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Autore: Adeia Di Elferas    19/07/2018    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Simone rintuzzò il fuoco nel camino e poi restò qualche istante appoggiato al cornicione di pietra, gli occhi fissi sulla fiamma viva.

Lucrezia, alle sue spalle, non diceva nulla. Suo marito era tornato da poco dal fronte e aveva incrociato solo di sfuggita Ottaviano Manfredi, e pareva essersi già fatto un'idea molto chiara della situazione.

Si era detto abbastanza ottimista, a riguardo del destino dello Stato della Tigre, anche se non si fidava troppo del faentino esule. Era vero che quell'uomo voleva riprendersi Faenza e che quindi avrebbe fatto di tutto per eliminare Astorre, ma Ridolfi credeva impossibile che una volta riuscito nel suo intento si accontentasse di una striscia di terra, e non dell'intera porzione di di territorio che da Imola scendeva fino a Forlì.

Tuttavia quelli erano problemi secondari, per lui, in quel momento. Anche se a Marradi la situazione si era risolta in loro favore, Simone temeva la reazione violenta della Sforza nei suoi confronti.

Aveva subito chiesto a Lucrezia se per caso, durante la sua assenza, fossero arrivati messi o lettere della Contessa o dei suoi Consiglieri, ma quando la donna aveva negato, il fiorentino non si era comunque sentito più tranquillo.

La notte era trascorsa tranquilla. Ridolfi era tanto stanco che, dopo aver mangiato, si era steso a letto, con la moglie accanto, e, dopo averle raccontato qualche breve episodio delle battaglie a cui aveva preso parte – le prime vere battaglie della sua vita – si era addormentato come un sasso.

“Hai paura?” chiese a bassa voce Lucrezia, arrivandogli alle spalle.

Il Governatore di Imola finalmente distolse lo sguardo dal camino. Gli ci volle un po', prima che i suoi occhi dimenticassero il bagliore accecante del fuoco, ma quando si voltò verso la moglie, la sua bellezza lo colse in pieno, come un pugno allo stomaco.

Ci aveva pensato troppo tardi. Facendo come aveva fatto, aveva messo automaticamente in pericolo anche lei. La Tigre, lo si sapeva, era una donna dura e inflessibile e in passato non si era fatta troppi scrupoli nel punire anche innocenti e donne.

“Perdonami, Lucrezia.” sussurrò l'uomo, trattenendo il fiato, quando la Feo lo strinse a sè nell'abbraccio più dolce che gli avesse mai concesso da che si conoscevano.

“Non dire così.” tentò di tranquillizzarlo lei: “Se la Contessa non ha ancora fatto nulla contro di te, magari è perché ha in fondo approvato quello che hai fatto.”

“Non mi darà una medaglia per aver agito senza informarla.” commentò Simone a denti stretti, mentre affondava il viso nei lunghi capelli neri della moglie.

“Ma magari nemmeno di ucciderà.” provò lei.

“La Tigre non dimentica i torti subiti.” si ostinò Ridolfi, tenendosi stretta Lucrezia come se fosse la cosa più preziosa del mondo: “E non perdona.”

“Tu continua a fare bene il tuo lavoro.” si risolse infine a dire la donna, il volto premuto contro la sua spalla: “Quello che succederà, succederà e lo affronteremo insieme.”

Simone annuì piano e poi, dopo un istante infinito, si scostò appena da Lucrezia e le disse: “Non mi hai ancora parlato dei giorni in cui ero via. È successo qualcosa di importante?”

“A parte la leva forzosa di cui ti ho già parlato, nulla.” confermò lei, accarezzandogli il viso coperto dalla spessa barba rossiccia.

“Hai... Hai incontrato i nostri fittavoli?” chiese Simone, con un'esitazione straziante, senza osare sollevare lo sguardo.

“No.” fece subito Lucrezia, ma poi aggiunse, come a smorzare la forza di quella dichiarazione che per entrambi aveva un senso molto più profondo di quanto potesse sembrare: “La Tigre ha messo sotto le armi quasi tutti i nostri contadini. Non avevo nulla da dire, né da fare con i nostri fittavoli.”

Ridolfi riabbracciò di nuovo la moglie e le sussurrò: “Se è così, sono felice che la Sforza abbia bisogno di così tanti soldati.”

“Sì, anche io.” convenne la Feo, lasciandosi andare a un sorriso liberatorio.

 

Annibale Bentivoglio – incattivito dalla brutta sconfitta a Marradi e Castiglione – aveva ripiegato molto in fretta a Modigliana e così Caterina si era vista costretta a mandarvi non solo Giovanni da Casale, ma anche Lando Golfarelli, Annibale Ettore, Perosino e Pier Simone Albanese, affidando loro il compito di respingere i veneziani quanto più possibile, anche a costo di arrivare allo stremo delle forze.

La situazione si stava facendo complicata, molto più del previsto, e per il momento i Serenissimi stavano anche prendendo tempo, non fissando l'incontro tra la Contessa e un loro emissario. Era chiaro a tutti, a Forlì, che quella mossa servisse solo a dare tempo alle truppe del Doge per ammassarsi sempre di più tra Rimini e Ravenna, con il patrocinio e il silenzio di Pandolfo Malatesta e l'appoggio di Antonio Maria Ordelaffi.

A malincuore, quando Luffo Numai aveva fatto presente alla Tigre che il confine si stava facendo turbolento e che sarebbe stato meglio spostare Ottaviano in città e mandare qualcuno di più abile a controllare i territori più a rischio, Caterina aveva accettato di richiamare a sè il figlio, non fidandosi a dargli incarichi di altra natura, e accettando di sopportarne la presenza, in beneficio del suo Stato.

“E quindi che intenderebbero fare?” chiese la Sforza, allargando un braccio e tenendo Giovannino solo l'altro: “Sostituirmi con Antonio Maria Ordelaffi?”

Numai l'aveva raggiunta da poco, unendosi al castellano e all'Oliva, per discutere un momento degli ultimi risvolti della situazione.

Siccome la Contessa non aveva voluto lasciare la camera in cui l'avevano trovata, i tre uomini erano stati costretti a mettersi a parlare di guerra nella stanza del piccolo Giovannino, in presenza, tra l'altro, anche di Bianca e di Bernardino.

Se la prima faceva finta di non ascoltare, continuando il suo lavoro di ricamo su uno dei vestitini del fratello più piccolo, il secondo teneva invece gli occhi sgranati, puntati ora sull'uno ora sull'altro, come se avesse una paura folle di tutto quello che stavano dicendo.

“Sì, mia signora.” confermò l'Oliva, piatto: “Temo sia proprio il piano dei veneziani.”

“Mettendo l'Ordelaffi sul vostro trono – convenne Luffo – di certo avrebbero uno Stato alleato e con un padrone completamente succube delle loro decisioni.”

Bernardino sembrava quasi trattenere il fiato, i grandi occhi fissi sulla madre che, per quanto cercasse di concentrarsi su Giovannino, che se ne stava tranquillo appoggiato al suo petto, quasi in procinto di addormentarsi, non riuscì a evitare di notare la reazione spaventata del suo penultimo figlio. Come sempre, nel vederlo così agitato, malgrado si rendesse conto che sarebbe stato davvero troppo pretendere maggior freddezza da parte di un bambino della sua età, Caterina non riuscì a evitare un moto di stizza.

Avvicinandosi a Bianca, la fece capire di prendere Giovannino e così, mentre la ragazza tendeva le mani per farsi dare il fratellino, la Contessa agitò una mano in aria e, con un tono che non ammetteva repliche, disse: “Nessuno può portarmi via di qui.”

Non controllò subito se per caso Bernardino si fosse rincuorato nel sentirla parlare a quel modo, ma preferì mettersi a squadrare il breve orizzonte che si poteva vedere dalla finestra.

Si era alzata una nebbia fitta e gelida e se di norma da lì si poteva vedere a distanza di parecchie centinaia di metri, quel giorno non si scorgeva altro se non un muro di grigio vapore condensato.

“Resta il fatto – si azzardò a dire Luffo Numai, con cautela – che i veneziani credono che voi abbiate reclutato forzatamente ottomila uomini e non solo quattromila. Le notizie che sono arrivate loro sono state frammentarie e...”

“Ebbene – lo interruppe la Sforza, tornando a guardare i figli e poi i Consiglieri presenti – se pensano che io abbia un esercito doppio rispetto a quel che ho, meglio così.”

“Ma per loro a questo punto risultate un problema vero, pur non rappresentando una reale minaccia.” le fece notare l'Oliva

Bernardino si stava mordendo il labbro e anche Bianca, che pur fino a quel momento aveva finto indifferenza, fissava con ansia la madre da sopra la testa di Giovannino.

La Tigre si grattò il mento. Capiva benissimo quel che intendeva dire l'Oliva. Se il Doge si era convinto del fatto che lei aveva al suo servizio poco meno di diecimila uomini, era probabile che non la ritenesse impossibile da battere, ma comunque un fastidio in più sulla strada verso Firenze.

Se pensandola meno potente era stato più logico stuzzicarla e basta, senza provare ad annientarla, adesso che iniziava ad avere forza più consistenti, la stessa rigorosa logica imponeva ai Serenissima di stroncarla sul nascere, prima che potesse diventare ancora più pericolosa.

“Sbrigatevi a farmi avere quel colloquio con un portavoce veneziano.” fece la Contessa, indirizzandosi all'Oliva: “Per il resto, vedrò io come cavarmela. Ora scusate, ma ho da fare.”

Gli uomini si esibirono in un mezzo inchino alla loro signora e Bianca piegò appena le ginocchia, sempre tenendosi stretta Giovannino, mentre Bernardino restava quasi pietrificato al suo posto, la paura ben visibile negli occhi grandi e caldi, tanto simili a quelli di suo padre che Caterina non ebbe la forza di specchiarvisi dentro una volta di più, prima di andarsene.

Appena ebbe lasciato la stanza alle sue spalle, la donna, incurante della nebbia, si prese un mantello pesante e il suo stallone preferito e lasciò la rocca. Non aveva con sè armi, nè intenzione di cacciare.

Si limitò a fare una lunga cavalcata nei boschi, sperando che la sua bestia sapesse condurla anche con quella scarsissima visibilità, e poi, quando tornò a Ravaldino, a sera ormai fatta, cercò del vino e la compagnia di un soldato scelto tra le reclute appena arrivate alla rocca, e, giunto il mattino, si rese conto di aver già deciso cosa fare.

 

“Sollevare Brisighella...” soppesò Dionigi Naldi, che pure era arrivato nei pressi di Imola con la certezza di chi ha accettato l'incarico migliore del mondo.

“Pensate che non funzionerà?” chiese Ottaviano Manfredi, smettendo per un momento di guardare l'orizzonte e fissando il Capitano.

Il cielo era grigio, ma aveva smesso di piovere. Dal terreno, soprattutto lì, in aperta campagna, si sollevavano lente e inesorabili delle dense lingue di nebbia spessa e gelida e Naldi cominciava a sentire le ossa scricchiolare.

Scampato alla confusione di Marradi, l'uomo stava già rivalutando la vita del tempo di pace e infilarsi subito in un'altra impresa gli faceva stringere lo stomaco.

“Che diamine, Naldi...” soffiò Ottaviano Manfredi, una mano sul fianco e una a ravviarsi i lunghi capelli biondi, mentre i suoi occhi azzurri indagavano Dionigi – che aveva quasi il doppio della sua età – con un'espressione delusa: “Scommetto che la Tigre vi perdonerebbe, se mi seguiste a Brisighella.”

Il luogo in cui si erano incontrati, vicino al campo temporaneo che il Capitano aveva fatto allestire dai pochi soldati che lo avevano seguito dopo l'ultima battaglia, era solitario e silenzioso e le ultime parole di Manfredi risuonarono nelle orecchie di Naldi come una minaccia, più che come un consiglio.

“È con Milano e Firenze che se la dovrebbe prendere, la Tigre. Non con me.” precisò l'uomo, salvo poi sollevare lo sguardo verso il giovane che aveva dinnanzi e, stringendo le spalle contro l'umidità e il freddo, chiese: “Ma è vero che il Fracassa sta raggiungendo Giovanni da Casale a Modigliana?”

Ottaviano ci mise un po' a rispondere, ma poi ammise: “Sì, sta andando là.”

“Andiamo anche noi là.” propose a quel punto Naldi, ravvivandosi un po'.

Manfredi sbuffò e tornò al cavallo che aveva legato a uno dei pochi alberi che avevano vicini: “Se proprio volete andare là, fatelo. Ma vi ricordo che la Tigre ha scritto un ordine preciso rivolto a voi, affinché veniste con me a Brisighella. Pensateci. Mi troverete nella locanda che vi ho mostrato prima.”

Mentre il ragazzo – perché tanto era agli occhi di Naldi un giovane uomo di ventisei anni scarsi – si rimetteva in sella e dava di speroni al cavallo, il Capitano si grattò la testa e fece due calcoli. Non sapeva come la Contessa avrebbe preso una sua libera iniziativa. Era noto che Achille Tiberti, dopo tante traversie, non era comunque mai stato punito davvero e, per quello che sapeva lui nemmeno Simone Ridolfi, partito per Marradi senza il consenso della Sforza, era ancora stato punito...

Però l'uno era un aggancio con Cesena impagabile e l'altro era un parente del defunto Giovanni Medici. Entrambi, insomma, avevano molte più garanzie di lui, agli occhi della Tigre.

Sospirando affranto, Naldi tornò alla sua cavalcatura, diretto al campo, pronto a dire ai suoi che la partenza per Brisighella era alle porte.

 

La giornata era passata veloce e senza grandi colpi di scena, a parte il ritorno di Ottaviano che, rispondendo all'ordine della madre con un ritardo minimo, era rientrato in Forlì da solo, accompagnato unicamente da una guardia che poi si era ricongiunta subito con il plotone di pattuglia assieme al nuovo comandante.

Caterina aveva accolto il figlio con un certo distacco, facendo sì che le apparenze si salvassero, ma senza riuscire a dimostrarsi troppo felice di riavere il giovane Riario sotto il suo tetto.

Dopo aver fatto fronte agli impegni più pressanti della giornata, tra cui c'erano state un paio di ispezioni al Quartiere Militare, dove erano sorti altri diverbi tra i soldati di leva e quelli di professione, la Contessa si era ritirata nelle sue stanze, decidendo di mangiare per conto suo.

Si era fatta portare da bere e della carne, con pane e formaggio di accompagnamento. Benché in tutto il giorno non avesse fatto altro che correre da una parte all'altra e cavalcare lungo le mura della città, per controllare che nessun punto fosse troppo scoperto, arrivata la sera si era ritrovata con lo stomaco quasi del tutto chiuso.

Aveva sbocconcellato qualcosa in fretta e poi si era messa a pensare alla corrispondenza. Aveva troppe lettere in sospeso, alcune delle quali molto importanti.

Tuttavia, mentre scriveva le prime – quasi tutte accorati e inutili appelli a signori minori che ancora non si erano schierati nè per Venezia nè per Firenze – la sua mente veleggiava in tutt'altri porti.

Erano arrivate le prime incomplete notizie da Modigliana e così aveva saputo che Dionigi Naldi aveva seguito lì Giovanni da Casale e che con loro c'era anche Fracassa.

Da un lato la Sforza si sentiva insofferente, nel pensare che Pirovano fosse in prima linea e avrebbe preferito riaverlo allo rocca. Anche se per prima gli aveva intimato di dimenticarsi dei momenti passati insieme, in realtà lei stessa non riusciva a evitare di rievocare quell'episodio e fremeva all'idea di rivederlo, per capire se le avrebbe fatto lo stesso effetto anche in seconda battuta. Anche se aveva avuto altri uomini, da che era partito, doverlo fermare prima che arrivasse a Forlì e rispedirlo subito su un altro campo di battaglia le era risultato difficile. C'era stato qualcosa di diverso, con lui, e voleva capire se si fosse trattato di un'illusione o di qualcosa di più.

Sapeva che non avrebbe mai più potuto amare un altro uomo, non come aveva amato Giovanni e soprattutto Giacomo, però, nell'ottica di non riuscire comunque a restare sola tutte le notti, l'ipotesi di trovare un amante fisso, piuttosto che mettersi a rischio con una girandola di uomini conosciuti solo superficialmente, non le pareva malvagia.

A sommarsi a questi pensieri c'era la consapevolezza che Fracassa aveva seguito gli altri a Modigliana, senza interpellarla.

Anche se aveva capito che il Duca di Milano – verosimilmente in risposta alla lettera che lei stessa gli aveva scritto per metterlo al corrente che Giovan Francesco Sanseverino aveva chiesto la mano di Bianca – aveva ripreso formalmente i fratelli Sanseverino, ristringendo su di loro il proprio guinzaglio e evitando di metterli di nuovo al suo servizio, la Sforza era rimasta basita nel vedersi sottrarre due comandanti tanto valenti all'improvviso.

Aveva sperato che il Moro, nel sapere uno dei due intenzionato a trovare con lei un accordo matrimoniale, avrebbe imposto loro maggior disciplina, e invece quell'avvertimento le si era ritorto contro.

Dopo le prima lettere, redatte a fatica, Caterina giunse a scriverne una proprio per suo zio. Non voleva assolutamente che quella storia dei Sanseverino passasse sotto silenzio e così si era adoperata per trovare un modo neutrale, ma comunque incisivo per far capire a Ludovico che lei non era affatto contenta di come stesse andando la loro alleanza.

Dopo qualche riga, sospirò e appoggiò la penna sulla scrivania. Rilesse le ultime parole che aveva scritto e le parvero passabili, ma non abbastanza dirette.

Così, nella riga dopo, cercò di appellarsi il più possibile al senso d'onore di suo zio, se per caso il Moro ne avesse avuto uno: 'Tre cose ho sentito per antiquo proverbio essere quelle che guastano il mondo: il respecto, suspecto, et despecto.'.

Si morse il pollice e poi, dopo averci pensato un momento, proseguì nella sua missiva, sperando che il Duca capisse davvero quello che voleva comunicargli.

Un paio di colpi alla porta la fecero saltare sulla sedia. Non era da lei spaventarsi per così poco, ma un po' la stanchezza e un po' la concentrazione che aveva messo nello scrivere, l'avevano resa più vulnerabile.

“Mia signora, perdonatemi.” fece Cesare Feo, restando sulla porta, benché la donna gli avesse dato il permesso di entrare.

I suoi occhi correvano rapidi alla Sforza, che, in sola vestaglia da notte, era tornata a sedersi alla scrivania e lo osservava interrogativa, la penna per scrivere stretta nel pugno e la fronte corrugata.

“Ricordate di quell'uomo di Firenze di cui mi avete parlato? Marulli..?” chiese il castellano.

“Certo.” fece Caterina, rimembrandosi di quando aveva accettato che quel vecchio amico di Giovanni si mettesse al suo servizio come uomo d'armi.

“Ecco, è appena arrivato in città e chiede di vedervi.” disse Cesare, chinando appena il capo, in attesa di ordini.

La Sforza ci pensò un momento. Si sentiva strana, quella sera, e aveva paura che conoscere qualcuno che era stato legato al suo ultimo marito potesse farle un effetto deleterio. Tuttavia si rendeva conto che trattare bene quell'uomo era necessario e giusto e così, mettendo da parte le proprie ritrosie, chiese a Cesare Feo di far attendere Marulli nel suo studiolo, che lei sarebbe arrivata nel giro di una manciata di minuti.

“Il tempo di vestirmi.” precisò la donna, andando verso il letto, su cui stava ancora steso l'abito da lavoro di quel giorno.

'Almeno quello' pensò tra sè il castellano, ma se ne andò senza commentare ad alta voce.

 

Paolo Vitelli, dopo aver conquistato due porte di Pisa, aveva preso anche la Torre di Foce e a Firenze cominciava a spandersi un certo ottimismo a riguardo della presa della città.

Semiramide, nel sapere quelle novità, si era aspettata che suo marito battesse il ferro finché era caldo e si prodigasse per sottolineare come quelle vittorie erano anche e soprattutto merito della loro alleanza con lo stato di Caterina Sforza che, tenendo il confine a est, aveva permesso ai fiorentini di non distrarre troppe truppe verso Marradi, concentrandosi quindi su Pisa.

Lorenzo, invece, pareva chiuso in un suo limbo personale, fatto di ombre e rancori e anche alla Signoria non perdeva occasione di accapigliarsi con chiunque, andando perfino a pestare i piedi, senza un reale motivo, al Segretario Machiavelli, un uomo che, l'Appiani ne era certa, nascondeva molto più potenziale di quel che pareva.

Mingherlino e sempre spettinato, Niccolò Machiavelli veniva preso in giro e sbeffeggiato da troppi membri della Signoria e in pochi si erano realmente accorti della sua vera indole. Egli faceva orecchie da mercante, si prodigava in lusinghe, si fingeva tonto quando serviva, ma alla fine sapeva sempre mettere un piede nella porta un istante esatto prima che gliela chiudesse sul naso.

Lorenzo, invece, stava sottovalutando anche lui, e Semiramide temeva che prima o poi l'avrebbe pagata cara, quella sua superficialità.

“Dov'è mio marito?” chiese la donna a una delle serve, dopo aver cercato il Popolano per metà palazzo.

“Credo di averlo visto prima andare...” la domestica sospirò e poi proseguì dicendo di averlo visto andare in direzione della camera che era stata di Giovanni, quando aveva vissuto lì.

Semiramide strinse le labbra e poi, tenendo alta la candela, attraversò i corridoi bui e le scale, fino ad arrivare alla stanza indicata dalla serva.

La porta non era chiusa e si intravedeva la luce del camino acceso. L'Appiani sbirciò dentro, sperando di non essere vista subito. Voleva parlare con Lorenzo, ma voleva farlo in un momento propizio. Se l'avesse visto preda della rabbia, avrebbe lasciato perdere e avrebbe cercato un momento migliore.

Quando fu abbastanza vicina all'uscio, si sporse appena e lo vide. Stava leggendo un libretto e il suo viso era contratto in una smorfia di dolore.

Seguendo il suo primario istinto, che era volto a consolare l'uomo che aveva sposato, Semiramide entrò nella stanza e gli si avvicinò.

Indifeso, colto in un momento di profondo smarrimento, Lorenzo, che stava seduto sull'ottomana accanto al letto di Giovanni, sollevò lo sguardo verso di lei, restando in silenzio.

La donna intravide che quello che il marito stava leggendo era un carme di Catullo, quello dedicato al fratello morto, e quel dettaglio le spezzò il cuore. Malgrado l'indifferenza che Lorenzo aveva dimostrato quando il loro amico Michele aveva mostrato loro la nenia funebre per Giovanni, Semiramide capiva ora che in realtà l'uomo ne era rimasto colpito e commosso.

Appoggiando la candela al tavolo, Semiramide lo strinse a sè, la testa sul suo seno, accarezzandolo come fosse stato un bambino, senza bisogno di parlare.

Lorenzo, dopo un primo momento di apatia, scoppiò a piangere a dirotto, nascondendosi tra le braccia della moglie, cercando in lei un conforto che non poteva trovare da nessun'altra parte.

Malgrado ciò, passato l'accesso di pianto, l'uomo parve tornare di pietra e ghiaccio e, allontanando Semiramide quasi di malagrazia, si alzò dall'ottomana e chiese, con la voce ancora mal ferma: “Che volevi? Perché sei qui?”

L'Appiani stentava a riconoscerlo. Quello che aveva tenuto stretto a sè fino a pochi istanti prima era l'uomo che era stato suo marito, ma quello che adesso la fissava freddo come un chicco di grandine era per lei uno sconosciuto.

Deglutendo, riprese la sua candela e lasciò la camera senza dire una parola, sicura che se Lorenzo avesse voluto capire, avrebbe capito benissimo anche da solo.

 
   
 
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