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Autore: Adeia Di Elferas    30/07/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Devo mettermi addosso un po' di ferro – spiegò, camminando rapida, la Tigre, mentre Luffo Numai le zampettava accanto, cercando di stare al suo passo – e poi andrò direttamente alla Porta Schiavonia, perché devo decidere come coordinare la difesa.”

“Gaspare Sanseverino è tornato in città da meno di un'ora – l'avvisò Numai, il fiato grosso e gli occhi spaventati – dice che si è presentato in vostra difesa al posto di suo fratello Giovan Francesco perché quest'ultimo, nella strada verso la nostra città, è stato preso da certe febbri e ora riposa sulla strada di Fosso Verde, nella casa che era stata di Marino Orcioli.”

Nel sentir nominare uno degli Orcioli, la Contessa ebbe un solo, infinitesimale momento di tentennamento. Sapeva benissimo che quella – come tante altre case confiscate – era rimasta a uso e consumo dei viandanti o riqualificata come locanda.

Non le interessava sapere di preciso quale fosse stato il destino di quella di Marino Orcioli, perciò non fece domande a riguardo, limitandosi a dire: “Che Fracassa mi raggiunga al più presto alla Porta Schiavonia, allora.”

Lasciando indietro Luffo, Caterina allungò ulteriormente il passo, fino a raggiungere prima le sue stanze – dove recuperò un paio di brache da uomo e un camicione abbondante – e poi la sala delle armi. L'ambiente già brulicava di soldati che si scavalcavano l'un l'altro per prendere armature e armi e alla donna ci volle qualche minuto, prima di riuscire a trovare nella piccola folla il maestro d'armi.

“Prendete la mia armatura – gli disse – la mia spada da una mano e mezza e il mio elmo.”

Mentre l'uomo si buttava nella mischia, per raggiungere un armario chiuso a chiave dove custodiva i ferri della Sforza, la Leonessa sentì una voce che ormai conosceva bene alle sue spalle.

“Dunque ci stanno per attaccare.” le sussurrò Giovani da Casale, appena udibile sopra al clangore degli armigeri: “Avete già deciso come ci difenderemo?”

La Contessa lo guardò con la coda dell'occhio e si rese conto che il milanese era già vestito di tutto punto, perciò, non appena il maestro d'armi le portò le sue cose, lei le passò in mano al suo amante e gli ordinò: “Venite con me. Dovete aiutarmi a indossarla. Gli scudieri servono di più ai miei soldati che non a me.”

Senza protestare, Pirovano prese armi e bagagli e la seguì fino a una stanzetta al piano terra, usata di norma come ripostiglio. La donna non perse tempo e si spogliò in fretta, indossando gli abiti da uomo che aveva preso nella sua camera.

Giovanni non fece una piega, fingendo di non notare il corpo per cui aveva perso la testa, e non appena la Contessa fu pronta, l'aiutò a infilare ogni singolo pezzo della sua armatura.

In tutto ci vollero pochi minuti, ma a Caterina sembrava già di averci messo troppo tempo. Lasciò l'abito che aveva tolto lì dov'era, pensando che, se fosse sopravvissuta, sarebbe tornata a prenderlo in un secondo momento, e poi uscì dalla stanzetta, seguita da Pirovano.

Con l'uomo che la seguiva sempre a stretta distanza, la Tigre prese un cavallo dalle stalle e uscì poi a gran velocità dalla rocca.

Giovanni da Casale avrebbe voluto fare altrettanto, ma si era reso conto che a Ravaldino stava cominciando a crescere la confusione. In più, coperti dall'assordante suonare delle campane, stavano arrivando molti soldati dal Quartiere Militare e così, a malincuore, rimase al suo posto e fece del suo meglio per aiutare i Capitani a coordinare l'azione.

Caterina era finalmente arrivata a Porta Schiavonia. Scese dal cavallo ancora in corsa, benché appesantita dall'armatura e, levandosi l'elmo per tenerlo sotto al braccio, richiamò a sè i comandanti del rivellino.

Scesi dai camminamenti i due uomini le riferirono in poche rapide frasi di come i veneziani fossero arrivati con ogni probabilità dal campo che avevano allestito vicino a Villafranca e che, ormai, fossero a meno di un miglio dalle mura della città.

“Portate qui due passavolanti.” decise all'istante la Tigre, richiamando a sè tutte le sue nozioni di tattica e artiglieria: “Le due più grandi che abbiamo, e posizionatele dietro al fosso, dirette verso Ravenna.”

I due uomini annuirono e poi , quando la loro signora li lasciò liberi di agire, uno dei due corse verso l'armeria, mentre l'altro tornò dai suoi per scegliere gli artiglieri da posizionare alle passavolanti.

Nel frattempo, Fracassa era arrivato al cospetto della Tigre e assieme a lui Mongardini e altri Capitani della città.

“Fate in modo che l'intero esercito presente in città si posizioni per metà sui camminamenti delle mura – ordinò la donna, guardando di quando in quando il cielo grigio e carico di pioggia – e gli altri lungo le merlature della mia rocca. Dite loro di non stare fermi. Devono dare l'impressione di essere molti più di quelli che sono. Dobbiamo confondere i veneziani. Capito? E una fila la voglio con le balestre spianate, pronte a colpire.”

I Capitani annuirono e si affrettarono a eseguire gli ordini, mentre la Sforza fermò all'ultimo Fracassa dicendogli: “E voi state pronto. Se ce ne fosse bisogno, guiderete voi la carica di rincorsa.”

Il Sanseverino la fissò per un lungo istante. Davvero quella donna pensava di riuscire a mettere in fuga i fanti austriaci e tedeschi che il Doge aveva pagato così profumatamente? Come poteva pensare di aver ragione di stradiotti e truppe scelte, quando il suo esercito era un'accozzaglia di contadini e bottegai?

“Come ordinate, mia signora.” disse, comunque, pensando che la sua opera non sarebbe certo servita.

 

“Non piangere. Non piangere, ti prego. Non sta succedendo nulla. Lo sai che nostra madre sa benissimo quello che fa...” disse piano Bianca, cercando invano di consolare Sforzino che, atterrito, aveva cominciato a lacrimare in silenzio.

Le cucine erano stipate di donne e bambini e il velo di terrore che aleggiava su tutti loro aveva reso in un attimo quell'ambiente di solito accogliente un luogo inospitale e tremendo.

Bianca teneva tra le braccia Giovannino che, sveglio e vigile come sempre, si guardava attorno confuso, come chiedendosi cosa ci facesse tutta quella gente stipata in un posto tanto piccolo.

Bernardino se ne stava in un angolo, assieme ad alcuni suoi amici, figli di servi, e occhieggiava di tanto in tanto verso la sorella, con un'espressione molto difficile da decifrare. La Riario avrebbe voluto chiedergli di avvicinarsi di più, in modo da poterlo avere sottomano, qualsiasi cosa fosse successa, ma non aveva intenzione di dare spettacolo. Siccome temeva, infatti, che il bambino si sarebbe ribellato alla sua richiesta, preferì tenerlo d'occhio da lontano.

“Forzeranno le porte della città – cominciò a dire una serva, tenendosi la testa tra le mani – e prenderanno Forlì. Faranno scempio dei bambini, uccideranno gli uomini, e di noi donne...”

Non finì la frase, ma il silenzio tombale che seguì alla sua disperata dichiarazione pesò su tutti i presenti come un macigno.

Stringendo al petto il fratello più piccolo e Sforzino, Bianca chiuse gli occhi e fece quello che sua madre le aveva chiesto di fare: pregare.

 

Caterina aveva preso visione in prima persona dell'avanzamento delle truppe veneziane. Erano compatte e arrivavano con decisione tutte dallo stesso lato.

Dopo aver valutato il tempo che sarebbe servito ai veneziani per arrivare a tiro della loro artiglieria, aveva lasciato un momento i camminamenti, per essere sicura di aver pensato a tutto.

Mentre parlamentava in fretta con alcuni soldati, intravide in lontananza Galeazzo che, coperto dalla testa ai piedi da pezzi di ferro – un'armatura ricavata da pezzi che tra loro avevano poco a che vedere – armeggiava con una spada troppo grande per la sua statura ancora da ragazzino.

Ormai la Sforza conosceva abbastanza bene quel figlio e il suo orgoglio e quindi sapeva che non era il momento di prenderlo di petto. Se gli avesse intimato di andarsi a nascondere, probabilmente lo avrebbe solo mortificato o aizzato a fare l'eroe.

“Galeazzo, finalmente sei qui – gli disse, rapida, andandogli incontro – ho bisogno di te.”

Il ragazzino si fermò di colpo, la testa coperta da un elmo a rana che gli stava appena, la celata ancora sollevata e gli occhi accesi da quella che sembrava più determinazione che non paura, e di questo sua madre fu molto felice. Non avrebbe sopportato di scoprire anche in Galeazzo dei tratti di codardia che erano stati propri di Girolamo.

“Ordinatemi tutto quello che volete, madre.” disse il figlio.

Caterina lo guardò un momento. Avrebbe compiuto tredici anni a dicembre. Anche se nella sua mente spesso lo considerava già quasi un adulto, a vederlo lì in quel momento, provato dal peso dell'armatura e messo in difficoltà dalla stazza delle armi che si portava appresso, si ricordò che Galeazzo era poco più che un bambino.

Senza tradire la stretta al cuore che le stava per togliere la voce, la Tigre lo fissò e, posandogli una mano guantata di ferro sulla spalla coperta da una rondella tonda, gli disse: “Voglio che tu stia di guardia alle provviste. Quando entreranno dalle porte, sarà la prima cosa che cercheranno.”

Il Riario ricambiò lo sguardo, senza capire se quello fosse un modo per tenerlo lontano dalla confusione o se fosse davvero un segno di fiducia da parte della madre.

In un certo senso si trattava davvero di entrambe le cose. Il ragionamento della Contessa era stato semplice. Se i veneziani non fossero riusciti a entrare in Forlì, Galeazzo sarebbe rimasto più al sicuro vicino alle dispense che non vicino alle mura. Se, invece, i Serenissimi avessero forzato l'ingresso, allora a quel punto sarebbe stati tutti spacciati comunque e suo figlio avrebbe avuto l'occasione di morire con valore, da soldato.

Era un pensiero amaro, ma le dava conforto credere che, in un modo o nell'altro, si sarebbe trattata della soluzione migliore per Galeazzo, come per lei.

“Va bene, madre.” disse alla fine il ragazzino, girando subito sui tacchi, appena dopo aver aggiunto con fermezza: “Non vi deluderò. Combatterò per voi fino alla morte.”

La Tigre aveva avvertito uno spiacevolissimo crampo allo stomaco, ma lo aveva lasciato andare, chiedendosi se mai l'avrebbe rivisto.

Con un sospiro pesante, mentre le campane finalmente smettevano di suonare frenetiche, dato che ormai avevano raggiunto il loro scopo di allertare l'intera cittadinanza, la Sforza tornò a guardare verso i camminamenti e si avviò alla scala, pronta a fronteggiare il suo destino.

 

Lorenzo Medici teneva il capo chino e le mani giunte. Non sapeva dire da quanto tempo fosse inginocchiato davanti all'altare di San Lorenzo, nè avrebbe saputo dire se le ginocchia gli dolessero o meno.

Si era rintanato nella penombra della chiesa per pregare, ma alla fine, da quando si era inchinato, non aveva fatto altro che rimuginare.

Ripensava alle ultime lettere che Caterina Sforza gli aveva inviato e ai resoconti pessimi che il nuovo ambasciatore fiorentino a Forlì aveva spedito a lui e alla Signoria.

Insistere per riavere le cose di Giovanni non stava servendo a nulla e, Lorenzo ne era sicuro, quella dannata donna presto, se la guerra si fosse placata, sarebbe tornata alla carica in modo più prepotente per mettere le grinfie sulle case e sui soldi che sosteneva le spettassero di diritto.

Semiramide, la sera prima, aveva lasciato la tavola della cena in anticipo, proprio per colpa di quella strega. Tutto era cominciato da una frase innocente detta da Pierfrancesco, che, nel voler raccontare la sua giornata al suo apatico padre, gli aveva citato il diritto patrimoniale, argomento che stava approfondendo proprio in quei giorni assieme al suo precettore.

Tanto era bastato per indispettire Lorenzo che, dopo qualche battuta al veleno rivolta alla Tigre di Forlì, aveva scatenato la reazione di Semiramide. La donna, il marito proprio non capiva perché, non voleva piegarsi al suo modo rigido di vedere la situazione e gli aveva chiesto una volta di più di ripensarci e di cercare un punto di contatto con la cognata.

Quando Lorenzo si era impuntato, alzando la voce ed esclamando: “Piuttosto mi faccio tagliare il capo a tondo!”, la moglie aveva borbottato qualcosa che somigliava a un 'magari lo facessi davvero' e si era alzata, lasciando la tavola senza aver nemmeno assaggiato la seconda portata.

Lorenzo stava rivivendo ancora la scena della sera prima, quando, nel silenzio quasi perfetto della chiesa, sentì un fruscio.

Come sempre allerta, voltò la testa di scatto, già pronto a mettere mano allo spadino che teneva al fianco, quando riconobbe un profilo che gli era noto, per quanto gli paresse strano scorgerlo proprio a San Lorenzo.

“Perdonatemi, non volevo disturbarvi.” disse a voce molto bassa Lucrezia Medici, affiancandolo.

Lorenzo si rimise in piedi a fatica – le sue ginocchia erano tanto irrigidite da fargli capire che probabilmente aveva passato ore fisso in quella posizione – e, continuando a guardarla interrogativo, le chiese: “Stavate cercando me?”

La donna scosse il capo: “Sono venuta a pregare sulla tomba di vostro fratello. La sua morte non ci ha lasciati insensibili. Anche mio marito è passato di qui, in questi giorni.”

Il Popolano strinse i denti e poi, guardando il profilo deciso della cugina, decise di andarsene, perché non aveva voglia di intrattenere inutili conversazioni con una parente che verso di lui non poteva che nutrire del rancore: “Chiedo venia, cugina. Mi sono ricordato di avere impegni urgenti...”

Lucrezia non lo trattenne e aspettò che fosse alla porta, prima di camminare con lentezza fino alla lapide di Giovanni.

Non era la prima volta che si recava davanti alla tomba del cugino. Aveva provato una gran pena, per lui, nel saperlo morto tanto giovane e per una malattia tanto crudele. Tuttavia quel giorno era andata in San Lorenzo al solo scopo di pensare a mente libera.

Era una chiesa abbastanza solitaria e, forse perché vi era sepolto un morto recente, anche i preti sembravano voler mantenere la più perfetta pace, tra quelle navate, e si limitavano nei canti, ma non lesinava sull'incenso.

Con il naso che pizzicava, la Medici osservò a lungo la lapide del parente, ma la sua testa era immersa in tutt'altro.

Era notizia fresca, e ormai anche la Signoria lo sapeva, che suo fratello Piero fosse passato da Pieve Santo Stefano e che fosse ormai nella zona di Bibbiena, dove si stava recando anche il condottiero Bartolomeo d'Alviano. Lì, Lucrezia lo sapeva bene, Piero aveva delle conoscenze influenti che, forse, avrebbero potuto fare la differenza.

Stava ancora ragionando su come suo marito Jacopo avesse accolto quella notizia – con il suo solito fare moderato e imperscrutabile, quasi come se tutti quei fatti lo riguardassero solo marginalmente – quando avvertì dei passi in fondo alla chiesa.

Un paio di fedeli erano appena entrati per pregare e così la donna, capendo che anche quel posto non era più abbastanza tranquillo per le sue speculazioni, Lucrezia si segnò, dedicò un bacio leggero alla tomba del Popolano più giovane, e poi tornò in strada, sotto al cielo plumbeo di quel 24 ottobre.

 

Si stava alzando un vento abbastanza forte, che tirava verso le montagne. I veneziani erano arrivato a meno di mezzo miglio dalle mura e poi si erano fermati.

Caterina si era posizionata sui camminamenti, nel punto più centrale possibile, rispetto ai nemici.

Da lì, poteva vedere distintamente tutti gli squadroni dei Serenissimi. Anche se ne avesse visti solo la metà, avrebbe capito che se si fossero decisi ad attaccare, per lei e i suoi non ci sarebbe stato scampo.

Erano tantissimi, e parevano molto bene armati. Non portavano con loro artiglieria pesante, però, il che faceva credere che l'attacco fosse stato deciso all'ultimo minuto.

Era probabile, pensò la Tigre, che i veneziani avessero pensato che avvicinandosi alla città tanto improvvisamente, l'avrebbero colta di sorpresa.

Alle sue spalle e lungo tutta la cinta muraria, i suoi uomini continuavano imperterriti a muoversi, dando l'idea di un brulicare incessante. Era un espediente molto sciocco, secondo lei, però poteva funzionare.

Aveva deciso di non mettere l'elmo, e si era anche tolta la cuffietta di cotta di maglia. Sfruttando i refoli freddi che si infrangevano sulle pietre delle mura, aveva lasciato che i suoi capelli ormai bianchi si sollevassero nell'aria, rendendo palese la sua presenza ai nemici.

“C'è qualcuno che conosciamo?” chiese la Sforza al Capitano Mongardini, che le stava accanto.

Erano grossomodo in linea d'aria con il quadro di comando dei veneziani, ma, come lei stessa aveva ipotizzato, nemmeno il suo soldato riconosceva tra i comandanti qualcuno di noto.

“Potrebbero essere tutti mercenari austriaci.” commentò Mongardini, non trovando una spiegazione migliore.

Caterina annuì e rimase ferma al suo posto, immobile come una statua. Quella situazione si stallo andava avanti da ore, ormai.

Le campane avevano smesso di suonare e anche i Serenissimi non battevano più sui tamburi da guerra.

All'improvviso, sorprendendo tutti quanti, alcuna colonne di soldati si staccarono dalle altre e iniziarono una carica appiedata verso le mura della città.

“Balestre!” urlò allora la Tigre: “Arcieri!”

Non appena i primi assalitori furono a tiro, le primissime frecce li colpirono con precisione, facendoli cadere come mosche. La stessa Sforza si era fatta passare un arco e, dopo aver preso la mira, aveva ucciso un fante, e poi un altro, e un altro ancora. Sapeva dove colpirli, nei punti scoperti dalle armature di foggia nordica, e le parevano molto più lenti e prevedibili delle bestie che cacciava di notte nel bosco.

“Stanno avanzando verso il fossato!” urlò uno dei soldati, arrivando di corsa sui camminamenti.

La Tigre si ritrasse un momento, nascondendosi dietro una delle merlature. Il fossato, opera rimasta incompleta dopo la morte di Giacomo, era vicino alla rocca. Dunque delle squadre erano riuscite ad aggirare la città per colpirli dal lato opposto.

“Chi c'è a difesa di quella parte?” chiese la donna, fermando il soldato che aveva dato l'allarme, prendendolo per la spalla.

“Messer Giovanni da Casale e tutti i soldati di Ravaldino.” spiegò l'uomo, con il fiato grosso e gli occhi pieni di paura.

'E mio figlio' pensò tra sè Caterina, ricordandosi in modo repentino della vicinanza tra le dispense cittadine e la sua rocca.

“Bene, Pirovano saprà come rimandarli indietro.” disse, più per convincersi da sola: “Quanti sono?”

“Non molti, mia signora, due o tre brigate.” rispose il soldato.

Quella notizia – che con ciò non escludeva un secondo possibile attacco – rassicurò in parte la Leonessa che, dando una pacca al soldato, sbraitò, rivolta a tutti: “Continuate a muovervi! Arcieri e balestrieri! Respingete i nemici!”

I piccoli assalti durarono almeno un'ora, ma più i veneziani mandavano manipoli in avanti, più questi venivano sterminati dalle frecce, dalle pietre e da mille diversi proiettili che venivano scagliati dalle mura.

A un certo punto, mentre prendeva la mira, la Contessa guardò un po' più in là, verso i comandanti.

Li vide litigare. Si prendevano di certo a male parole e dopo un po' alzarono anche le mani. A quella vista, deglutì, sperando che l'impossibile stesse per accadere.

Ci volle ancora almeno una mezz'ora, ma alla fine gli screzi tra i comandanti arrivarono a un dunque.

Repentino com'era arrivato l'ordine di attacco, arrivò quello di ritirata.

I veneziani, che erano rimasti in gran parte a debita distanza dalle mura, voltarono sui tacchi come un sol uomo e iniziarono ad allontanarsi.

“Se ne vanno, porco mondo...” soffiò Mongardini, incredulo: “Li abbiamo respinti.”

La Sforza, che, abituata ai duri colpi della vita, non voleva credere fino in fondo a un simile miracolo, diede dubito voce a Fracassa, che aspettava a pochi metri da lei, sulle mura: “Inseguiteli!”

Gaspare Sanseverino, incredulo come tutti davanti a quella ritirata, dovette farsi ripetere l'ordine, prima di trovare la prontezza di scendere di corsa dai camminamenti e chiamare a sè i soldati.

Porta Schiavonia venne aperta all'istante e una fiumana di uomini – varie squadre dell'esercito stanziale della Tigre, più alcuni liberi cittadini che avevano deciso di fare la loro parte armati di forconi e bastoni – si riversarono in strada, diretti senza indugio alle calcagna dei veneziani.

 

Il lato di Ravaldino si era tranquillizzato già da un po' e Galeazzo, che non aveva mai mollato la sua postazione, se non per dare una mano ai soldati sui camminamenti quando c'era stato bisogno di respingere le brigate veneziane che avevano cercato di oltrepassare il fossato, aveva sentito chiaramente le trombe indicare la ritirata dei Serenissimi.

Era stanco, sudato e accaldato, benché il vento che gli sferzava il volto fosse gelido.

Non aveva dovuto fare molto, ma già passare le frecce agli arcieri – avrebbe voluto tirare di persona, ma non aveva ancora una mira accettabile e quindi non voleva fare perdere tempo e munizioni ai suoi cimentandosi in un lavoro che non sapeva fare bene – e dare indicazioni sui punti più vulnerabili, correndo da un lato all'altro dei camminamenti, gli era parso un gran impegno.

“Si stanno ritirando?” chiese Cesare Feo, dall'alto delle merlature di Ravaldino, riconoscendo Galeazzo, che stava tornando verso la rocca.

“Pare di sì!” esclamò il Riario: “Dicono che Fracassa li stia anche inseguendo!”

Il castellano sollevò una mano in segno di vittoria e poi fece segno al figlio della Tigre di mettersi al coperto. Anche se non si doveva mai abbassare la guardia, quello stravolgimento di ruoli tra attaccanti e attaccati aveva il potere di far sentire tutti quanti in una botte di ferro.

Galeazzo entrò nella rocca e venne accolto dai soldati che aspettavano nel cortile come un piccolo eroe. Non si sentiva tale, ma vedersi così benvoluto dalle truppe gli diede un grande piacere. Solo, pensò, avrebbe voluto che sua madre vedesse.

“Dove sono i miei fratelli?” chiese, incrociando Giovanni da Casale che, come tutti, cominciava a tranquillizzarsi.

“Nelle cucine.” rispose l'uomo, indeciso se fare o meno a sua volta i complimenti al ragazzino per aver preso parte attiva alla difesa della città.

Alla fine non fu in grado di dirgli nulla e Galeazzo lo salutò con un cenno del capo, andando subito nelle viscere della rocca per andare a raccontare a Bianca e agli altri quello che era successo.

 

Cesare Riario, che come molti chierici si era chiuso in preghiera in Duomo, nel sentire le campane tornare a suonare, ma questa volta a festa, si fece il segno della croce e ringraziò Dio per la sua infinita misericordia.

Aveva avuto paura di morire, quel giorno. Una paura tangibile e viva, come quando si era rifugiato assieme a Ottaviano dopo la morte di Giacomo, in attesa del verdetto della madre.

Già il fatto che la Contessa, quel giorno, alla notizia dell'attacco non si fosse nemmeno data la pena di cercarlo o di mandarlo a chiamare, gli aveva fatto capire davvero che era rimasto solo. Quando la donna diceva che ormai lui non era più affar suo, non mentiva.

Mentre alcuni preti facevano bruciare del nuovo incenso, intonando canti di lode, Cesare si alzò sulle gambe secche e un po' malferme e raggiunse con discrezione l'uscita del Duomo.

Le vie di Forlì era un vero caos, anche se l'aria che si respirava era abbastanza euforica. Il Riario comprese solo in quell'istante la paura folle che aveva provato in quelle ore.

Con una mano sullo stomaco, arrivò a lato della chiesa, e, sperando che nessuno lo vedesse, si chinò su se stesso e vomitò in terra quel poco che aveva mangiato all'alba.

Tossì un paio di volte e poi, una mano sul crocifisso, si disse che Dio l'aveva salvato anche quella volta e che, dunque, non doveva più temere nulla.

Non importavano le sue colpe passate, nè il rifiuto sempre più palese di sua madre. Lui aveva Dio e con il suo appoggio non gli sarebbe mai mancato nulla.

“Il Signore è il mio pastore...” sussurrò tra sè, tornando verso l'ingresso del Duomo: “Non manco di nulla.”

 

Caterina non lasciò i camminamenti fino a che non vide ritornare Fracassa assieme ai suoi.

Appurato il fatto che non ci fossero altri veneziani in vista, ordinò una stretta sorveglianza dalle torri e dai camminamenti e orari ristretti di apertura delle porte, ma per il resto decise di togliere lo stato di allerta.

Raggiunse il Sanseverino appena oltre Porta Schiavonia e gli chiese un resoconto di quanto accaduto lontano dalla sua visuale.

“Li abbiamo inseguiti per un bel pezzo – spiegò Fracassa, facendosi passare dell'acqua da uno degli scudieri che erano accorsi ad accogliere i soldati di ritorno – e poi li abbiamo visti andare in rotta...”

La Sforza annuì e chiese: “Li avete mai raggiunti?”

“No... Abbiamo solo ammazzato i loro ritardatari. Qualche fante caduto, qualche ferito... Ma erano rapidi, mia signora.” si schermì il comandante.

La Tigre avrebbe voluto di più, da un uomo come il Sanseverino, ma le bastava aver vinto la giornata. Adesso Venezia sapeva che lei non scherzava e, se aveva ben interpretato i malumori tra i loro comandanti, era probabile che presto il Doge si sarebbe sentito dire che la Leonessa di Romagna aveva ai suoi stipendi un esercito con il triplo degli effettivi previsti.

Dopo aver ricontrollato un'ultima volta Porta Schiavonia, andò in tutti i punti sensibili della città, acclamata come la più forte e geniale delle strateghe.

Quando arrivò a Ravaldino, poi, i suoi soldati la coprirono di grida di approvazione, battendo i piedi in terra e le spade sugli scudi.

L'esercito di Forlì stava gridando il suo nome in modo tanto cadenzato e a voce tanto alta che fin nelle campagne si poteva sentire un urlo netto e distinto: “Caterina! Caterina! Caterina!”

Galeazzo, che, recuperati i fratelli, si era rimescolato tra i soldati per accogliere la madre vittoriosa, non avrebbe potuto sentirsi più fiero di così di essere suo figlio.

Quando finalmente incrociò lo sguardo della madre, vide che Giovanni da Casale le stava dicendo qualcosa nell'orecchio e da come la Tigre lo fissava, il ragazzino capì che l'uomo le stava parlando proprio di lui.

Dal sorriso che illuminò il volto della Leonessa, mentre sollevava la spada verso di lui, in segno di riconoscenza e plauso, Galeazzo capì che anche lei, quel giorno, non avrebbe potuto sentirsi più fiera di così di essere sua madre.

 
   
 
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