da troppo tempo non riusciva ad avvicinarla, si permise un moto di spontaneità, non lasciandosi intimorire troppo dai suoi occhi glaciali, che lo tenevano a distanza come due cannoni puntati.

“Isabella...” sussurrò lui, inginocchiandolesi accanto e prendendole una mano nelle sue: “Non so come... Oh, Isabella, se non fosse per te, io...”

“Per favore...” fece la donna, alzandosi dalla sedia all'istante e facendo scivolare via le dita da quelle ruvide e grezze del marito: “Non è necessario fare queste sceneggiate. Lo sai che mi interessa solo della grandezza del Marchesato. Se tu non sei in grado di ottenerla, allora devo pensarci io.”

L'Este si era messa a trafficare con gli abiti che si era appena fatta togliere dalla sua dama di compagnia – tutti capi pregiatissimi e di finissima moda – e Francesco non sapeva come riavere la sua attenzione completa.

“Lo sai cosa mancherebbe, al nostro Marchesato, per essere davvero grande e potente.” bisbigliò l'uomo, quasi non osando far quella proposta.

Quella sera, saputo l'incarico che lo attendeva, si sentiva mosso da una forza vitale che non provava da troppo tempo e la vista della moglie, ai suoi occhi la donna più desiderabile al mondo, tanto bella quanto fiera, malgrado negli ultimi tempi il suo fisico stesse cedendo un po' il passo alla vita sedentaria e a qualche abbuffata di troppo, gli stava facendo perdere tutti i freni.

“Cosa?” chiese Isabella, quasi soprappensiero.

“Un erede maschio.” gli ricordò il Gonzaga, arrivandole alle spalle e cingendole i fianchi.

La donna lo scostò immediatamente e poi lo fissò con sdegno: “Hai avuto le tue occasioni per farmi partorire un maschio. Come ho già detto: si raccoglie ciò che si semina.”

“E allora proviamo a seminare ancora. Sono sicuro che questa volta...” tentò in extremis il Marchese, allungando ancora le mani solo per vedersi sfuggire nuovamente la moglie da sotto al naso.

“Lo deciderò se e quando riprovarci. Non stasera.” lo freddò Isabella, senza alzare i toni.

Quel rifiuto, tanto apparentemente pacato quanto crudele, ebbe uno strano effetto sulla mente di Francesco che, in quel preciso istante, vide con più chiarezza dei dettagli che aveva voluto ignorare.

Prima di tutto, rivide i sorrisi e gli sguardi che Isabella aveva dispensato in quei giorni in favore di Pietro Bembo, uno dei tanti parassiti sedicenti letterati con cui lei stava riempiendo la corte, e poi ripensò a come l'emissario dell'Imperatore avesse voluto sottolineare l'importanza del Moro, in quella condotta così vantaggiosa...

“Mi tradisci?” le chiese, a bruciapelo.

“Non mi sembri nella posizione di chiedere a me che cosa faccio nel mio letto, non ti pare?” si schermì lei, senza più guardarlo: “Non dopo il ridicolo che mi hai gettato addosso per anni!”

Per Gonzaga quella era più che un'ammissione. Avvilito e abbattuto, come se Isabella con le sue parole l'avesse ucciso, abbassò la testa e lasciò la stanza, senza avere il coraggio di aggiungere altro.

In fondo, si disse, quando arrivò nella sua stanza, era stato lui stesso a gettarla tra le braccia di altri uomini. Per convenienza, per quieto vivere, per paura. La conosceva da che era una bambina, e sapeva fin da allora che Isabella non era una donna come le altre, che gliel'avrebbe fatta pagare, se avesse tradito la sua intelligenza. Perché era quello che aveva fatto.

Qualche donna, mentre era in guerra, l'aveva accettata. Lo sapeva a rischio di vita, lo perdonava, lo capiva. Ma tutte le altre... Tutte le altre non potevano essere spacciate per il bisogno di un uomo che si vede in pericolo fatale. Era stato solo uno sciocco e adesso Isabella lo stava facendo pentire di ogni singolo tradimento e di ogni minima leggerezza. E forse se lo meritava.

 

Nell'attesa della tempesta che si sarebbe di certo accesa all'arrivo dell'alba, la Sforza aveva deciso di mandar a chiamare il ragazzo biondo del bordello. In un certo senso, le era meno estraneo e lontano di un qualsiasi uomo che avrebbe potuto trovare alla rocca e aveva bisogno di sentirsi tranquilla, in qualche modo.

Stare nella stanza di Giovannino non le era servito molto, perché, malgrado fosse felice di passare del tempo con il suo figlio più piccolo, la sua presenza le ricordava le minacce di Lorenzo Medici e con esse la guerra e tutto quello che ne derivava.

Voleva solo qualche ora di pura pace. Forse non avrebbe ottenuto quello che desiderava nemmeno con quel giovane, ma valeva la pena di fare un tentativo.

Come da accordi, aveva dato un biglietto molto conciso a uno dei suoi servi e l'aveva fatto avere alla proprietaria del postribolo e, nel giro di nemmeno mezz'ora, il ragazzo era subito arrivato a Ravaldino.

Non aveva perso tempo e l'aveva preteso subito. Lui non si era opposto, docile sia per via dell'abitudine, sia perché estremamente malleabile, nelle mani della Tigre, e alla fine, entrambi insonni, si erano rintanati sotto le coperte, protetti dal calore dei loro corpi e del camino, che illuminava la stanza con le sue luci e le sue ombre.

Fuori la pioggia aveva ripreso con vigore e non accennava a smettere e Caterina cominciava quasi a temere qualche disastro. In fondo, dopo una siccità tanto protratta, il terreno non era pronto per accogliere così tanta acqua.

Il giovane e la Contessa si fronteggiavano, entrambi sul fianco, coperti fino alle spalle, e di quando in quando si osservavano a vicenda in viso.

Stanca, alla fine Caterina si sistemò meglio, annusando distrattamente il sentore del suo amante sul cuscino e passandosi distratta due dita sul nodo nuziale, come a dare la buonanotte a Giovanni, che, come Giacomo, non la lasciava mai del tutto, nemmeno per un istante.

In dormiveglia, però, forse il rumore della pioggia, forse le preoccupazioni che l'assillavano, qualcosa la investì con un senso di malinconia profondo. Era nostalgia di casa, fondamentalmente.

Ripensò a Milano, agli anni spensierati che vi aveva passato, prima di incontrare Girolamo, e poi, mentre rivedeva davanti a sè l'immagine un po' sbiadita del palazzo che l'aveva vista bambina, si assopì.

Si risvegliò quasi subito, però, perché la sua testa, nel sonno, le aveva riproposto delle immagini e delle sensazioni che avrebbe voluto con tutta se stessa eradicare dalla sua memoria.

Non era stato il cadavere di Ludovico Marcobelli, nè le donne straziate di Mordano, tanto meno il corpo sfatto di Giacomo a destarla tanto bruscamente.

Quello che aveva rivissuto era stato il tragico e insensato susseguirsi di eventi che l'aveva portata, nell'arco di meno di mezza giornata, a diventare la moglie di Girolamo e a covare dentro di sè il seme dell'odio e della rabbia.

“State bene?” chiese il ragazzo al suo fianco, passandole con fare protettivo una mano sulla fronte.

Caterina si mise supina e poi, normalizzato il respiro, sussurrò: “Ho sognato cose che vorrei non ricordare più.”

Il giovane non fece domande, conscio che il suo lavoro si fermava laddove cominciava il lato veramente privato dei suoi clienti, tuttavia fu la Contessa stessa a riprendere il discorso.

Non scese nei dettagli, ne parlò quasi con distacco, ma gli raccontò la notte peggiore della sua vita.

“Credevo di morire, in quel letto.” concluse la Tigre, deglutendo a fatica, il senso di nausea, nel ricordare il dolore e il disgusto di quei momenti, che tornava a farle visita.

“Vi capisco. In un certo senso è successo anche a me.” disse piano il giovane, sistemandosi un po', il petto ampio che si alzava e si abbassava più in fretta e gli occhi che cercavano le fiamme del camino: “Lo sapete, sono nato in quella bettola. E... Hanno cominciato a usarmi fin quando ero piccolo. Anzi, mi hanno venduto fin da quando ero piccolo.”

Caterina si rese conto di non aver mai pensato a quel fatto. Anche se ora che le era stato rivelato pareva scontato – perché in certi posti il conto della vita è salato e lo si paga fin da subito – non si era mai soffermata a pensare a come dovesse essere stata la vita di quel ragazzo.

Rimettendosi sul fianco, gli accarezzò il bel viso in modo simile a come lui aveva fatto poco prima con lei e sussurrò: “Anche io sono stata venduta, quando avevo nove anni. È quello, che è successo, alla fine...”

Il giovane annuì in silenzio, posando una mano su quella della Leonessa e poi chiese, con un tono che alla Sforza ricordò quello ingenuo e disperato di un bambino: “Ed è qualcosa che non si lava via mai, vero?”

La Contessa, che era più vecchia almeno di una decina d'anni abbondante di lui, avrebbe tanto voluto rassicurarlo, ma sapeva che un'amara verità vale più di tante dolci bugie: “No, non se ne va mai.”

Sospirò e poi, dopo un momento di esitazione, capendo per la prima volta di aver davanti qualcuno che poteva comprenderla realmente e non solo immaginare cosa avesse passato, confessò: “Sai qual è la cosa di cui mi vergogno di più ancora adesso?”

Il ragazzo rimase immobile a fissarla, le ombre dei suoi occhi chiari che inseguivano quelle delle iridi verdi della donna.

“Che negli anni, poi, non sono quasi mai riuscita a ribellarmi a lui. Ero più forte, fisicamente e mentalmente – spiegò la Tigre, accigliata e dimessa – avrei potuto sottrarmi a lui. Avrei potuto davvero. Ma quando lo faceva... Io mi sentivo ancora la bambina di nove anni indifesa e debole che lui aveva sopraffatto come un animale in quella maledetta stanza che puzzava di muffa...”

“Non dovete vergognarvene.” fece allora il giovane, avvicinando un po' il viso a quello della Contessa: “Non riesci a ribellarti, quando ti fanno certe cose.”

“Già, non riesci.” convenne la Sforza, che, per la prima volta, si sentiva sollevata da un peso enorme.

“Ti senti solo piccolo e indifeso. Non puoi ribellarti.” ribadì lui.

“Sì.” annuì la donna, trattenendo a stento una lacrima: “E non è una colpa, non è una debolezza.”

“No, non la è. Non ci puoi fare nulla e basta.” fece eco il ragazzo.

I loro occhi si stavano specchiando gli uni negli altri come due laghi che finalmente trovavano un cielo conosciuto e limpido da riflettere. Era come aver trovato qualcuno che si era cercato per anni.

Lentamente, senza capire chi dei due avesse avuto l'iniziativa, si sporsero l'uno verso l'altro e si baciarono, piano, con dolcezza, senza la frenesia che li aveva animati solo un paio d'ore prima.

Con un movimento fluido, privo della risolutezza con cui di norma si imponeva su di lui, Caterina scivolò sopra il corpo del ragazzo e continuò a baciarlo.

Quella volta non si sfruttarono a vicenda per placare l'una la fame che la rimordeva e l'altro il desiderio dinnanzi a una donna tanto bella. Quella volta si amarono, ritrovandosi l'uno nell'altra, come se quegli slanci di tenerezza e passione mescolati potessero in qualche modo lenire il dolore di ferite aperte da troppi anni.

 

Alle cinque del mattino di quel quattro ottobre, simultaneamente in tutto il territorio comandato dalla Tigre, i suoi soldati migliori fecero irruzione in tutte le case in cui vivevano gli arruolati che avevano osato non presentarsi alla cittadella come era stato ordinato loro.

Ciò che i soldati gridavano era un'intimazione perentoria. Alle sei tutti quanti avrebbero dovuto raggiungere il banco di pertinenza e ogni trasgressore sarebbe stato punito con la forca il giorno stesso.

Le scene che si consumarono nelle casupole dei paesi e nelle cascine in campagna si assomigliarono un po' tutte.

Chi gridava pietà, chi si dichiarava inabile alle armi, sostenendo che sarebbe stato più d'impaccio che non d'aiuto, chi ancora diceva di non poter lasciare la famiglia, per non far morire di fame moglie e figli, chi anche passava all'attacco, scagliandosi contro la Contessa, sostenendo che la sua politica fosse folle e che andar contro Venezia fosse inutile. Non mancarono quelli che se la presero con lei dicendo che era solo una strega affamata di uomini, capace di vendere il suo stato per un bel paio d'occhi o due spalle larghe, ma molti di loro vennero zittiti in modo tanto efficace da divenire realmente inabili alle armi e in modo perpetuo.

Quando dalla rocca di Ravaldino vennero sparati sei colpi di cannone, per indicare in modo formale l'ora ultima di raccolta, le fughe e le tragedie non si contavano, ma, nonostante ciò, il numero di uomini che venne messo sotto le armi fu ritenuto bastevole e soddisfacente.

La ferita lasciata nell'anima del popolo, però, andava a riaprire vecchie ferite e di certo, anche Caterina ne era sicura, ci avrebbe messo molto a rimarginarsi. Se mai quella ferita, come altre, più profonde e personali, potesse mai rimarginarsi davvero.

 

 
   
 
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