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Autore: Adeia Di Elferas    09/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Ottaviano tirò appena le redini del cavallo, fino a farlo fermare. La colonna di cavalieri che guidava era rimasta un po' indietro.

In realtà, fin dal primo giorno di pattuglia nelle terre del confine orientale della madre, il Riario aveva capito che quegli uomini non lo ascoltavano nemmeno. Erano soldati addestrati in modo ferreo, con una capacità di autodisciplina che invidiava loro moltissimo.

Lui si limitava a fare la bella statuina. Portava addosso lo stemma della sua famiglia – la biscia sforzesca affiancata alla rosa d'oro – e si metteva in testa alla colonna, quando pensava che il posto fosse abbastanza tranquillo.

Le pochissime volte in cui c'era stato da menar le mani, per rincorrere degli esploratori veneziani o mettere freno a qualche piccola rivolta, Ottaviano si era sempre messo nelle retrovie, senza sporcare mai una volta la sua spada di sangue.

Quando era stato al campo pisano con Giovanni, si era reso conto di essere capacissimo di uccidere in battaglia. Ma il panico e la sensazione di morte imminente che l'avevano preso mentre era in mezzo alla confusione dei soldati che uccidevano, gridavano e morivano... Quella non la voleva mai più provare in vita sua.

Il giovane annusò l'aria che sapeva di terra bagnata e di autunno. Per fortuna quella mattina non pioveva più. Si era stancato di passare le sue giornate con abiti fradici e le notti nella speranza che asciugassero.

L'unica nota positiva, in quella sua nuova condotta di vita, era che arrivava a sera tanto stanco da non avere altro pensiero in mente se non dormire e riprendersi in vista del giorno dopo.

Anche se i suoi soldati stavano spesso alla diaccio, o sotto le tende di un campo volante, Ottaviano riusciva quasi sempre a trovare una locanda che lo ospitasse, assicurandosi così un letto. Tuttavia, ogni volta che aveva intravisto o parlato con una donna – anche quando il mestiere della stessa era palese – non aveva avuto nè la voglia nè la forza di approfittarne.

Stringendo gli occhi, vedendo in lontananza il limitare del bosco che li separava dalla lingua di terra faentina, il giovane Riario abbozzò tra sè un sorriso, pensando che Giovanni sarebbe stato fiero di lui.

Anche se il suo miglioramento era da imputare agli impegni e alla paura di una punizione, in caso di non ottemperamento degli ordini, di certo il Medici sarebbe stato felice di vedere che il suo figliastro non pensava più solo alle donne e al rancore che covava nel cuore.

E ogni tanto pensava anche al figlio che aveva deciso di riconoscere e che sarebbe nato – o forse lo era già – a Imola. Aveva fatto quello che Giovanni gli aveva consigliato di fare e per una volta si sentiva orgoglioso di sè. O, almeno, non si vergognava, e già quello, per lui, era un grande traguardo.

Quella parentesi di strano isolamento gli stava rimettendo a posto dei pezzi di anima che credeva di aver perso. Se fosse riuscito a vivere a quel modo ancora per qualche mese, forse sarebbe riuscito a redimersi un minimo anche agli occhi di sua madre.

 

Caterina non riusciva a togliersi dalla testa quello che lei e il ragazzo del postribolo si erano detti nel segreto della sua camera da letto.

Era stata la prima volta in vita sua che le era capitato di sentirsi davvero capita da qualcuno.

Giacomo, quando aveva saputo quello che le era successo, l'aveva consolata a modo suo. Giovanni, dotato di maggior affinità intellettiva con lei, le aveva saputo dare anche un senso di sicurezza e protezione. Però solo quel ragazzo nato nei bassifondi era riuscito davvero a farle sentire di essere stata capita.

La giornata era abbastanza tranquilla e la Sforza la stava passando alla rocca. Il frastuono degli arruolamenti forzati del giorno prima non si era ancora placato e così aveva ritenuto più assennato sottrarsi ancora per qualche ora alle reclute.

Solo qualche anno prima, non ci avrebbe pensato minimamente e si sarebbe messa in prima fila, pronta a fronteggiare anche la folla inferocita. Adesso, però, sentiva di dover pensare anche alla propria, di incolumità. Prima di permettersi simili avventatezze, doveva pensare a quelli che stava proteggendo. Se le fosse successo qualcosa per un motivo tanto sciocco, lasciando solo Giovannino e gli altri, non se lo sarebbe mai perdonato.

Era così tranquillamente seduta in una delle poltrone della sala delle letture. Aveva sulle ginocchia il suo figlio più piccolo e Bianca era sul divanetto dinnanzi a lei, immersa nella lettura di un pesante tomo che parlava di storia romana.

La Leonessa passò con lentezza la punta del pollice sull'arcata sopraccigliare del figlio, che la fissava in silenzio. A volte trovava quasi imbarazzante l'intensità con cui Giovannino la guardava.

Sembrava sempre che stesse cercando di capire qualcosa di difficile, che gli sfuggiva ogni volta.

La forma un po' allungata dei suoi occhi le ricordava sempre di più quella di Giovanni. Era così particolare che, pensava la Sforza, forse era propria anche di altri membri della famiglia del marito.

Il piccolo alzò un bracciotto per toccare quello della madre e di reazione Caterina sorrise. Le piaceva quel bambino. Non solo perché era il figlio di Giovanni. C'era qualcosa, in lui, che glielo faceva sentire vicino, simile.

Se lo avvicinò un po' di più e gli diede un bacio sulla fronte. I suoi capelli, sempre più ribelli, erano ricci come quelli del padre, e le solleticarono le labbra, facendo allargare il sorriso che già aveva in viso.

Portandoselo al petto, per abbracciarlo – senza trovare la minima ritrosia, a dispetto di quanto sostenevano le balie, che lo dipingevano come un bambino dispettoso e riottoso a ogni forma di tenerezza – la Contessa allungò lo sguardo verso Bianca.

Era assorta nella lettura, una mano a tenere aperto il libro sulle gambe, l'altra a sfiorarsi le labbra un po' aperte, e gli occhi blu scuri che correvano sulle parole stampate senza lasciarsene scappare una.

Forse quello non era il genere di libro che ci si sarebbe attesi di vedere tra i preferiti di una giovane donna della sua età e della sua estrazione, ma Caterina ben si guardava dal riprenderla su quel genere di scelte. Era felice, anzi, di vederla tanto eclettica negli interessi.

La osservò meglio, continuando a cullare Giovannino, che si beava della sua vicinanza come se non potesse farne a meno, e ammise ancora una volta di più con se stessa che sua figlia era veramente molto bella.

Negli ultimi anni era sbocciata e si era fatta ancora più simile a sua nonna Lucrezia. Nei suoi lineamenti, infatti, la Tigre riconosceva più la madre che non se stessa. Le forme del suo viso, e anche del suo corpo, avevano quel tocco etereo e impalpabile che si mescolava solo in parte con la bellezza terrena, esattamente come era stato per Lucrezia.

L'avvenenza più massiccia e palese degli Sforza si rivedeva solo in alcuni atteggiamenti e in alcune espressioni del viso, ma per il resto era nipote di sua nonna, più che figlia di sua madre.

Caterina, con un sospiro pensieroso, il sorriso che lentamente se ne andava, affondò il viso contro i capelli profumati di suo figlio, stringendolo un po' di più, mentre pensava tra sè che almeno sua figlia, per quanto le era stato possibile, l'aveva protetta.

Non da tutte le brutture della vita, nè da lutti o dai dolori, ma se non altro le aveva impedito, fino a quel giorno, di dover sottostare a un uomo impostole con la forza, come invece era capitato a lei.

Avrebbe compiuto a fine mese diciassette anni e ancora non aveva dovuto passare una sola notte in compagnia di un marito indesiderato. Alla sua età, Caterina aveva già avuto due figli ed era in attesa del terzo parto.

Guardò ancora un momento oltre la spalla di Giovannino, mentre Bianca voltava pagina e si trovò a pensare che, se anche avesse già fatto qualcosa con un uomo – per quanto sconveniente potesse essere per la società in cui vivevano – almeno l'aveva fatto per piacere e non per dovere.

Rimettendo il piccolo sulle propria ginocchia, la Sforza si trovò a ricordare di quanto Giovanni fosse certo che Bianca, malgrado le tentazione in mezzo a cui viveva, fosse rimasta fedele alla promessa che le aveva fatto, quando avevano discusso del suo matrimonio con Astorre.

Se fosse o meno così, la Tigre non sapeva proprio dirlo, ma ormai le importava relativamente.

Aveva già deciso di puntare su Ottaviano Manfredi. Lo avrebbe usato per liberarsi di Astorre e a quel punto Bianca avrebbe potuto prendersi chiunque avesse voluto.

Anche Giovanni, le ultime volte in cui avevano parlato del futuro, le aveva consigliato di dare una possibilità all'esule di Faenza e, a conti fatti, forse quell'uomo sarebbe stato l'unico vero trucco per loro per liberarsi in un colpo solo di uno Stato indecifrabile e di un matrimonio scomodo.

Giovannino aveva appena fatto una smorfia divertita, in risposta a un buffetto che la madre gli aveva fatto, quando arrivò il castellano, portando con sè una lettera: “Per voi, mia signora.”

Bianca smise di leggere, chiudendo il libro, in attesa di capire la reazione della madre, per provare a indovinare chi avesse scritto e perché.

Caterina ringraziò Cesare Feo e poi fece segno alla figlia di prendere Giovannino. Il bambino parve deluso da quel passaggio di testimone, ma anche la sorella era una compagnia che gli piaceva, quindi evitò le sceneggiate che avrebbe fatto con le balie.

La Contessa aprì subito il messaggio e scoprì che era stato scritto da Ottaviano Manfredi. Non diceva nulla di particolare. La metteva solo al corrente del suo arrivo a Imola e della sua attesa di potersi congiungere ai soldati di Dionigi Naldi per provare a sollevare Brisighella, come comandato da Paolo Vitelli.

Fu solo sul finale che la Tigre ebbe un moto di stizza. Quasi per caso, il faentino le riferiva che purtroppo non era riuscito a far conoscenza con il Governatore Simone Ridolfi, giacché egli era partito per Marradi, lasciando a Tommaso Feo il compito di supplirlo durante la sua assenza.

“Ah, questa poi..!” esclamò la donna, alzandosi di colpo dalla poltrona e iniziando a misurare a lunghi passi la stanza.

Non aveva idea – perché di notizie certe ancora non ne erano arrivate – di come stesse andando l'assedio di Marradi, ma, se anche la presenza del Governatore si fosse rivelata fondamentale per la vittoria, non le piaceva lo stesso l'idea che Ridolfi si fosse permesso ancora una volta di mancarle di rispetto, agendo senza il suo esplicito permesso.

Bianca la fissava in silenzio, senza osare chiedere notizie, e anche quel fatto fece andare su tutte le furie la Sforza. Sapeva che sua figlia poteva fare di più, essere di più e dimostrare di più di quel che faceva. Avrebbe voluto vederla più risoluta e meno attenta a mantenere la sua aura da giovane nobildonna.

L'aveva avuta accanto in tanti momenti di crisi, nel corso delle epidemie... Sapeva che era molto più coriacea e pronta di quanto apparisse, ma...

“Leggi.” le impose, porgendole la lettera.

“Dove state andando?” chiese Bianca, afferrando la missiva, ma concentrandosi sulla madre, che stava lasciando la sala delle letture.

“Ho bisogno di riflettere.” rispose sbrigativa la Leonessa, senza voltarsi.

Se avesse potuto seguire il suo istinto, avrebbe richiamato a sè con la forza Ridolfi quel giorno stesso, o, meglio, sarebbe arrivata di nascosto a Marradi e lo avrebbe punito direttamente in loco, in barba alla battaglia imperversante.

Però sentiva ancora nelle orecchie le parole di Giovanni, che la pregava di fidarsi di Simone, che le ricordava che era quanto di più vicino a una famiglia d'origine gli fosse rimasta. Lo sentiva ancora mentre le spiegava che i suoi comportamenti a volte si potevano fraintendere, ma che era animato da una sincera lealtà verso di lei e da un fraterno affetto per lui.

Andò quasi di corsa nella sala delle armi e prese la sua lancia da cinghiale, arco e frecce. Poi andò nella stalla e si fece preparare il suo stallone preferito.

Una volta in sella, sistemate le armi, attraversò il cortile e, indirizzandosi al Capitano Golfarelli, che stava risistemando alcuni attrezzi vicino al loggiato, disse: “Riferite al castellano che sto uscendo a caccia e che non so quando tornerò. Potrebbe essere anche domani.”

Golfarelli chinò appena il capo, e stava anche per chiederle qualche dettaglio in più su quell'uscita, in particolare se, visti i pericoli di quei giorni, la Contessa non volesse una scorta, ma la Tigre era già lontana.

 

Ranuccio da Marciano aveva deciso di spiegare in campo tutte le sue armi. Aveva capito, nel corso delle sue osservazioni a distanza, che i veneziani erano più facili da spaventare di quanto sembrasse e dunque, agendo secondo lo schema che si era prefissato, forse sarebbe riuscito a liberarsene molto prima del previsto.

In più, i suoi esploratori sembravano molto sicuri di quello che avevano scorto tenendo d'occhio il campo dei Serenissimi, a parte Annibale Bentivoglio, parevano essere rimasti molti pochi comandanti e, di conseguenza, molti pochi soldati.

Su quel punto Ranuccio non sapeva che pensare. Per il suo modo di ragionare, era insensato abbandonare, per i veneziani, l'assedio proprio a quel punto. Malgrado ciò, se così avevano deciso, non poteva che esserne felice.

Dato che tra quelli che avevano già voltato le spalle a Marradi pareva esserci anche il tremendo Bartolomeo d'Alviano – ogni giorno sempre più noto tra i nemici e gli amici per la sua crudeltà e la sua cattiveria in campo – Ranuccio si permetteva di essere davvero ottimista.

Facendo seguire ai pensieri le azioni, fece annunciare il suo arrivo alla rocca di Castiglione da trombe e timpani ed ebbe il piacere di vedere come, sotto l'acquerugiola ottobrina, i veneziani fossero stati colti tanto di sorpresa da non riuscire a far partire nemmeno un colpo di cannone.

 

Malgrado la voglia di sangue che l'aveva portata nei boschi, Caterina aveva passato più di due ore a vagare a vuoto senza nemmeno controllare se in giro vi fossero prede appetibili.

Il suo stallone la seguiva quasi con gentilezza nei suo vagabondare e il suono delle armi che portava attaccate alla sella le riempivano le orecchie a ogni passo del cavallo.

Il cielo era quasi del tutto oscurato da nuvole cariche di pioggia e, di quando in quando, cadeva anche qualche goccia, anche se la Sforza non se ne accorgeva nemmeno.

Stava cercando con tutta se stessa di ragionare lucidamente e di rimettere in ordine di importanza le cose. Quello che Simone Ridolfi aveva osato fare l'aveva destabilizzata molto, ma doveva ammettere con sè stessa che un'azione del genere, da uno come lui, se la sarebbe aspettata.

Se con Achille Tiberti si era sempre dimostrata anche troppo morbida, non voleva fare lo stesso con il Governatore di Imola, anche se c'erano vari fattori da prendere in esame. Prima di tutto, le raccomandazioni fatte da Giovanni, che Caterina non poteva e non voleva per nessun motivo trascurare. E poi il fatto che fosse fiorentino complicava ulteriormente la situazione.

Sapeva benissimo che Simone aveva rotto i ponti con la sua famiglia, o, se non altro, i rapporti si erano molto intiepiditi, dopo il suo viaggio con la moglie a Firenze qualche tempo addietro. Però, su questo la Tigre non aveva dubbi, se lei avesse osato alzare un dito su di lui, di certo Lorenzo Medici avrebbe convinto la Signoria a prendere delle severe misure contro di lei, perché, in fondo, si sarebbe trattato di un attacco a un cittadino della Repubblica.

La Contessa fece fermare il purosangue che, dopo aver nitrito, quasi infastidito da quel brusco freno che gli era stato imposto, cominciò a brucare la poca erba umida che stava sotto ai suoi zoccoli.

Erano in un'area della riserva di caccia che Caterina conosceva bene, ma in quel momento la sua mente era tutta altrove. Stava ragionando sul fatto che anche lei, ormai, grazie a suo marito, era una cittadina fiorentina. Avrebbe potuto, sfruttando anche il peso che stava di fatto avendo nel corso della guerra, sfruttare quell'evidenza per attirare dalla sua la Signoria e sfruttare il pubblico scandalo per avere la propria eredità. Come l'avrebbe presa, Firenze, la notizia che Lorenzo Medici, uno dei suoi cittadini più illustri, si rifiutava di concedere alla vedova di suo fratello – nonché cittadina di Firenze come lui – l'eredità che giustamente spettava a lei e al figlio?

Per un momento la convinzione di aver trovato la soluzione illuminò gli occhi verdi della donna, ma l'illusione svanì in fretta. Lorenzo aveva i soldi. Soldi che lei, purtroppo, non avrebbe mai avuto.

La Signoria, per quanto si dicesse il contrario, non era un esempio di giustizia e liberalismo, ma di corruzione e servilismo. Nessuno si sarebbe schierato con lei, probabilmente nemmeno la fazione del Fatuo.

Abbattuta, sentiva se non altro che la furia che l'aveva presa nel pensare a Ridolfi si era un pochino acquietata.

Nel frattempo stava venendo tardi e non aveva alcuna voglia di tornare alla rocca. Anche se avrebbe voluto passare un po' di tempo con Giovannino, preferiva restare da sola, anche quella notte, magari.

A Ravaldino l'attendevano solo problemi e per qualche ora voleva delegarli ad altri. Così, con un sospiro più deciso, come quando si metteva d'impegno a fare qualcosa di importante, la Sforza prese l'arco dalla sella e anche una freccia e cominciò un giro di ricognizione molto più attento e proficuo di quelli fatti fino a quel momento.

Quando ormai stava scendendo la sera, la Sforza raggiunse la Casina, con un paio di lepri legate alla sella. Sistemò con cura il cavallo nel ricovero accanto al casino di caccia, e poi si prese un momento per guardare il cielo che si scuriva. Pensò per un istante che in ottobre non cadeva solo il compleanno di Bianca, ma anche quelli di Giovanni e Livio, anche se loro due ormai non dovevano più preoccuparsi del tempo che scorreva.

Stava ricominciando a piovere. Malgrado fosse rimasta in sella quasi tutto il tempo, il bordo del suo abito era rigido di malta e si sentiva addosso un senso di umidità molto sgradevole.

Accese il camino e poi si cavò l'abito. Aveva fatto rifornire la Casina di tutto il necessario, con il chiaro intento di usarla spesso. Non voleva per nessun motivo che diventasse un mausoleo chiuso per sempre, com'era capitato al Paradiso.

La pelle orripilata per un lieve brivido di freddo, nel trovarsi con addosso solo la sottoveste, Caterina si versò un po' di vino, notando con gioia che i suoi servi avevano portato alla Casina il tipo che preferiva.

Sorbì lentamente un sorso e poi, con lentezza, prese il suo pugnale e si mise all'opera per scuoiare e preparare le lepri. Quando furono pronte per la fiamma, le mise nel camino, appese al gancio, si ripulì in fretta le mani dal sangue e si sedette sul letto.

Guardando le fiamme, ripensò inconsciamente a tutte le volte che lei e Giovanni erano stati in quella piccola casa. Passò la mano aperta sul lenzuolo, ancora sottile ed estivo, che copriva il letto stretto e un po' rustico che occupava gran parte della stanza.

Alla fine, quando la carne fu pronta, divorò le lepri come se non mangiasse da giorni. Non si era resa conto di avere tanta fame. Bevve ancora un po' di vino e poi, mentre fuori la pioggia si intensificava, si coricò e si coprì con il lenzuolo fino al mento. Affondò il viso nel cuscino e poi, scaldata dal camino, dai ricordi, e dalla cena abbastanza soddisfacente, si addormentò con la presenza di Giovanni palpabile al suo fianco.

 

Cinquanta barili d'acqua erano stati recuperati dalle piogge torrenziali di quegli ultimi giorni e così i soldati alla rocca di Castiglione avevano potuto dissetarsi senza problemi.

I soldati veneziani, invece, avevano iniziato a rompere i ranghi in massa. Le derrate alimentari erano ormai finite e i soldati di Annibale Bentivoglio lo stavano abbandonando per fame, ormai, più che per scoramento.

L'assedio alla rocca di Castiglione era stato rotto senza troppi problemi e, usciti, gli uomini della Tigre e quelli di Ranuccio da Marciano avevano anche catturato molti pezzi di artiglieria abbandonati dai Serenissimi per poter fuggire più velocemente.

Per ripicca, il Bentivoglio ordinò di radere al suolo quel poco che rimaneva di Marradi, ma aveva alle calcagna i nemici, e completare l'opera pareva molto complicato.

Quando chiamò la ritirata, sotto lo scrosciare battente dell'acqua fredda che cadeva dal cielo di quel 6 ottobre, Annibale dovette ammettere con se stesso di aver ricevuto una disfatta che difficilmente avrebbe scordato.

Simone Ridolfi tolse con un colpo secco la lama dal corpo senza vita di un veneziano che aveva appena cercato di ucciderlo. Sentì le urla di Annibale Bentivoglio e dei suoi secondi chiamare la ritirata e così, istintivamente, cercò il suo, di Capitano.

Solo che, malgrado la vittoria ormai chiara, quando con lo sguardo trovò i Sanseverino, Dionigi Naldi e Ranuccio, si rese conto di non sapere chi di loro stesse realmente comandando in quel momento.

L'unico, nel quadro di comando, che pareva andare avanti per conto suo, senza nè dare ordini nè prenderne, erano Giovanni da Casale che, ancora in quel momento, mentre i veneziani si ritiravano alla spicciolata, inseguiva a spron battuto tutti i fuggiaschi, ammazzandoli uno per uno con la punta della sua lunga lancia.

Ridolfi, assicuratosi di non avere più nemici vivi attorno, si lasciò cadere in terra, sedendosi pesante e stanco. Non aveva mai preso parte a una vera battaglia e ne era rimasto stremato.

Si levò il mezzo elmo che portava in testa e anche la calottina e si passò una mano ancora guantata di ferro tra i capelli. Li trovò impastati di sudore e sangue. Si tolse anche il guanto ferrato, per poter saggiare meglio i danni.

Aveva un piccolo taglio sulla fronte. Non ricordava come se lo fosse fatto. Sapeva solo di essere vivo e tanto gli bastava.

Mentre si metteva a ridere, sotto la pioggia, circondato da cadaveri e dalle macerie di Marradi, non si accorse nemmeno degli spintoni che i fratelli Sanseverino e Dionigi Naldi, smontati di cavallo, avevano cominciato a darsi, gridandosi contro i peggiori improperi.

 

Quando Caterina rientrò alla rocca, era già quasi sera. Era rimasta alla Casina molto più del previsto, ma era contenta di averlo fatto. Le serviva un momento di solitudine per riflettere e rimettere insieme i pezzi.

Attraversò il ponte levatoio, lasciandosi alle spalle la statua gigante e pacchiana del suo Giacomo, e arrivò al portone d'ingresso della rocca.

Lì incontrò subito il Capitano Mongardini che le disse: “Meno male che siete arrivata, mia signora... Ci sono notizie importanti da Marradi e Castiglione.”

La Sforza strinse un po' gli occhi, nel sentir nominare la rocca di Castiglione, ma senza fare domande, lasciò il cavallo a un soldato e seguì Mongradini fino allo studiolo del castellano, dove l'attendeva il messaggero arrivato poco prima dal fronte.

“Allora? Che è successo?” chiese la Tigre, non appena arrivò nella stanza.

L'uomo si inginocchiò davanti a lei e riferì: “I veneziani hanno lasciato Marradi. L'hanno distrutta, ma il passo è libero.”

Il sollievo che Caterina provò fu talmente forte che per un istante sentì le gambe farsi molli. Il ritorno alla realtà, però, fu abbastanza brusco.

“Adesso i fiorentini hanno preso pianta stabile della zona e hanno ordinato ai nostri di lasciare tanto Marradi quanto Castiglione.” continuò la staffetta.

A quelle parole, la Leonessa si irrigidì. Avrebbe voluto dire molte cose, poche delle quali lusinghiere, ma il castellano, di cui lei non si era nemmeno accorta, la bloccò prima che potesse parlare.

“L'ambasciatore di Firenze ha detto che vorrebbe vedervi il prima possibile.” riferì Cesare Feo.

“Ebbene – soffiò Caterina, sentendo che tutta la pace interiore recuperata nei boschi se n'era già andata – dite ad Andrea Pazzi che lo incontrerò a palazzo tra un'ora. Sono proprio curiosa di sentire che accidenti deve dirmi, quel maledettissimo figlio di un cane di un fiorentino.”

Il castellano deglutì, mentre la Sforza lasciava lo studiolo e poi, guardando la staffetta, che era rimasta un pochino interdetta dagli improperi estremamente volgari che la Contessa aveva aggiunto, mentre usciva in corridoio, assicurò: “Vi giuro che questa volta è stata molto gentile.”

 
   
 
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