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Autore: Adeia Di Elferas    29/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Nelle narici sentiva l'odore pungente dell'incenso e quello più familiare, ma altrettanto forte, del bosco. Era un insieme assurdo, che si mescolava con il buio che le velava gli occhi.

Si rendeva conto che qualcosa non quadrava, eppure non riusciva a trovare un senso logico a quello che le stava davanti. Quando, finalmente, riuscì a vedere in modo nitido quello che aveva davanti, riconobbe il corpo tumefatto e gonfio di Giovanni, riverso nel letto che aveva occupato nelle sue ultime ore di vita.

La stanza buia si stava facendo sempre più fredda, e Caterina cercava di dire a voce alta il nome del marito, anche se, ogni volta che ci provava, quelle poche lettere le morivano in gola, senza riuscire nemmeno a sfiorarle le labbra.

Si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi nella penombra della sua camera da letto, stretta tra braccia forti che non riconobbe subito.

A rilento, come se fosse appena riemersa da un abisso, le tornarono in mente le cose successe la sera prima e poi quella notte, prima che si addormentasse, e ricordò chi fosse l'uomo che la stava tenendo stretta, chiedendole con voce accorata come stesse.

“Non è nulla – gli disse, secca – solo un incubo.”

Giovanni da Casale allentò appena la presa attorno alle spalle della Tigre, comprendendo che la donna non stesse gradendo più di tanto le sue attenzioni.

Lo sguardo della Contessa era un po' sperso e anche nella luce fioca del momento che precede l'alba i riflessi verdi delle sue iridi riuscivano a mostrare tutta la sua inquietudine.

“Nel vostro incubo... Stavate chiamando me?” chiese l'uomo, che era stato svegliato proprio dall'insistente e biascicato ripetere della parola 'Giovanni'.

Caterina si accigliò, faticando a trovare un senso a quella domanda. Quando capì, scosse con forza la testa e cercò di rilassarsi di nuovo, anche se a fatica.

“No, non stavo chiamando te.” rispose, senza una particolare intonazione: “Non era te che cercavo, no...”

L'uomo sospirò, senza fare altre domande. Solo in quel momento si era ricordato che anche l'ultimo marito della Leonessa si chiamava Giovanni e quindi, a ben pensarci, doveva essere lui, quello che la donna aveva invocato nel sonno.

Nel frattempo la Sforza stava cercando di dimenticare le orribili immagini che l'avevano strappata al riposo. Accoccolata contro Pirovano, gli passò lentamente una mano sull'ampio petto, sotto alle coperte, e poi lungo il fianco. Sentiva contro la propria pelle il suo corpo nudo e caldo, tanto forte quanto fresco. Quell'uomo aveva più o meno l'età che aveva Giacomo quando era stato ucciso e quel dettaglio, nella mente della Contessa, aveva un peso molto particolare.

Malgrado quel contatto e il profumo ancora presente del limone e delle erbe con cui Giovanni si era cosparso prima di incontrarla, Caterina avvertiva qualcosa di sbagliato, in tutta quella situazione. Si sentiva incompleta, quasi in torto per qualcosa.

Con un velo di tristezza, mentre sentiva il sonno tornare a tentarla, appoggiò con più sicurezza la guancia sulla sua spalla e gli sussurrò ancora una volta: “Non era te che cercavo...”

Anche Pirovano si riassopì e non si accorse nemmeno di quando la Contessa venne disturbata da qualche piccolo incubo, che, stavolta, aveva come protagonista il solito Ludovico Marcobelli.

Con il sole sorto da poco, la Tigre si svegliò e fece alzare anche Giovanni da Casale. Non voleva che li vedessero insieme. Anche se, probabilmente, qualcuno avrebbe malignato su di loro, era meglio non dare troppe prove gratuite di quello che avevano fatto.

Si rivestirono in fretta, ciascuno per conto proprio, e poi, appena prima di lasciare uscire il soldato, la Sforza gli disse, tenendolo fermo per un polso, come a sottolineare l'importanza delle sue raccomandazioni: “Faremo come se non fosse successo nulla.”

“Certo, mia signora – concordò lui, il viso impassibile e serio, come sempre difficile da decifrare del tutto – come se non fosse successo nulla.”

 

“E dunque pensi sia davvero così?” chiese Ottaviano Manfredi, sorbendo in silenzio un po' del vino che gli era appena stato versato nel calice.

La locanda, sulla via Emilia, era affollata e la confusione che gli assordava le orecchie rendeva quasi impossibile pensare che quella zona fosse sotto imminente minaccia da parte tanto dei veneziani quanto dei fiorentini.

Il suo informatore, un ragazzo che conosceva fin da quando erano bambini, vuotò il suo boccale e annuì: “Ti dico che anche in città ci sono ancora delle famiglie che sarebbero felici di vedere tornare gli Ordelaffi, e pure nelle campagne qualcuno lo preferiva alla Tigre.”

“Sapresti farmi un elenco preciso?” indagò Manfredi, appoggiando il gomito al tavolo e fissando occhi negli occhi il suo vecchio amico.

Questi ci pensò e poi, lasciando scivolare la mano in avanti, con un gesto apparentemente casuale, attese che Ottaviano gli mettesse sul palmo un paio di monete, prima di rispondere: “Direi proprio di sì. Mi serve solo qualche ora...”

“E allora fallo.” gli ordinò Manfredi, riappoggiando il calice sul tavolo e facendo una piccola smorfia: “Questi parassiti vanno estirpati.”

Antonio Maria Ordelaffi, lo si sapeva per certo, era al soldo veneziano e il Doge stesso lo voleva sfruttare come sostituto della Sforza, una volta rovesciato il governo della Contessa. Se a Forlì e nelle campagne esistevano ancora possibili sostenitori degli Ordelaffi, era necessario distruggerli, per evitare che la Tigre si trovasse sotto il fuoco incrociato di Antonio Maria oltre il confine e dei partigiani di lui all'interno dello Stato.

“E poi che ne farai?” chiese l'informatore, mettendo i soldi al sicuro.

“Questi non sono affari tuoi.” tagliò corto Manfredi: “E ora muoviti, vai a fare quello che ti ho chiesto. Ci rivedremo in questa locanda domani.”

Senza dirsi altro, il suo interlocutore lo salutò con un cenno del capo e lasciò la locanda. Ottaviano rimase ancora un po'. Pagò l'oste e poi osservò a lungo la varia umanità che si era radunata in quel piccolo locale ai bordi della strada.

Senza che ne capisse il motivo, di punto in bianco scoppiò una piccola rissa. Memore dei suoi anni raminghi passati tra una zuffa e l'altra, Manfredi sentì il richiamo dello scontro, ma, pensando a quello che lo aspettava nei giorni a venire, fece finta di non vedere la rissa, si alzò dal suo tavolo e voltò le spalle alla confusione, tornando in strada a recuperare il suo cavallo, per tornare dai suoi uomini.

 

Cesare Riario aveva preferito incontrare sua madre subito, per riferirle quello che era successo il giorno prima.

Caterina non lo fece aspettare e lo ricevette subito, nella tranquillità dello studiolo del castellano. Il ragazzo le raccontò della reazione di Lorenzo Giustiniani, podestà di Ravenna, alle sue parole e la Tigre – come il Riario aveva immaginato – non gli lasciò capire se fosse o meno soddisfatta dell'esito di quella piccola spedizione.

“Hai fatto quello che ti avevo chiesto.” gli disse solo, prima di lasciarlo andare: “Non mi hai fatto pentire di aver scelto te come mio inviato.”

Gli occhi castani di Cesare incrociarono per un lungo istante quelli della madre. Per una frazione di secondo la Sforza rivide il bambino affettuoso e docile che quel suo secondo figlio era stato da piccolo. Tuttavia, in un battito di ciglia, quello che aveva davanti tornò subito a essere il distaccato e rancoroso prete che ormai da anni viveva sotto il suo stesso tetto senza avere con lei quasi più nulla a che fare.

Sistemata, nella sua ottica, quella faccenda, Caterina si diede da fare e scrisse a Giovan Francesco Sanseverino, pregandolo di far rotto al più presto verso Forlì, giacché ci si attendeva un gran ritorno di fiamma da parte di Venezia.

Parimenti, dopo aver incontrato l'ambasciatore fiorentino, per chiedere se e quando la Signoria avesse intenzione di accordarle gli aiuti richiesti, si trovò intenta a scrivere un'altra missiva importante, questa volta destinata a Lorenzo Medici.

Per tramite di Pazzi, il cognato le aveva detto che per il momento non era intenzionato nè ad accordarle credito – e a queste parole Caterina aveva fatto notare che avere i soldi che spettavano di diritto a suo figlio Giovannino quali eredità paterna non poteva intendersi come credito – nè a far pressioni alla Signoria affinché le mandasse soldati e armi. Le raccomandava solo di farsi coraggio, di non avere troppa paura e, in sostanza, di non comportarsi da donnicciola sola e spaurita.

Così, ancora schiumante di rabbia per l'arroganza con cui Lorenzo le si era rivolta per interposta persona, la Tigre si era rimessa alla scrivania e, dopo aver tratteggiato in modo molto lucido la sua situazione, rimarcando l'importanza di far avere al più presto a suo figlio ciò che gli spettava per legge, aggiunse: 'Non importa che voi mi raccomandiate di farmi coraggio, perché son prima per sentire le botte che avere paura'.

 

Leonardo sollevò lentamente lo sguardo verso Ludovico Sforza. Non lo sopportava, quando alzava a quel modo la voce.

Il domine magister si era rintanato in quell'angolo del palazzo proprio per potersene stare tranquillo a ragionare sui suoi appunti, e invece quel mezzo contadino di un Duca era arrivato dal nulla al solo scopo di disturbarlo.

È vero che probabilmente il Moro non lo poteva vedere, visto che Leonardo era ben nascosto dietro il corrimano di pietra, seduto su uno degli ultimi gradini, ma il suo vocione arrivava senza problemi alle orecchie del povero artista che, suo malgrado, sentì nettamente le lamentele del suo mecenate.

“E se ne è infastidita, sapete quanto me ne importa!” stava sbraitando Ludovico, probabilmente camminando di gran carriera, visto il fiatone che seguì la frase.

Calco, che di certo gli stava alle calcagna, borbottò qualcosa in risposta, aizzando solo di più il suo signore.

“Mia nipote Bianca Maria è roba mia!” sbottò il Duca, fermandosi di colpo.

Leonardo sospirò, annusando l'aria che sapeva di nebbia, e scosse tra sè il capo, chiedendosi come potesse un uomo come lo Sforza illudersi ancora di avere potere sui suoi nipoti, specialmente sulle femmine. Dalla defunta Anna Maria, fino alla Tigre di Forlì, non una gli aveva mai dato retta...

“Già sopporto il fatto che se ne stia in Tirolo, disertando il letto di suo marito...” riprese il Moro, a voce appena più bassa: “E già non ho preso provvedimenti per questa suo riottosità a dargli un figlio... Ma che adesso mi venga a dire che i miei messi la controllano troppo da vicino... Questo no, che diamine!”

Il domine magister sollevò un sopracciglio, ma non si arrischiò a guardare oltre il corrimano, per paura di essere notato.

“Forse dovreste solo...” provò Calco, ma il Duca lo zittì subito.

“Sono certo che mia nipote Caterina sta cercando di contattarla. Non devo permetterle di arrivare a sua sorella. Se avesse l'appoggio dell'Impero, che se ne farebbe di me?” disse rapido Ludovico, allargando le braccia nell'aria umida del cortile: “Deve credermi la sua unica via di scampo. Deve farlo, o non riuscirò mai a prendere le sue terre. Deve fidarsi solo di me. Come Bona di Savoia ha fatto prima di lei.”

Leonardo sentì il cancelliere ribattere con qualche mezza frase, ma ormai i due uomini avevano ripreso a camminare e si erano allontanati troppo.

Richiudendo il suo taccuino, lo stesso su cui anni prima aveva annotato la ricetta per tingersi i capelli, l'artista si tirò in piedi e guardò in lontananza la figura smilza di Calco e quella mastodontica del Duca che si allontanavano.

Poco dopo, mentre ancora stava ragionando su quanto aveva sentito, Leonardo vide un ragazzino, probabilmente sfuggito dalle cucine, correre dietro a una gallina, anche lei fuggiasca.

L'aria grigia di quell'ottobre dava a quell'immagine qualcosa di tetro, per quanto il bambino ridesse e paresse divertirsi.

Leonardo ricordò la sua infanzia passata tra gli ulivi delle colline di Anchiano, allontanato, alla fin fine, tanto da suo padre quanto da sua madre e di rimando il suo pensiero corse a Ercole e Francesco, i due eredi maschi del Moro, nati dalla povera Beatrice.

Ancora piccolissimi il padre li aveva mandati nelle Fiandre, affinché venissero istruiti a dovere e tenuti al sicuro. Nessuno a corte aveva osato criticare quella scelta, ma, come in tanti altri frangenti, Leonardo avrebbe voluto dire al Duca che stava sbagliando tutto.

Così come ora stava sbagliando tutto con le sue nipoti. Se non fosse stato tanto accecato dalla sete di potere, collaborando davvero con loro avrebbe potuto creare un Impero tutto suo. E invece si limitava a fare come la gallina inseguita da quel ragazzino nel cortile: girava in tondo, con la certezza di sfuggire al peggio, quando invece a ogni giro si faceva più lento e affaticato, fino a che, alla fine, non si sarebbe fatto prendere per le ali e fatto spezzare il collo.

 

La Sforza soffiò, senza esprimere a parole il suo fastidio. Stava comodamente seduta su una delle poltrone nella sala delle letture, con Giovannino steso sul petto e sua figlia Bianca che leggeva ad alta voce dei brani di storia antica. Per il suo modo di vedere le cose, quella era una serata d'oro.

Eppure gli affari di Stato sapevano distruggere anche quella piccola pace che, di quando in quando, riusciva a ricrearsi.

“Arrivo.” fece, rivolgendosi al castellano, che era andato a malincuore a cercarla.

La donna lasciò il figlio più piccolo a Bianca, che chiese se fosse il caso di metterlo a dormire. La madre ci pensò e dato che l'incontro che l'attendeva era con Tommaso Gorio, inviato di Milano, valutò che non ci sarebbe voluto poco tempo.

Così, riluttante, disse: “Sì, mettilo a dormire. E poi ritirati anche tu. Ci vediamo domani mattina.”

Abbastanza docilmente seguì Cesare Feo fino alla saletta in cui avevano deciso di farlo aspettare.

Caterina aveva spiegato in modo chiaro al castellano come non si fidasse di lui e, quindi, non voleva che vedesse troppo della rocca, tanto meno le stanze del potere come il suo studiolo.

Gorio, che aveva incontrato la Contessa anche la sera prima – ricevendo da lei null'altro se non sterili lamentele verso Venezia e il suo modo scorretto di comportarsi, in special modo facendo riferimento alla apparente impossibilità di incontrare presto un portavoce del Doge – era del tutto immerso nei suoi pensieri quando arrivò la Leonessa.

Stava ripensando a quello che le sue spie avevano scoperto. Non era gran cosa, ma gli aveva dato molto su cui ragionare.

Prima che venisse spedito, un messaggio del podestà di Ravenna era stato intercettato e copiato e Tommaso aveva avuto modo di leggerlo.

Si trattava di poche parole, dirette esclusivamente al Doge e ai suoi più stretti collaboratori, con cui Lorenzo Giustiniani li metteva in guardia nei confronti della Contessa: 'Come quella madonna di Forlì – aveva scritto il podestà – facea ogni mal la potea'.

“Volevate vedermi?” chiese la donna, arrivando alle spalle di Gorio, che si era perso a guardare fuori dalla piccola finestra, verso il cielo già nero.

L'uomo si profuse in un ossequioso inchino e non perse tempo, dicendole quello che doveva dirle.

“Dunque, mia signora, capirete bene che il vostro atteggiamento potrebbe risultare molto pericoloso – concluse, dopo un lungo panegirico – giacché le forze che millantate di avere, in realtà sono ben poca cosa, rispetto anche solo ai fanti che Venezia sta schierando sul vostro confine...”

“Ma io posso contare sul pronto aiuto di mio zio, no?” ribatté Caterina, che in tutto il tempo non si era voluta sedere, restando in piedi davanti all'ambasciatore, le braccia incrociate e lo sguardo fisso e intimidatorio: “Il Duca di Milano mi aveva promesso fanti, arcieri, balestrieri, cavalieri... Ebbene, anche se non ho ancora veduto uno di questi nuovi soldati promessi, confido nel fatto che si siano solo attardati lungo la via.”

“Ma...” balbettò Gorio, non riuscendo a capire a che gioco stesse giocando la Leonessa: “Ma voi vi rendete conto che se Venezia vi attaccasse adesso, voi verreste spazzata via...”

“Non credo che a mio zio converrebbe, non credete?” chiese la Sforza, facendosi molto più seria e muovendo anche mezzo passo in avanti: “Se nell'attesa del suo soccorso dovrò resistere a un attacco...”

Tommaso la guardò stranito, mentre sorrideva, alzando i palmi della mani. Avrebbe voluto dirle qualcosa che potesse spaventarla, ma quella donna sembrava non sapere cosa fosse la paura, difficile dire se per arroganza o per ingenuità.

“Io sono pronta a sopportare tutto, per amor suo – proseguì la Contessa, con tono falsamente lieve e accomodante – ma avrei voluto vederlo molto più caldo, nel difendermi.”

La seconda parte della frase era stata accompagnata da un repentino virare della sua espressione, da leggera a molto grave.

“Perché non sopporto più di vedere di vedere con che rabbia e disordinato appetito procedono i veneziani in tutte le cose dove mettono bocca.” disse Caterina, e, subito dopo, senza che le fosse stato richiesto, riassunse tutte le scorrerie e le piccole incursioni che i Serenissimi avevano fatto a suo danno, sottolineando, ogni volta e invariabilmente, come il Moro fosse rimasto muto e immobile a ogni sua richiesta di soccorso.

“Dite a mio zio – concluse la Tigre, ormai sfinita dalla sua stessa filippica – che se dipendesse da me, vorrei fare almeno una scorreria nei campi veneziani o accamparmi sul territorio di Faenza occupato dai veneziani. Se solo potessi, imbraccerei la spada in questo momento e guiderei io i miei soldati. Diteglielo.”

Gorio deglutì in silenzio e annuì, chiedendosi cosa la stesse realmente trattenendo dal farlo. Di sicuro se si fosse messa alla testa dei suoi soldati, li avrebbe entusiasmati tanto da rendere il suo piccolo esercito il più feroce e temibile d'Italia.

'Se solo non avessi troppa paura di lasciare i miei figli da soli, se dovessi morire in battaglia – si disse da sola Caterina, pensando solo a Giovannino, Bianca, Galeazzo, Bernardino e Sforzino – io partirei davvero in questo stesso istante.'

Congedatasi con poche parole dall'ambasciatore milanese, quando uscì dalla saletta la Sforza chiamò una guardia affinché scortasse Gorio fin fuori dalla rocca.

Era ormai notte inoltrata e, anche se la rabbia e il senso di costretta impotenza che aveva provato nel parlare con il milanese la stavano tormentando, la donna pensò che andare a cercare Giovanni da Casale non sarebbe stato giusto.

La sera che era arrivato l'aveva voluto nella sua camera, ma dopo non l'aveva cercato più. Non voleva esagerare. Era pur sempre un uomo stipendiato da Ludovico.

Così, con l'esile speranza di riuscire comunque a spegnere il suo sangue caldo, andò nelle stalle, prese il suo stallone preferito e se ne andò per boschi, cavalcando il più in fretta che poteva, sentendo l'umidità e il freddo della notte entrarle fin nelle ossa. Si ripresentò a Ravaldino solo ad alba fatta.

 

La rocca di Santa Maria in Castello era appena caduta, e Paolo Vitelli aveva appena fatto in tempo a cavarsi l'elmo e tergersi il volto con uno straccio, lavando via con la pioggia fitta e fredda il sangue che era riuscito a entrare dalla celata.

Era stanchissimo e ancora arrabbiato per il litigio avuto con il portavoce della Signoria il giorno addietro, perciò, quando gli dissero che il Conte Riario stava per tornare al campo pisano, le sue parole furono animate solo dalla stizza: “Che stia al suo posto, però. Non ho nè il tempo nè la voglia di fare la balia a un ragazzino spaventato.”

L'attendente che gli aveva riferito la nuova si ritirò in buon ordine, mentre il suo comandante riprendeva a pulirsi.

I suoi uomini si stavano già sistemando nella rocca appena conquistata e gran parte dei cadaveri erano già stati portati via, malgrado ciò nell'aria restava l'odore dello scontro finito da poco e, Vitelli non poteva fare a meno di notarlo, mancava l'aroma dei cannoni.

Il litigio del giorno prima con il messo fiorentino era stato legato soprattutto a quello. Firenze si lamentava di lui perché chiedeva troppi soldi e stava gravando – a loro dire – troppo sul bilancio dello Stato. Di contro, Vitelli si lamentava di Firenze per i ritardi nei pagamenti dello stipendio ai soldati – che non vedendo arrivare denaro cominciavano a essere più difficili da tenere a bada – e anche del fatto che spesso e volentieri aveva dovuto anticipare di propria tasca i soldi per l'artiglieria e per le munizioni, il che, a suo modo di vedere, era inconcepibile.

Sbattendo le palpebre con forza, per contrastare l'intrusività della pioggia battente, Paolo fissò i soldati che si affaccendavano attorno a lui. Ormai Pisa la si poteva dire quasi del tutto in mano fiorentina. Era stato difficile ed erano morti molti uomini, ma ormai era quasi cosa fatta.

Con un'espressione funerea, mentre si rimetteva a camminare per raggiungere un posto coperto, il comandante si trovò a pensare che gente come il nullafacente Ottaviano Riario sarebbe arrivata appena in tempo per festeggiare la vittoria, potendosi poi vantare di aver preso parte all'assedio di Pisa, mentre altri valorosi armigeri erano morti senza lasciare quasi alcuna traccia di sè, benché quella vittoria fosse più loro che non di gente come quell'insulso Conte.

 

Caterina stava mangiando lentamente un po' di stufato di cervo. Accanto a lei stavano Galeazzo e Bianca che, invece, avevano preferito una colazione più leggera, limitandosi a servirsi di pane e qualche pezzo di torta secca.

La Contessa era pensierosa. Stava riflettendo sulla precaria situazione politica in cui si trovava e si chiedeva senza sosta cosa avrebbe fatto Giovanni al suo posto. Non si sentiva responsabile solo per il suo popolo e per sè stessa, ma anche e soprattutto per i suoi figli, in particolare Giovannino.

Si stava muovendo come un'equilibrista su una corda e temeva di cadere nel dirupo da un momento all'altro. Non stava mostrando a nessuno dei suoi alleati, tanto meno a nessuno dei suoi nemici, le sue reali intenzioni, ma, più andava avanti, più nemmeno lei sapeva quale fosse la sua effettiva posizione.

L'unica certezza che le restava in quelle ore di ansia era che le file veneziani al confine si stavano ingrossando e così aveva dato ordine a un osservatore di salire sulla torre comunale, dove aveva fatto mettere una grande campana – che portava da un lato il suo stemma personale e dall'altro il simbolo della città – affinché desse tanti colpi di batacchio quante squadre poteva scorgere all'orizzonte.

Quel giorno ancora non aveva avuto il riscontro dell'osservazione, ma mancava poco. Era certa che sarebbero stati più colpi del giorno prima, ma non voleva pensare a quanti.

Stava deglutendo l'ultimo boccone quando sentì, anche attraverso le pesanti pareti della sala dei banchetti, il rintoccare della campana. Non come se l'era aspettato però. Non colpi cadenzati e precisi, ma uno scampanellare frenetico e incessante.

Senza bisogno di andare a chiedere spiegazioni, la Tigre capì all'istante. Si alzò di scatto, facendo strusciare la sedia in terra e si pulì la bocca con il dorso della mano.

“Madre, che succede?” chiese Bianca, che, come Galeazzo, aveva capito che qualcosa non andava.

“Ci stanno per attaccare.” rispose Caterina, sicura di non sbagliare.

Il figlio, come chiamato all'azione da un comandante, scattò in piedi come la madre, ma questa lo frenò con un gesto della mano.

“Voglio combattere anche io.” disse il ragazzino, determinato.

La Sforza comprese che sarebbe stato vano provare a impedirgli di fare la sua parte, perciò optò per un compito non troppo pericoloso: “Corri al Quartiere militare e fa dividere le truppe: metà qui alla rocca e metà sui camminamenti. Che siano tutti armati, soprattutto con armi da lancio. Presto!”

Galeazzo partì all'istante e Bianca, che era rimasta ferma al suo posto, ancora seduta, fissò la madre attonita e chiese: “Possiamo resistere a un attacco?”

Caterina non lo sapeva. Non sapeva ancora nemmeno quanti soldati stessero marciando verso Forlì, ma dal suono opprimente delle campane – adesso si erano aggiunte tutte le campane della città, che, battendo a martello, richiamavano l'attenzione di tutti i forlivesi – immaginava non fossero pochi.

“Siamo sopravvissute a prove peggiori.” le disse, appoggiandole una mano sulla spalla: “Ora cerca i tuoi fratelli più piccoli e state dentro alla rocca. Non uscite per nessun motivo. Nascondetevi nelle cucine. E pregate.”

Quell'ultima aggiunta raggelò il sangue di Bianca che, ora più che mai, comprese quanto anche sua madre ritenesse la situazione disperata.

“Ora vai.” la incitò la Tigre: “Io devo correre a mettermi un'armatura. Starò alla testa dei miei uomini, fosse l'ultima cosa che faccio.”

   
 
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