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Autore: Adeia Di Elferas    15/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“E dunque, si può sapere che avete da dirmi?” chiese Caterina, arrivando alla presenza dell'ambasciatore di Firenze, che l'attendeva al palazzo dei Riario.

Andrea Pazzi ci mise qualche istante di troppo, prima di rispondere, perché vedere la Contessa in quello stato – tanto iraconda da avere perfino i lineamenti del viso, altrimenti bellissimi e lineari, alterati – lo aveva destabilizzato parecchio e questo ritardo portò la donna a uno scatto di rabbia.

“Parlate! Parlate, prima che vi faccia tagliare la testa e la infili su una picca!” sbottò la Tigre, fissando il diplomatico che, deglutendo a fatica, balbettò qualche parola.

Dopo un minuto abbondante, l'uomo riuscì finalmente a dire: “Vedete, Contessa, sono qui per discutere con voi di due importanti questioni di cui la Signoria mi ha chiesto di parlarvi.”

“Lasciate perdere i giri di parole e parlate chiaro, per Dio.” tagliò corto la Sforza, che, in quel momento, era tanto arrabbiata con Firenze che non avrebbe sofferto più di tanto nel saperla rasa al suolo dagli stradiotti del Doge.

Pazzi deglutì un paio di volte e poi, sistemandosi con un colpo secco il giubbetto, riprese: “Prima di tutto, Contessa, Firenze vi chiede l'arruolamento dei soldati che vi aveva chiesto, e anche di altri, in dimostrazione della vostra buona volontà nei confronti della Signoria.”

“Volete altri soldati delle mie terre?” chiese Caterina distogliendo lo sguardo dall'ambasciatore e andando alla finestra, dandogli le spalle: “Datemi altri duemila ducati, e io li trovo.”

“La vostra richiesta non piacerà alla Signoria.” l'avvertì Andrea, che cominciava a essere teso.

Non gli piaceva affatto il tono perentorio con cui la Tigre gli stava parlando, e temeva che anche quel suo atteggiamento, quel mettersi a guardare fuori, quasi che non le interessasse quello che si stava discutendo, secondo lui nascondevano qualcosa. Era come trovarsi davvero dinnanzi una belva feroce. Quella donna stava facendo finta di non dargli importanza solo per indurlo ad abbassare le difese, in modo da poter sferrare l'attacco finale.

“Sapete quanto me ne importa, di far piacere alla Signoria.” sussurrò la Sforza, sempre senza guardarlo: “Senza contare – aggiunse, a voce appena più alta, sperando che il fiorentino non si rendesse conto in fretta della falsità della sua dichiarazione – che l'ultima leva di massa, quella forzosa, l'ho fatta proprio per compiacere la vostra dannata Repubblica.”

La Contessa si passò con forza una mano sulla fronte. Se non fosse stato per Giovanni e per la sicurezza che aveva cercato di dare a lei e ai suoi figli, la Leonessa in quel momento si sarebbe sentita pronta a schierarsi contro Firenze e contro Venezia, e pure contro Milano. Era stufa marcia di sentirsi tirare le sottane da questo e da quello, tutti che la cercavano solo per paura di averla contro e con la speranza di poterla sfruttare.

Fece un respiro profondo e poi, voltandosi di nuovo verso Pazzi, chiese: “E a parte questa pretesa, che altro vuole Firenze da me?”

“La seconda questione – disse subito Pazzi, mentre la stoffa della camicia gli si incollava alla schiena, per il sudore freddo – è la vostra astensione dall'avanzare pretese su Marradi e Castiglione.”

Caterina puntò gli occhi verdi in quelli un po' spauriti dell'ambasciatore e poi, sorprendendolo, fece una risata un po' amara: “Non perdete tempo, vero? Appena saputa della vittoria, avete avuto l'ordine di riferirmi questa decisione della Signoria. Quella rocca e quella via sono libere grazie ai miei uomini!”

“Mi spiace contraddirvi.” fece Pazzi, raddrizzando appena le spalle, facendosi forte dei fatti: “Ma sia il paese, sia la rocca sono stati liberati grazie a Ranuccio da Marciano, non ai vostri uomini.”

“Senza i miei soldati, senza il mio intervento immediato, sarebbero caduti entrambi nelle mani dei veneziani il giorno stesso in cui il primo di loro ha messo piede a Marradi!” si infervorò la Tigre, facendo un passo avanti che si tradusse in un immediato passo indietro del fiorentino.

“Ricordatevi che siete anche voi cittadina di Firenze, ormai.” fece Pazzi, la voce ferma, malgrado la sua espressione facesse capire quanto fosse impaurito dalla sua interlocutrice: “In cambio della cittadinanza, voi dovete rispettare il volere della Repubblica, come qualunque altro fiorentino.”

Caterina si sentì sull'orlo di un'azione spropositata. Sentiva il pugnale premere contro la gamba e sapeva che sarebbe riuscita a estrarlo e usarlo per tagliare la gola a Pazzi prima ancora che quest'ultimo d'avvedesse dei suoi movimenti.

Tuttavia, era come se una mano invisibile la stesse bloccando. Era come se Giovanni, con la sua ferma calma e la sua capacità di ragionamento a freddo, la stesse tenendo ferma.

Stringendo i denti, la Contessa mandò giù un po' di saliva, a fatica, e poi concluse, sentendo uno spillo in gola a ogni parola: “Come volete. Teneteveli. Non mi interessano, nè la rocca, nè il cumulo di macerie che è diventata Marradi.”

Pazzi accennò un sorriso, ma a quel punto, avendo avuto la meglio su due punti, temeva a esporre il terzo, perché aveva capito fin dal suo primo giorno a Forlì che se c'era un argomento su cui la Sforza era realmente intrattabile, quello era il suo defunto marito, Giovanni Medici.

“Avete altro da dire? Avanti, non fatemi perdere tempo.” fece la Contessa, guardando nervosamente il salone spoglio in cui si erano incontrati.

Non le piaceva cedere, ma sapeva di aver fatto la cosa giusta. Era come un nano in mezzo ai giganti. Se non voleva essere schiacciata troppo presto, era costretta a cedere loro il passo, di quando in quando.

“Ecco, l'ultima cosa che devo chiedervi è più... Personale, diciamo.” si arrischiò a dire Andrea, tormentandosi le mani.

Caterina comprese subito che dovesse c'entrare suo cognato, Lorenzo. Perciò si fece seria, il viso illuminato di nuovo dalla luce battagliera che l'aveva animata all'inizio dell'incontro.

“Messer Lorenzo Medici – espose Pazzi, guardando in terra – vi chiede nuovamente di far recapitare presso il suo palazzo gli effetti personali di suo fratello. Specialmente i libri e gli indumenti, giacché sono di grande valore e teme che...”

“Teme che?” lo incalzò la donna, dato che il diplomatico pareva essersi accorto di aver parlato troppo.

Pazzi si maledisse per la sua scarsa attenzione. L'agitazione gli aveva fatto dimenticare per un istante l'importanza di non dire troppo. Cercò di rimangiarsi quelle due parole in eccesso, ma nelle iridi accese della donna c'era un bagliore che lo mise alle strette.

Aveva sentito troppe cose su di lei per riuscire a stare tranquillo e fare la voce grossa. Sapeva che quella strana donna sarebbe stata capace di ucciderlo lì, su due piedi, e senza un motivo troppo valido, infischiandosene delle regole della diplomazia e del buoncostume.

Perciò, dicendosi che era meglio essere un ambasciatore inaffidabile vivo, piuttosto che un ambasciatore irreprensibile morto, vuotò il sacco: “Messer Medici teme che voi li vogliate rivendere per finanziare i vostri vizi e i vostri eccessi.”

Le mani della Sforza corsero con tanta rapidità al colletto del giubbetto del fiorentino che questi si sentì quasi mancare. Fissandolo negli occhi, la donna lo strattonò con violenza, mostrando i denti.

“Dite a Messer Medici che non avrà nulla, nemmeno un laccio da manica o un angolo di una pagina. Le cose di mio marito restano con me in questa rocca.” sibilò, con tono minaccioso, le labbra a pochi millimetri dal volto dell'ambasciatore: “Se proprio me li vuole portare via, abbia il coraggio di venire qui di persona, invece di schermarsi dietro a inutili burattini come voi.”

La Tigre lasciò andare l'uomo di scatto e questi barcollò, restando in piedi per puro caso.

“C'è dell'altro?” chiese Caterina, quasi ringhiando.

“No, no... Null'altro.” gracchiò Andrea Pazzi, sistemandosi impacciato l'abito sgualcito.

“E allora levatevi dai piedi.” fece la donna, passandogli accanto, dandogli una spallata tutt'altro che involontaria: “Dedicatevi alle vostre carte e ai vostri pettegolezzi da cortigiana. A differenza del vostro padrone, ho una guerra a cui pensare, io.”

 

Alessandro VI guardava in silenzio la figlia che, dopo aver salutato il marito, la cui attenzione era stata richiamata da alcuni suoi segretari, si stava ricongiungendo con le sue dame di compagnia.

I giardini vaticani erano spazzati da un'aria fredda e dal sapore autunnale. Si diceva che in molte parti d'Italia le piogge stessero battendo senza tregua da giorni, ma su Roma l'unico segno dell'estate ormai passata erano le temperature più basse e il vento, che si alzava dalle colline riversandosi sulla città soprattutto verso sera.

Il papa, avvolto nel suo scialle bordato di pelliccia, forse eccessivo, per quell'ottobre, distolse un momento lo sguardo da Lucrecia e lasciò che le voci della giovane e delle sue amiche si confondesse con il soffio incessante del vento.

Anche se gli dava molto fastidio vedere sua figlia così dipendente dal giovane Aragona – tanto che, per stare sola con lui disertava anche cene e appuntamenti importanti – aveva sperato se non altro che restasse incinta in fretta, in modo da consolidare l'appoggio napoletano e con esso anche quello spagnolo.

Cesare era partito il primo giorno di ottobre per la Francia, per andare a sposare Carlotta d'Aragona, che, secondo i calcoli di tutti, era l'autentica e unica vera erede di Federico I di Napoli.

Con quell'unione, Rodrigo aveva un piano preciso da portare avanti. Una volta che suo figlio avesse impalmato l'Aragona, allora i Borja avrebbero potuto reclamare per sè il regno di Napoli e con esso avrebbero finalmente avuto i mezzi e le forze per contrastare tanto Milano, quanto l'Impero.

Il re di Francia, ormai, per sdebitarsi con il papa dei favori concessi, avrebbe dovuto per forza assecondare le sue mire. Le sottili trattative che Alessandro VI e Luigi XII portavano avanti ormai da mesi erano chiare a entrambi. La Francia avrebbe avuto il nord Italia, sui cui il re avanzava pretese da anni, e i Borja tutto il resto.

Dunque, che Lucrecia avesse un figlio da Alfonso, consolidando l'unione tra i Borja e gli Aragona era di vitale importanza. Senza, nel vedersi togliere Napoli da Cesare, gli Aragona superstiti avrebbero potuto ribellarsi. Con un figlio di Alfonso dal sangue per metà borgiano, invece, sarebbe stato più complicato, per loro, togliersi dal gioco vaticano.

Il papa allacciò le mani dietro la schiena e tornò a guardare la figlia che si allontanava lungo le serpiginose viuzze dei giardini. Sembrava serena, felice, perfino.

Rodrigo strinse i denti e guardò un momento in cielo, per sincerarsi che fosse ancora sgombro da nuvole.

Gli sembrava quasi assurdo, sentendola ridere e vedendola così accesa di vita, pensare che quella stessa giovane donna che si dichiarava pazza d'amore per il marito avesse lasciato pochi mesi prima un neonato alle cure delle suore. A volte, pensare che Lucrecia avesse già partorito un figlio, faceva girare la testa a Rodrigo. Gli sembrava così assurdo, sapere che sua figlia era già madre...

Con un sospiro un po' spezzato, l'uomo continuò la sua passeggiata, sotto il sole freddo e distante del pomeriggio. Fosse dipeso da lui, si sarebbe fatto tutto q uanto in fretta, e invece doveva aspettare.

Aspettare che Cesare si sposasse e che entrasse nelle grazie del re di Francia. Aspettare che sua figlia rimasse di nuovo incinta, ma questa volta del suo marito legittimo. Aspettare che Firenze e Venezia smettessero di accapigliarsi come bambini...

“Roma non è stata costruita in un giorno.” sussurrò tra sè, guardandosi la punta delle scarpe rosse mentre a ogni passo scalciava il sottanone da papa che, in tutta sincerità, cominciava a risultargli un po' scomodo.

 

Caterina era appena tornata dal Quartiere Militare, quando, attraversando il primo cortile della rocca, si imbatté con Bernardino, che stava correndo verso il portone.

Fermandolo, visto che appariva molto agitato, gli chiese che fosse successo. Il bambino la fissò per un lungo istante e poi borbottò qualcosa che aveva a che fare con Cesare.

“Che ti ha detto, tuo fratello?” chiese la Contessa, che già era arrabbiata per altri motivi.

Al quartiere era scoppiata una piccola rissa tra le nuove reclute e alcuni dei soldati che ormai militavano nel suo esercito da mesi se non da anni. La questione principale stava nel fatto che i primi erano ancora riottosi all'idea di essere diventati parte della macchina da guerra dello Stato, i secondi, invece, si erano risentiti nello scoprire che le nuove leve coatte avrebbero percepito il loro stesso salario.

Nemmeno Mongardini e Golfarelli erano riusciti a riottenere l'ordine e così avevano chiesto alla Tigre di occuparsene di persona.

Come era successo altre volte in passato, la donna aveva dimostrato fin da subito di sapere come rivolgersi alle truppe e, senza che vi fosse bisogno di elargire punizioni, era riuscita a tranquillizzare tutti, smussando gli angoli e calmando gli animi.

Tuttavia quel piccolo focolaio l'aveva messa di pessimo umore. Sapeva che sarebbe stato un errore e anche abbastanza grosso reclutare con la forza nuovi soldati. La disciplina ferrea e l'affidabilità del suo esercito fino a quel momento si erano basate proprio sulla volontarietà della firma, mentre in quel modo stava venendo meno quel peculiare aspetto organizzativo.

“Cesare non è mio fratello.” disse piano Bernardino, gli occhi che minacciavano di riempirsi di lacrime di rabbia.

“Non devi dire così.” lo riprese Caterina, tenendolo fermo per un braccio, temendo che il bambino potesse scapparle da un momento all'altro.

Non aveva alcuna voglia, quella mattina, di occuparsi di quel genere di cose, ma aveva promesso a Giovanni di vigilare anche su Bernardino come meglio poteva e quindi non voleva far finta di niente.

“Lui ha ucciso mio padre.” si oppose il bambino, senza guardarla più, le labbra attraversate da un leggero fremito: “E poi è stato lui a dirmi che non siamo fratelli.”

“E quindi tu adesso cosa vorresti fare? Scappare?” chiese la Sforza, mettendosi in ginocchio per poter avere il viso alla stessa altezza di quello del figlio.

I tratti bellissimi del volto di Bernardino erano tesi, e ormai era chiaro che il pianto fosse vicino.

Caterina allora si indurì, rivendendo il lato di Giacomo che non aveva mai sopportato riaffiorare anche in suo figlio. Sapeva che il bambino era troppo piccolo, per essere forte quanto lo voleva lei, ma non riuscì a controllarsi.

Dandogli uno scrollone gli intimò: “Non piangere. Sei mio figlio. Sarai un uomo. Non devi piangere per queste cose. Devi essere forte. Non devi scappare. Devi affrontare quello che la vita di mette davanti.”

Bernardino, a quel punto, la guardò per un breve istante e poi cercò di sfuggirle, ma la presa della madre era troppo forte, per lui.

“Non ti permetterò di andare in paese a picchiarti con i tuoi amici.” lo redarguì la Contessa, rimettendosi in piedi, ma senza lasciarlo: “D'ora in poi, quando vorrai uscire, dovrai farlo accompagnato.”

Il bambino non osò dire altro e seguì la madre fin dentro alle viscere della rocca, vergognandosi nel vedere come i soldati che incontravano li fissavano interrogativi.

“Devi studiare.” disse la Leonessa, quando furono vicini alla sala delle letture, dove, a quell'ora, anche Galeazzo era con il suo precettore: “Hai otto anni e fai ancora fatica a scrivere. Non va bene, non va per niente bene. Devi impegnarti di più.”

'O resterai un mezzo analfabeta come tuo padre' pensò tra sè Caterina, riuscendo, per fortuna, a frenarsi prima di dirlo ad alta voce.

“Giovanni avrebbe voluto vederti istruito, capito?” preferì invece dire: “Lui credeva molto in te, non deluderlo.”

Quelle parole parvero avere un effetto immediato sul bambino che, deglutendo, si passò il dorso di una mano sulle guance rosse e roventi, e poi annuì piano.

A quel punto, allora, la Tigre aprì la porta della sala delle letture e disse al precettore che anche Bernardino si sarebbe unito alla lezione.

L'uomo annuì senza fare una piega e Galeazzo, che stava ragionando su un quesito matematico, sorrise al fratello minore e gli fece segno di andarsi a sedere accanto a lui.

Abbastanza rincuorata dal calore che almeno Galeazzo sembrava sempre propenso a offrire a Bernardino, Caterina tornò ai suoi impegni.

“C'è una cosa di cui dobbiamo discutere, mia signora.” le annunciò Luffo Numai, con gravità, quando la incontrò nel corridoio.

“Questione di guerra?” chiese la donna.

Il Consigliere annuì: “Credo sia meglio organizzare un piccolo Consiglio di guerra per discutere di alcune faccende.”

“Va bene...” soffiò la Leonessa, senza osare chiedere prima di che si trattasse: “Allora organizzate una riunione tra massimo mezz'ora nella sala della guerra.”

Mentre Luffo si allontanava per andare a cercare gli altri membri del Consiglio ristretto della Sforza, Caterina intravide Cesare spuntare dalla tromba delle scale.

Il ragazzo, quando si avvide della presenza della madre, cercò di tornare sui suoi passi, ma la Sforza l'aveva già raggiunto e lo aveva afferrato con violenza per la collottola del suo abito da prete.

“Si può sapere che ti passa per la testa?” gli disse, all'orecchio.

Non voleva dare spettacolo e anche se nel corridoio stavano passando solo un paio di guardie che dovevano andare sui camminamenti a dare il cambio alla ronda, la Tigre preferiva che nessuno a parte suo figlio sentisse le sue parole.

“Io non... Non capisco...” farfugliò Cesare, sollevando le mani ossute, come a dichiararsi innocente anche con i gesti.

“Tu capisci benissimo, invece.” l'attaccò Caterina, tenendo il naso a pochi millimetri da quello lungo e sottile del figlio.

Adesso che era ormai un uomo, assomigliava in modo impressionante a Raffaele Sansoni Riario. O, almeno, a come se lo ricordava la Contessa. L'unica differenza tangibile tra loro stava nell'atteggiamento. Raffaele aveva sempre avuto un fondo di profonda codardia e viscido servilismo, mentre Cesare aveva un guizzo più arrogante, quasi temerario. In tutta onestà, la Tigre avrebbe preferito non rivedere quel briciolo di sangue sforzesco nel figlio.

“Ti sembra il caso di dire certe cose a tuo fratello?” gli domandò, stringendogli il bavero con più forza.

Si rendeva conto che quel modo di comportarsi, sia con l'ambasciatore fiorentino qualche giorno prima, sia ora con suo figlio, non era certo il migliore, ma non poteva trattenersi. Facendo così, se non altro, riusciva a evitarsi atteggiamenti molto più sconvenienti. E in più, tanto, ormai la nomina di violenta l'aveva già. Che chiacchierassero pure di lei, non gliene importava più molto.

“Lui non è mio fratello.” si ostinò Cesare, fissandola con aria di sfida, una mano che correva al crocifisso che portava al collo.

Caterina strinse i denti e poi gli sussurrò, dando voce a un pensiero che da un po' si era fatto strada nella sua mente: “Scriverò a nostro cugino, a Roma. Credo sia tempo, per te, di andartene da Forlì.”

Il ragazzo si ammutolì per qualche istante e poi, sporgendo in fuori il mento, convenne: “Lo credo anche io, madre.”

La donna, a quel punto, lo lasciò andare e si ritirò per qualche tempo nella sua camera. Sapeva che Raffaele già provvedeva agli studi e, in fondo, al sostentamento di Cesare, ma era giunto il momento di ricordargli tutti gli impegni che si era preso nei confronti del cugino.

Così gli scrisse in modo abbastanza chiaro, sottolineando, tanto per accelerare la questione, come il giovane fosse fuori posto, in una corte grezza e poco spirituale quale quella di Ravaldino e che, in più, fosse in pericolo, giacché Forlì minacciava di diventare presto scenario di guerra e dunque non un posto adatto a un uomo di Chiesa.

Finita la missiva, la Contessa la sistemò sulla scrivania, ma attese a chiuderla. Voleva rileggerla più tardi, a mente fredda, per rendersi conto di eventuali errori strategici nel rivolgersi al cugino del suo primo marito.

Appena uscì dalla camera, per andare alla riunione del Consiglio di guerra, si imbatté nel castellano che le porse una lettera: “Questa è rivolta a voi personalmente. Credo che vogliate leggerla, prima di iniziare la riunione...”

Caterina non capì subito perché l'uomo le stesse parlando con tono tanto mesto, ma quando Cesare Feo aggiunse: “Si tratta di un messaggio da parte di Giovanni da Casale.” la Leonessa intuì i suoi pensieri.

Ritornando in camera, ringraziò il castellano e aprì subito il messaggio. L'uomo la informava senza troppi giri di parole di come i fiorentini avessero preso Castiglione e Marradi cacciando quasi di forza le truppe milanesi e quelle forlivesi. Le scriveva anche che Simone Ridolfi era tornato in fretta a Imola e che Dionigi Naldi aveva risposto a un appello di Ottaviano Manfredi, su ordine indiretto di Firenze, e lo stava raggiungendo a Brisighella. Aggiungeva anche che dei Sanseverino non aveva notizie precise, ma sapeva per certo che avessero ottenuto ordini da Milano.

Concludeva mettendola a parte del fatto che l'artiglieria abbandonata dai veneziani durante la fuga era stata requisita dai fiorentini, ma che lui era riuscito a tenerne parte per sè e, se lei fosse stata d'accordo, l'avrebbe portata subito a Forlì.

Concludeva dicendo che si stava incamminando verso la città della Contessa, ma che se fosse stato raggiunto da un qualsiasi altro suo ordine, non avrebbe esitato un solo istante a servirla come il più fedele dei sudditi.

'Sempre vostro', aveva aggiunto alla firma, dopo l'ultima stringata, seppur chiara dichiarazione di fedeltà.

Mentre leggeva le parole scritte da Pirovano, Caterina non pensava solo ai fatti che le venivano riferiti. Malgrado la notizia dello sfaldamento degli uomini che aveva mandato a Marradi l'avesse scossa, c'erano altri punti, in quella lettera, ad averla colpita.

Primo fra tutti, il fatto che Giovanni da Casale non avesse seguito i Sanseverino, che, di fatto, erano i suoi superiori, e che avesse tenuto per sè dei pezzi d'artiglieria, invece che cederli all'esercito milanese, di cui faceva parte.

E poi c'era il modo in cui aveva chiuso la missiva...

La Tigre sospirò. Ricordava benissimo la sera in cui aveva ceduto alla tentazione di farlo suo e non poteva evitare di ripensarci, ora che aveva tra le mani la sua lettera.

Chiuse un momento gli occhi e si ravviò i capelli ormai quasi del tutto bianchi. Buttò all'indietro la testa e cercò di liberare la mente. Doveva prendere solo gli aspetti politici e militari, di quella missiva, null'altro.

Ripetendo tra sè le informazioni che Pirovano le aveva dato, lasciò il foglio sulla scrivania, accanto a quello destinato a Raffaele, e uscì di nuovo dalla sua stanza, dirigendosi alla sala della guerra.

Quando arrivò, trovò tutti i suoi Consiglieri in silenzio. Tutti sapevano quanto detestasse che le discussioni cominciassero senza di lei e quindi nessuno aveva osato contravvenire a quella regola non scritta.

Andando alla mappa italiana che stava stesa sul tavolo nel centro della sala, la Sforza chiese ai suoi Capitani di sistemare i segnalini delle varie potenze in gioco e poi chiese: “Quali sono queste novità di cui dobbiamo discutere?”

“Pare che Paolo Vitelli sia riuscito a forzare il blocco veneziano e abbia preso Ripafratta. Si pensa che prenderà Pisa molto presto.” spiegò Luffo Numai.

Caterina rimase in silenzio, fissando la mappa, tutti gli uomini presenti muti in attesa di una sua reazione.

Quando infine sollevò lo sguardo, fissò Numai con un'espressione indecifrabile e chiese: “C'è altro?”

“Ecco, pare che il Doge sia impensierito dalla nuova leva messa in atto e i nostri esploratori hanno visto più di uno squadrone di cavalieri e di stradiotti dirigersi verso il ravennate.” prese la parola l'Oliva: “E pensiamo che vogliano usarli per attaccarci o, quanto meno, per metterci pressione.”

La Tigre si premette la punta delle dita sugli occhi. Si era aspettata qualcosa di simile. E adesso che Milano stava già prendendo informalmente le distanze da lei e Firenze si stava concentrando su Pisa, difficilmente qualcuno avrebbe avuto modo e voglia di correre in suo soccorso.

“Numai.” chiamò la donna, indicando il Consigliere anziano: “Potete combinarmi un incontro con un portavoce di Venezia?”

L'uomo parve perplesso, ma confermò: “Certo, mia signora.”

“E allora provvedete. Il prima possibile, mi raccomando.” fece la Leonessa, tornando poi a guardare la mappa: “E ora ragguagliatemi sulla situazione delle nostre truppe.”

Mentre i vari Capitani esponevano piazzamenti ed elencavano le armi e i foraggiamenti necessari per le varie colonne di armigeri, Luffo Numai prendeva appunti e di quando in quando osservava la sua signora.

Pareva attenta, le labbra strette in una linea severa, tuttavia era chiaro che qualcosa la stava assillando. L'uomo, però, non riusciva a capire se si trattasse di un tormento politico o di un tormento umano. Forse, visto com'era la Tigre, si trattava di entrambe le cose mescolate assieme.

Quella donna, per lui, restava ancora un grande mistero. Già il fatto che tutti quegli uomini fossero lì a prendere ordini da lei senza fiatare e senza trovare la cosa assurda era di per sè un unicum.

Luffo, per quanto stimasse sinceramente la Contessa, a volte non si capacitava della sua capacità di mantenere il comando e il potere malgrado tutto. Quella donna, sola e osteggiata da molti, era riuscita a spaventare tutta la Romagna, anni addietro e, Numai ne era certo, avrebbe potuto spaventare l'Italia intera, se solo avesse voluto.

Era cauta, però, in quei giorni, molto più di quanto non fosse mai stata. E Luffo immaginava che fosse per proteggere i suoi figli. Nonostante tutto, la Leonessa li voleva proteggere e per farlo doveva stare a attenta a non bruciarsi. E così aspettava, meditava e ragionava.

L'attesa, però, secondo il Consigliere, poteva dimostrarsi un'amara compagna. Ci voleva sicurezza nell'agire, non solo prudenza.

“E allora manderò Giovanni da Casale a Modigliana.” sentì dire dalla Tigre, a un certo punto: “E ci scontreremo con i veneziani lì.”

Non nascondendo un piccolo sorriso, Luffo finalmente riconobbe nella risolutezza della sua voce la donna che era stata capace con la sua sola presenza di placare interi eserciti.

Forse ci voleva davvero un po' di pazienza, per vincere quella partita a scacchi con il Doge e con la Signoria, ma, come recitava l'antico adagio, Roma non venne costruita in un giorno.

 
   
 
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